mercoledì 24 gennaio 2018

Ozieri, origine ed etimologia

di Massimo Pittau e Cristiano Becciu

Ozieri [Otziéri, localmente e in zona (B)Ottiéri] (cittadina del Logudoro centrale). L’abitante (B)Ottieresu . Le più antiche attestazioni del toponimo si trovano nel Condaghe di Salvenor (CSMS 181, 185, 191) come Othigeri, Otigeri, Otier.
- Per questo toponimo è molto plausibile la spiegazione seguente: può corrispondere all’appellativo pansardo gutta, gúttia, (b)úttiu, (b)uttíu, gúttiu, guttíu, gútziu, (g)útzu «goccia, stilla», che è da confrontare – non derivare – col lat. gutta (di origine incerta; ThLL, DELL, AEI, OLD). Pertanto è molto probabile che il toponimo Ozieri sia protosardo o sardiano col significato di «sito gocciolante o stillante», cioè «sito ricco di sorgenti», alcune tuttora chiamate Su càntaru, Cantareddu, Sa 'Ena (vena d'acqua) ecc.
- Ozieri è caratterizzato dal suffisso -éri, che ritroviamo negli appellativi protosardi ereméri «dafne gnidio», istiéri «polline depositato nel miele», tonéri «rilievo tabulare dolomitico» e negli altri toponimi Licchéri (Ghilarza), Mattaleri (Santu Lussurgiu), Oniféri (Comune di O.?), Orgheri (Buddusò), Oroeri (Teti), Ortuéri (Comune di O.), Troccheri (Tonara), Venathitheri (Mamoiada), tutti relitti protosardi (questo suffisso protosardo non è confondere con quello molto più recente di banduléri «vagabondo», barbéri «barbiere, secapredéri «tagliapietra», ecc.; NVLS).
- Tale nostra spieazione è luminosamente confermata da questi altri troponimi di certo protosardi: Gotziddái (Olzai), Guthiddái (conca ricca di acque, Oliena), Othiddái (Lodè/Onanì), Otieri (Irgoli) ; Guttánnaro, Guttibái (Nùoro); (G)Ottianu, (G)Uttianu (= Gocèano; vedi); Guttímene, rivu Guthioddo (Orgosolo), Guttulichè (Nùoro/Orani), Guttuíne (Loculi), funtana Buttiachis (Suni), Búttule (Ozieri; antico Gutule, VSG).
- L’abbondanza particolare di sorgenti è propria delle due coste dal Monte Rasu, come è dimostrato dalla costa (sa Costera o Gocèano,] volta a sud/est, dove si trovano ben sette villaggi, uno vicino all’altro, Anela, Bono, Bottidda, Bultei, Burgos, Esporlatu e Illorai.
- D’altra parte è anche possibile che la più antica citazione del nostro toponimo sia quella dell’Anonimo Ravennate (scrittore latino del VII sec. d. C.): Eteri praesidium. Rispetto ad Otieri è facilmente spiegabile una forma in parte errata di Eteri, dato che la prima vocale è pretonica e quindi facilmente esposta a mutare, per cui si può ipotizzare una forma originaria *Guteri.
- Questa nostra spiegazione viene rafforzata dall’analisi storico-linguistica  del citato Eteri presidium. Questo sarà stato disposto dai Romani per difendere dagli attacchi dei sempre ribelli e razziatori Sardi delle montagne la assai importante strada romana che andava da Calaris ad Olbia attraversando anche la Piana di Chilivani. Una conferma per questa ipotesi viene dal fatto che subito dopo l’Anonimo Ravennate cita un altro presidio chiamato Castra Felicia, il quale corrisponde chiaramente a Castra presso Oschiri . E c’ è da osservare il procedere dal meridione al settentrione secondo cui l’Anonimo Ravennate cita le località: Nora praesidium, Aque calide Neapolitanorum, Eteri praesidium, Castra Felicia.
- [Questo procedere dal meridione al settentrione è un’ottima prova del fatto che la varietà campi danese della lingua sarda si differenzia alquanto dalla varietà logudorese per il motivo essenziale che questa proveniva dal latino di Roma e del Lazio, mentre quella campidanese proveniva dal latino dell’Africa Proconsolare, che era omai diventata un grande centro di cultura romana e di lingua latina (vi erano nati gli scrittori Cipriano, Lattanzio, Tertulliano, Sant’Agostino, ecc.)].
- La lunga presenza dei Romani nella zona di Ozieri è chiaramente dimostrata dal vicino ponte romano (Ponte ‘Etzu) a sei arcate che valica il riu Mannu. In una mia visita di circa 50 anni fa avevo notato una specie di scacchiera da gioco incisa su una pietra levigata inserita all'inizio del parapetto del ponte nella riva sinistra: sarà stata adoperata come passatempo dai soldati romani in servizio di guardia. In una mia visita successiva purtroppo la pietra risultava scomparsa: buttata nel fiume oppure trafugata?
- Però il sito di Ozieri ha conosciuto la presenza umana anche molto tempo prima, in epoca nuragica e pure in quella prenuragica, come dimostrano sia il grandioso nuraghe Bùrghidu (Bùghhidu) sia quello  situato all’inizio della salita per Ozieri, detto di Santu Pantaleo,
sia infine i reperti archeologici rinvenuti nella grotte di San Michele, appartenenti a quella che per l’appunto è stata chiamata la “cultura di Ozieri”. Queste grotte sono il sito gocciolante per eccellenza, posto all'interno della cerchia urbana di Oziei.
La presenza di stanziamenti umani nel sito era determinata e favorita sia dalla notevole abbondanza di sorgenti sia dall’antistante Piana di Chilivani, molto adatta alle attività pastorale ed agricola.
-  Ozieri risulta fra i borghi della diocesi di Bisarcio che nella metà del sec. XIV versavano le decime alla curia romana (RDS 259, 901, 1745). Esso è citato nel Codice Diplomatico delle relazioni fra la Santa Sede e la Sardegna (CDSS II 98), nel Codex Diplomaticus Sardiniae, nell'atto di pace fra Eleonora d'Arborea e Giovanni d'Aragona del 1388 (CDS 831/1, 832/1), nel Codice di Sorres (CSorr 255 dell'anno 1471). Risulta ancora citato parecchie volte nella Chorographia Sardiniae (100.30; 126.31,32; 128.12,19,24; 184.28,31) di G. F. Fara (anni 1580-1589) come oppidum Ocieris.


domenica 21 gennaio 2018

D’accordo con Usai. La scienza è una cosa seria


Breve commento all’intervista di Oubliette Magazine al Soprintendente su Monte Prama

di Franco Laner



“Io osservo che le statue sono molto fragili e facilmente sbilanciabili; penso che non potessero restare in piedi a lungo, perciò credo che siano cadute da sole dopo qualche tempo; però non escludo un’azione violenta da parte di altri nuragici. In ogni caso mi sembra probabile che fenici e cartaginesi abbiano visto solo pietre rotte; possono aver continuato a romperle, ma che abbiano avuto l’intenzione di distruggere l’eredità culturale nuragica, dopo tanti secoli, è tutto da dimostrare…
In conclusione, nessun mistero e nessuna omissione; solo la dimostrazione, l’ennesima, che la scienza è una cosa seria e complessa, ovvero la conoscenza sulla base di dati storici e scientifici, sui quali ci si confronta mettendo da parte complotti, congetture ed invenzioni, questi ultimi elementi cardine della pseudoscienza, ovvero gabbare l’insipiente muovendone “la pancia” piuttosto che la testa, magari saggiandone le tasche nel mentre.”
La lettura di questa intervista ha mosso anche la mia di pancia. Fortunatamente il cesso non era distante!
Che bella osservazione ha fatto il Soprintendente:
“Io osservo che le statue sono molto fragili e facilmente sbilanciabili; penso che non potessero restare in piedi a lungo, perciò credo che siano cadute da sole dopo qualche tempo.”
Ecco, proprio come sostiene l’Intervistato, la scienza è una cosa seria e complessa: l’osservazione è solo il punto di partenza della ricerca scientifica. L’osservazione è importante, ma poi l’oggetto dell’osservazione va sostenuto con logica e consequenzialità. Va quantificato, ne vanno argomentate le deduzioni. Dire che le statue siano fragili non basta. È necessario quantificare la fragilità, argomentare la “sbilanciabilità”. Per far ciò è necessario conoscere le caratteristiche fisico-meccaniche delle pietre per scolpire, bisogna conoscere la scienza dell’equilibrio, ovvero la statica. Solo allora ha senso dedurre e validare un’osservazione.
Ma allora, quando chiesi -iteratamente- al Soprintendente Usai di avere qualche frammento per effettuare analisi e prove di laboratorio mi fu rifiutato sostenendo che non era necessario.
Commentare il resto dell’intervista sarebbe un esercizio inutile. Basti l’affermazione che un oggetto con un abaco, un echino, l’attacco della colonna sia un modello di nuraghe -nuraghi quadrati?- e non possa essere un capitello!
Perché? Ecco la spiegazione:
“Qui il problema è semplicemente archeologico: esistono capitelli nella civiltà nuragica? Un capitello ha bisogno di una colonna o di un pilastro di dimensioni adeguate, e anche ammesso che fossero in legno, una colonna o un pilastro hanno bisogno di una base in pietra di dimensioni adeguate, come si vede in molte parti del mondo, per esempio negli arcinoti palazzi minoici e micenei. Ma in Sardegna non se ne conoscono. Strano che nessuno, all’infuori degli archeologi che lavorano sul campo, pensi a queste semplici connessioni funzionali di elementi costruttivi.”
Ahimé, proprio dagli scavi di Monte Prama vengono fuori elementi cilindrici, di un paio di metri di lunghezza e diametro di alcuni decimetri, che ora non mi sento più di chiamare colonne.
Forse Usai, ammettendo che ci possano essere capitelli, dovrebbe conseguentemente sostenere che Monte Prama abbia datazione attorno al V secolo, quando in Grecia si cominciano a realizzare templi di pietra, al posto di quelli di legno.
Concordo con la conclusione di Usai: sulla scienza ci si confronta mettendo da parte complotti, congetture e invenzioni.

Perché non lo mette in pratica?

venerdì 12 gennaio 2018

Etruschi a Tavolara

di Massimo Pittau

A proposito della recente notizia del ritrovamento di un centro abitato degli Etruschi nell’isola sarda di Tavolara, mi permetto di intervenire per fare una importante precisazione, riportando un capitolo della mia opera “Storia dei Sardi Nuragici 8 Selargius, CA, 2007).

§ 64. L'"Orientalizzante" nella civiltà etrusca e nella civiltà nuragica

Che l'etnia etrusca non sia affatto autoctona nella penisola italiana, ma sia al contrario venuta dal di fuori è chiaramente dimostrato da due elementi che caratterizzano la sua civiltà al suo primo apparire: la repentinità e la maturità. In termini archeologici la civiltà etrusca si presenta innanzi tutto in maniera repentina od improvvisa nelle coste tirreniche dell'Italia centrale, senza alcun precedente adeguato nei luoghi e nelle città in cui essa si è affermata storicamente; in secondo luogo essa si presenta fornita di tutti i caratteri di una civiltà già matura, cioè già molto avanzata in termini di sviluppo civile e per di più enormemente ricca.
Per il vero questi due fattori della repentinità e della maturità sono stati messi in discussione e respinti dagli studiosi moderni appartenenti alla corrente autoctonista (§ 11). Questi infatti hanno tentato di dimostrare che fra la precedente «cultura villanoviana» dell'età del bronzo e degli inizi di quella del ferro affermatasi in Italia da un lato e quella etrusca dall'altro non sarebbe esistita alcuna soluzione di continuità, non sarebbe mai esistito alcun "salto" né quantitativo né qualitativo e che quindi la «civiltà etrusca» non sarebbe altro che il progressivo e lento sviluppo della precedente «cultura villanoviana», la sua naturale e progressiva "maturazione". Senonché questo tentativo degli autoctonisti è fallito, come doveva fallire, completamente, posto che nessuno studioso che non abbia idee fisse e preconcette da difendere, potrà sostenere con serietà e soprattutto con prove oggettive che esiste una esatta continuità di sviluppo e di maturazione, ad esempio, fra le modestissime tombe villanoviane costituite da due scodelle coperchiate l'una sull'altra e le tombe monumentali a pseudocupola dei primordi della civiltà etrusca. La circostanza poi - sottolineata ed enfatizzata dagli studiosi autoctonisti - della presenza di reperti villanoviani nei medesimi siti in cui si è poi sviluppata la civiltà etrusca non costituisce affatto una prova contraria alla tesi dell'origine anatolica o microasiatica degli Etruschi, ma anzi si staglia perfettamente nelle notizie storiche che ci sono state tramandate, quale quella di Plinio il Vecchio, che parla di 300 città strappate dai Tirreni od Etruschi agli Umbri, e quali quelle che conservano il ricordo della conquista da parte dei Tirreni/Etruschi di parecchie città dell'Italia centrale, come Cere, Pisa, Saturnia, Alsium ed anche Roma\1\.
Dunque i Tirreni/Etruschi invasori che venivano da terre d'oltre mare, cioè sia i Tirreni/Nuragici della Sardegna sia i Tirreni/Lidi dell'Asia Minore, non hanno in linea generale "fondato" propriamente le loro città, bensì si sono limitati a conquistare i precedenti centri di «cultura villanoviana» abitati dagli Umbri. E proprio così si può spiegare la circostanza che di alcune di quelle città si conoscevano due nomi, evidentemente quello originario dato dagli Umbri o dalle popolazioni italiche e quello successivo imposto dagli Etruschi: Agylla/Caere, Anxur/Tarracina, (A)Urina/Saturnia, Camaris/Clusium, Teuta/Pisa, Volturnum/Capua, ecc.\2\.
«La civiltà etrusca dell'età storica - ha scritto l'autorevole storico francese Jean Bérard, nella sua geniale opera La colonisation grecque de l'Italie méridionale et de la Sicilie dans l'antiquité - si afferma in opposizione a quella villanoviana nel cui seno si sviluppa; e nulla è più diverso e contrastante dalle povere tombe a incinerazione del periodo villanoviano delle ricche camere funerarie del periodo etrusco vero e proprio»\3\.
Lo ripeto e ribadisco: di fronte e di contro alle modestissime manifestazioni della precedente «cultura villanoviana», la «civiltà etrusca» si presenta in maniera repentina od improvvisa come una civiltà del tutto matura in termini civili ed inoltre caratterizzata da una ricchezza straordinaria.
Non solo, ma questa civiltà etrusca presenta una precisa e inconfondibile connotazione: quella di essere permeata e sostanziata da innumerevoli e chiarissimi elementi che rimandano all'Oriente mediterraneo: usanze, credenze religiose, vasi, armi, vestiario, moduli architettonici, plastici e figurativi, ecc. ecc. L'insieme di tutti questi elementi appartiene già alla più sicura e ormai indubitabile storiografia etrusca ed è entrato nel vocabolario degli studiosi col termine di «Orientalizzante».
Anche per l'«Orientalizzante» i moderni studiosi della corrente autoctonista hanno tentato una operazione disperata: i numerosissimi e vistosi elementi orientali che si trovano ai primordi della civiltà etrusca non sarebbero affatto il risultato dell'arrivo di folti gruppi di uomini dall'Oriente mediterraneo in Italia, ma sarebbero semplicemente il risultato di intensi scambi intercorsi - anche per il tramite dei soliti Fenici! - fra gli eredi della «cultura villanoviana» e le varie popolazioni del Mediterraneo orientale. Senonché ha giustamente fatto notare Jacques Heurgon, uno dei più acuti studiosi della civiltà etrusca, che gli elementi dell'Orientalizzante sono tanti e tali, che è difficile che siano il frutto di semplici scambi commerciali, mentre è assai più ovvio ritenere che siano il frutto di un massiccio arrivo di uomini orientali in terra d'Etruria (§ 11 e note).
Però è molto importante aggiungere e precisare che un fonemeno di «Orientalizzante» esiste sicuramente anche nella «civiltà nuragica»: come abbiamo visto ampiamente nelle pagine precedenti, pure usanze, credenze religiose, vasi, armi, vestiario, moduli architettonici, plastici e figurativi, ecc. dei Nuragici rimandano sicuramente e chiaramente all'Oriente mediterraneo. 

martedì 2 gennaio 2018

Spocchia dell’archeologia e archeologia della spocchia in Sardegna Consuntivo di un anno di attenzione e studio

di Franco Laner

Già l’atteggiamento altezzoso dà fastidio. Se però esso è accompagnato dal vuoto, il fastidio si trasforma in disagio. Voglio dire che si può tollerare la superbia di uno studioso vero, anche se l’umiltà paga con gli interessi, ma qualora l’altezzosità sia accompagnata dall’ignoranza, il rifiuto è doveroso e il malessere giustificato.
Questa è la sintesi di alcuni episodi provocati dai miei tentativi di capire gli ultimi eventi archeologici sardi, come la vicenda di Monte Prama, all’apice dell’interesse archeologico nell’Isola, assolutamente sconosciuta altrove, nonostante i tentativi promozionali della Regione, in particolare turistici.
Eppure l’anno si era aperto per me positivamente. Avevo chiesto di partecipare con una relazione sui risultati di caratterizzazione meccanica del biocalcare di Monte Prama al Convegno regionale “Notizie e scavi della Sardegna nuragica”, Serri, 20 aprile 2017. Dapprima la memoria era stata accettata e inserita nel programma del Convegno. Successivamente mi sono state chieste informazioni su come avessi reperito i frammenti sottoposti a prova. La relazione è stata quindi declassata a poster. Alla fine non relazionai sui risultati di caratterizzazione meccanica, che dimostrano che le statue non potevano stare in piedi, con buona pace degli organizzatori e dell’archeologia ufficiale, che non vuole discutere nemmeno alla luce dei dati di sperimentazione eseguiti da Laboratori specializzati.
Pazienza. E che dire della Soprintendenza archeologica di Cagliari che rifiuta sistematicamente ogni confronto su evidenti discrasie ricostruttive delle statue, con errori evidenti e dimostrabili, pur di sostenere assunti fantasiosi, come definire modello di nuraghe capitelli quadrati, scambiare chevron con parapetti apicali di legno dei nuraghi, ricostruire scudi quadripartiti al posto dei chiari pentapartiti ed attaccare membra posticce a corpi casuali con il risultato di esibire anacronistici Frankestein.
Trovo del tutto indegno il rifiuto della Soprintendenza - posso esibire il carteggio intercorso - ad uno studioso, pur esterno all’Archeologia sarda, accademico di disciplina non estranea ad una visione interdisciplinare e capace di apporti originali, di effettuare prove meccaniche e petrografiche, pur previste dal protocollo di indagine sulle statue, in assenza anche di dati del Dipartimento di Geologia di Cagliari. In altre parole, è concepibile ragionare, ricomporre, esibire oggetti di cui non si conosce la sostanza, la durabilità, la resistenza meccanica e quindi la scolpibilità?
Fortunatamente si possono ancora pubblicare nel nostro Paese i risultati di studi e ricerche, dedurre consequenziali giudizi e sottoporsi al confronto delle risultanze. Perciò ho potuto pubblicare “Indagini su Monte Prama” di cui sono orgoglioso, nonostante i legittimi giudizi dispregiativi, mai comunque sostenuti da prove, da logica o critica scientifica. I pochi giudizi sono stati espressi in forma anonima, quindi vigliacca.
Già vent’anni fa con “Accabadora” mi esposi sostenendo teorie distanti dall’ufficialità, lo stesso ho fatto con “Sa ‘ena” ed ora con queste “Indagini” ho chiuso la mia avventura archeologica sarda.
Mi dispiace che l’Archeologia si sia seduta sul coperchio dell’incommensurabile scrigno del patrimonio archeologico. Il peso enorme dei culi di pietrameri burocrati – impedisce che si sollevi il coperchio e che si goda del contenuto, sia culturalmente, sia economicamente.
Infine, per la gioia degli occhi ecco due foto, che M. Muscas mi ha spedito da Santa Cristina, straordinario monumento della storia dell’architettura mediterranea. La terra e il sole visti dalla luna e il sole nella geometria del pozzo. Astronomia che gli archeologi sardi non riescono a coniugare con l’archeologia, troppo intenti a solo ciò che brilla sulla punta del piccone, incapaci di alzare gli occhi della mente.

Venezia, 1 gennaio 2018