giovedì 30 novembre 2023

Nessun parapetto sui nuraghi

di Franco Laner

Che la parte sommitale, la terrazza, di un nuraghe fosse munita di un parapetto di protezione per non cader di sotto, è per me inconcepibile, per i motivi che di seguito elenco.

Primo. Nessun parapetto è mai stato trovato in opera. Né di muratura, né di legno. Ovvio che se il parapetto fosse stato di legno, non sarebbe mai giunto a noi, ma non ci sono segni di presenza di buche di infissione di pali o altri indizi.

Secondo. La terrazza di qualche nuraghe, dove si è conservato un tratto integro, mostra una finitura piana, ben ordita, direi pavimentata. Uno spazio aperto dove una chiusura sarebbe un limite gratuito e pleonastico.

Terzo. La preoccupazione per la protezione è storicamente recente. Per sostenere tale asserzione porto l’esempio dei ponti romani che non sono mai stati concepiti con parapetti, anche se oggi questi manufatti ne sono muniti. In un articolo che scrissi nel 2004 per l’Almanacco Gallurese, n.12 “I ponti romani in Sardegna” dove ho documentato la differenza tecnologica fra i ponti romani e quelli romanici, riduttivamente nominati genericamente “vecchi” e intesi come romani, sottolineavo come tutti i parapetti fossero aggiunzioni degli ultimi 2-3 secoli. I ponti vecchi erano tutti privi di parapetto.

Pont’ezzu di Ozieri sul fiume Mannu sotto il quartiere di S. Nicola. Sono ancora visibili i danni provocati dal passaggio di una ruspa. Grazie a questo danno ho potuto però constatare che il parapetto è stato costruito a posteriori sull’estradosso lastricato

Questa annotazione mi era stata suggerita ispezionando il bellissimo Pont’ezzu di Ozieri, sicuramente romano, costruito sul fiume Mannu, 200m sotto il nuraghe Sa mandra e sa Jua, sulla strada che da Ulbia passava Lugudo e sbucava a Hafa (Bonorva) congiungendosi con l’arteria che partiva da Turris Libisonis per scendere a Sud. Negli anni Cinquanta un contadino, nel passare con una ruspa aveva abbattuto tratti del parapetto. Tutt’ora è visibile il danno, ma si può notare che il muretto del parapetto è stato a posteriori costruito sopra le grandi lastre del selciato. Da allora ho guardato questo particolare e in tutti i ponti romani si nota come i parapetti siano stati costruiti con apparecchi murari differenti da quelli del ponte, non solo in Sardegna, ma anche nei ponti romani del continente.

Ponte romano a Bingia Manna, Decimomannu. È chiaro che il parapetto è disetaneo al ponte

 

Ponte di età imperiale Turris Libisonis (Porto Torres). Anche in questo caso è percepibile la superfetazione del parapetto

D’altra parte anche i ponti in muratura veneziani erano privi di parapetto, così come le fondamente sui rii (fondamenta, plurale fondamente, è il tratto di strada che costeggia un rio e le case). Solo nell’Ottocento furono aggiunte queste protezioni. Rimangono ancora due ponti e diverse fondamente prive di parapetto. Senza parapetto il ponte romano era essenziale. Largo quanto bastava per il transito dei carri – intorno ai 2,3 -2,7m – e in caso di piena la mancanza dei parapetti diminuiva la spinta dell’acqua. Le bestie da soma hanno forte il senso dell’equilibrio, ma anche gli ubriachi finiscono difficilmente in acqua da una fondamenta senza parapetto. Oggi è inconcepibile la mancanza di parapetti, balaustre e ringhiere. Perciò questo manufatto protettivo viene acriticamente esteso al passato, per mancanza di capacità di contestualizzazione, categoria indispensabile per chi si occupa di tecnologie del passato.

 

Ponte di muratura a Torcello privo di parapetto. Solo nell’Ottocento i ponti di muratura furono dotati di parapetti

Perché allora si assegna al nuraghe il parapetto sommitale? A causa dei cosiddetti modellini di nuraghe, che sono intesi come maquette dei nuraghi (modelli in scala ridotta), che hanno una sporgenza sommitale, ornata con motivi a zig-zag (chevron propiziatori, simbologia rituale e sacra), immaginati come parapetti.

Altra solenne cantonata! I modellini di nuraghe sono un imago mundi, interpretazione già accettata e definita cento anni fa nel Convegno archeologico in Sardegna del 1926 promosso da Taramelli: i quattro pilastri che sostengono il mondo posti nei punti cardinali e l’axis mundi centrale che collega inferi-terra-cielo. In altre parole tali modellini vivono di per sé e ci sarebbero anche senza i nuraghi.

Anche i nuraghi quadrilobi sono un’imago mundi. Ma non si guardi il modellino come maquette di nuraghe e soprattutto gli chevron come parapetti!

Cosiddetto modello di nuraghe con chevron, intesi come parapetto. Le banalità sono la conseguenza dell’incapacità di vedere e contestualizzare

È stato recentemente avviata dall’associazione Perdas Novas di Gergei un interessante campagna di archeologia sperimentale sulle tecnologie nuragiche, a cui questo blog ha dato spazio. Prima di dar avvio alla ricostruzione di particolari costruttivi dei nuraghi particolarmente interessanti è però necessario contestualizzare e dare senso a ciò che si vuol dimostrare, come proporre le modalità realizzative per sovrapporre i grandi massi, per varare l’architrave di soglia dell’entrata (la pietra più grande di ogni nuraghe), costruire una cupola senza centina, estrarre monoliti e trasportarli e metterli in opera. Attenzione, ciò non significa dimostrare che così fecero i costruttori nuragici, ma semplicemente che è una tecnologia possibile, non l’unica. Soprattutto è necessario sperimentare la fattibilità di particolari propri dei nuraghi e non presunti, come il caso qui trattato dei parapetti per me inesistenti.

venerdì 24 novembre 2023

Nuraghi sillabe del cosmo

di Franco Laner

 


Il pamphlet che ho scritto quest’estate è in libreria. Assieme agli amici di Agorà nuragica l’ho presentato a metà novembre a Carbonia, Cagliari e Borore.

Il testo – riporto l'indice – cerca di rispondere alle motivazioni che ha spinto i sardi, all’uscita del neolitico, a costruire ottomila nuraghi in quasi un migliaio d’anni. L’ipotesi che sostengo, sinteticamente, è la necessità di cosmizzare due categorie, spazio e tempo.

A questa conclusione era giunto già con Accabadora (1999), ripresa con Sa ‘ena (2006). Con questo lavoro ho riproposto la questione col continuo sostegno degli scritti dello storico delle religioni Mircea Eliade, applicando le sue conclusioni sui riti e scopi del costruire, anche se Eliade non ha mai visto i nuraghi e nemmeno li conosceva. Eppure li ha descritti magistralmente!

L’altra novità è uno sforzo di contestualizzazione del paesaggio nuragico, prendendo a piene mani dagli studi di Mauro Zedda, in particolare il libro Archeologia del paesaggio nuragico (2009) che delinea la struttura della società nuragica e la visione del mondo del popolo che abitava l’Isola nel secondo millennio a. Cr. Largo spazio anche alla questione dell’orientamento astronomico del nuraghe, monotorre e polilobato e al sistema distributivo territoriale, ormai incontestabilmente accettato dalla comunità scientifica di archeoastronomia.

Dai dibattiti, invero molto pacati e costruttivi, sono emersi due aspetti.

Il primo riguarda la difficoltà di condivisione della nozione di sacro. Lo stesso Eliade deplora il fatto della limitatezza del concetto di sacro, generalmente inteso attinente alla religione, mentre il sacro esiste anche senza religione, senza credere in Dio, negli dei o negli spiriti e si riferisce all’esperienza legata alla nozione di essere, significato e verità. Il sacro è il carattere di ciò che possiede un valore assoluto ed è nella sua essenza separato e nascosto, perciò non raggiungibile almeno nei modi in cui si dà accesso alle altre cose (il suo opposto è il profano).


 

Ho dedicato una scheda di approfondimento della nozione di sacro – Eliade propone di introdurre il termine ierofania, che meglio definisce il sacro – indispensabile per non incorrere nell’errore che parlare di sacro a proposito di nuraghi si intenda che siano templi, luoghi di culto.

Ripeto, per avvicinarsi alle intenzioni sottese alla costruzione dei nuraghi, è necessaria una approfondita conoscenza del sacro, concetto oggi inflazionato e riduttivamente appiattito dalle religioni. Nella fase finale della costruzione dei nuraghi, quando appaiono i polilobati, il senso del sacro è già corrotto e si può parlare di funzione religiosa, oracolare, di santuario, ma originariamente il nuraghe va declinato con una diversa appartenenza al sacro e quindi funzionale all’esigenza di mettere ordine nel caotico e informe spazio e tempo, fissando aree e momenti dove il sacro si manifesta, perché incluso in una concezione cosmologica e cosmogonica del reale.

Il secondo aspetto è la constatazione che l’archeologia isolana ha preso atto che l’ipotesi della funzione militare dei nuraghi sia giunta al capolinea, poiché insostenibile e fuorviante. L’alternativa, per me peggio, è l’introduzione di un concetto di polifunzionalità, ovvero nuraghi buoni a tutti gli usi, templi, fortezze, abitazioni, punti di osservazione e controllo territoriale, depositi, spazi assembleari, ecc., ecc.

L’archeologa Emina Usai, intervenuta a Cagliari nel dibattito della presentazione del libro, ha fatto un passaggio logico: i reperti di scavo dei nuraghi non ci aiutano a risalire alla loro funzione. Obietto che non dobbiamo ragionare sui reperti, perché l’unico reperto è il nuraghe stesso e solo esso ci può indirizzare alla conoscenza. In un precedente dibattito (al “Verano buddusoino” dello scorso aprile) la professoressa Anna Depalmas sostenne l’ipotesi di funzione abitativa, considerato che spesso si trovano resti di pasti, stoviglie e suppellettili.

Sulla funzione dei nuraghi un importante contributo è arrivato, lo scorso anno, dall’archeologo scozzese Robert Leighton, capo del dipartimento di archeologia dell’area mediterranea di Edimburgo, pubblicando una memoria in cui ha sostenuto la funzione rituale dei nuraghi, smentendo con interessanti argomentazioni la loro funzione laica, come abitazione o fortezza, proponendo funzioni cultuali e religiose, interpretando proprio resti di pasti e ceramiche per uso rituale e non domestico.

Di fatto però, entrambe le archeologhe hanno escluso la funzione di fortezza dei nuraghi. Comunque, sia nell’ambiente accademico sia in quello delle soprintendenze, la funzione militare non è mai stata ufficialmente smentita. Purtuttavia nessuno la evoca e si preferisce glissare la questione, al massimo parlando di polifunzionalità.

Mi aspetto dunque un cambio epocale di paradigma e mi auguro che l’archeologia sarda avvii ricerche senza la stantia armatura militare e che si presenti nuda al cospetto della ricerca nuragologica.

 

mercoledì 22 novembre 2023

Su Lumarzu. Fontana nuragica in agro di Bonorva

di Franco Laner

 

La Fontana di Lumarzu dopo i restauri. Sopra l’architrave, l’apparecchio murario è stato rifatto.


Nell’interessante e molto partecipato convegno “Architetture di pietra” a Gergei nei giorni 10, 11 e 12 novembre 2023, organizzato dall’associazione Perdas Novas, finalizzato alla ricostruzione sperimentale di un nuraghe con tecnologie originarie e confronti sullo stato dell’arte dell’archeologia nuragica, un gruppo di lavoro si è interrogato sulle strategie di valorizzazione del cospicuo patrimonio nuragico non solo culturale, bensì anche turistico ed economico.

Spesso infatti vengono erogati fondi pubblici per investimenti demenziali e demagogici per incentivazione turistica e a questo proposito mi è venuto in mente un episodio cui assistetti una ventina d’anni fa e che descrissi in un articolo preparato per “La Voce del Logudoro” (organo vescovile di Ozieri) alla fine del secolo scorso e mai pubblicato (la redazione lo ritenne in pratica una denuncia e non volle grane).

Così scrivevo più di vent’anni fa:

L’antico ed abbandonato borgo di Rebeccu in agro di Bonorva è un cantiere edile in atto, con un progetto di trasformazione e tutela la cui destinazione non mi è ben chiara – spero di essere il solo ignorante! – eseguito con un fondo PIA. Da quello che ho capito si intende rivitalizzare l’insediamento abbandonato, con botteghe artigianali e far rivivere antiche arti e mestieri. Una sorta di museo etnologico vivente: prima o poi capirò meglio, anche se poco mi attirano queste performances estemporanee…

Questa nota però non riguarda la destinazione dei cospicui fondi assegnati, una dozzina di miliardi di lire, quanto il fatto che in questa operazione è stata inclusa la valorizzazione delle pertinenze archeologiche di Rebeccu, come una non meglio connotata prigione (Sas Presones) e la fonte nuragica di Su Lumarzu, appena sotto il borgo in restauro.

La fontana è dentro uno dei tanti piccoli poderi coltivati ad orto e frutteto della riparata e fertilissima valletta ad est di Rebeccu e meta di visita di qualche studioso.


 

La fonte è stata studiata dall’archeologo Antonio Taramelli e pubblicata nel suo “Fortezze, recinti, fonti sacre e necropoli preromane” nel 1919. Il suo fedele collaboratore, prof. Giarrizzo ne eseguì un buon rilievo e qualche foto. La fontana ha sempre dato acqua. Il proprietario del podere se ne serviva per irrigazione e per far l’impianto di presa aveva manomesso il selciato, ora ripristinato. L’opera recentissima degli archeologi – venuti da Roma, dall’Universtà “La Sapienza” – hanno ribaltato tutto il contesto di presa della fontana, manomissione pericolosa perché basta niente per deviare la vena sorgiva, e hanno risistemato la facciata del pozzo. Il confronto fra la situazione del 1919 ed ora, fa vedere che la ricostruzione ha interessato tutto il muro di facciata sopra il primo corso dell’architrave.

La fontana è significativa nella sua invero modestia dimensionale. Ci sono gli spazi canonici delle fonti sacre. Il vestibolo con sedili, un accenno di gradino per scendere al bacino di raccolta scavato in un'unica lastra di basalto, così come è accennato il profilo curvo del ben lavorato muro di sostegno della lastra monolitica di protezione con incavo appena abbozzato. L’insieme restituisce l’idea della cupola che protegge ed avvolge l’acqua sorgiva.

Alcuni conci esterni hanno la forma di protome taurina. Tali elementi sono presenti in tutte le costruzioni che si riconducono al culto dell’acqua. Manufatto dunque semplice, che si è conservato forse più per l’utilità pratica, che per la sua intrinseca sacralità e reso famoso per essere stato documentato dal Taramelli. La fonte si raggiunge con sentieri interpoderali, in trincea o a mezza costa, con muri di sostegno antichi, come è antico il tratturo, con lastre e pietre levigate dall’uso atavico di uomini e animali.

Camminare su quel sentiero, fra lo sbordare dei diversi alberi da frutto, dona piacevoli sensazioni, specie nei tratti puliti e senza rovi.

Questo sentiero non è ovviamente adatto per chi disgraziatamente sia costretto su di una carrozzella o abbia difficoltà a camminare.

Perché allora non fare un gesto di grande sensibilità?

Fino a dove si può arrivare in auto, bene e dopo una pista di cemento armato, lastricata, di 1,3 m di larghezza e pendenza dell’8% massima di qualche centinaio di metri e … voilà, il monumento è agibile anche ai disabili!

Si parlava di un costo di 800 milioni, di lire ovviamente!



 

La pista che si infila fra alberi e cespugli ripiantati – ovviamente la vegetazione esistente si è dovuta sacrificare al serpente di cemento armato – credo sia il primo esempio di superamento di “barriera nuragica”, ma anche carica di interrogativi a cui è difficile dare risposta, a meno di non condividere gesti di ordinaria demagogia.

Confido che l’immaginazione di qualche ragazzino, quando Rebeccu sarà ripopolato, si diverta ed usi la rampa come pista per quei carrettini autocostruiti, Ferrari in nuce o go-kart ecologici…

Al momento non ho più voglia di tornare al pozzo, ora totalmente desacralizzato e volgarizzato. Ma qualche giorno di primissima primavera dovrò tornare sul balcone naturale dello sperone su cui è sorto Rebeccu per tuffare gli occhi nel giallo immenso della fioritura del cacarantzu che trionfa a perdita d’occhio nella sottostante piana di S. Lucia, per dimenticare che quando l’uomo si mette d’impegno è capace di azioni imprevedibili, specie se hanno in tasca soldi che non si sa da dove vengono e che comunque “si devono” spendere!”

Questo scrivevo più di vent’anni fa.

Oggi Rebeccu è come allora: abbandonato e degradato. Chissà dov’è finito il finanziamento per la sua riqualificazione.

In compenso a Su Lumarzu non ci vanno né gli abili, né i disabili!

Una postilla: sia ben chiaro che l’aiuto finanziario per le iniziative come quella del convegno sopracitato, ben organizzato ed articolato, è sacrosanto e doveroso!

Sul progetto di archeologia sperimentale presentato nel convegno ci sono aspetti di criticità che andranno meglio calibrati, ma l’iniziativa ha sicuramente il pregio di rilanciare, su nuove basi, non solo promozionali, ma culturali e conoscitive la questione nuragica e soprattutto ritrattare la vexata qaestio sulla funzione dei nuraghi.