sabato 30 dicembre 2023

Turismo lento. In cammino tenendo per mano l’ombra

 di Franco Laner

Torno indietro di tre anni ad alcune riunioni che facemmo attorno ad una proposta degli architetti Salvatore Cabras e Ninni Pigozzi per formulare un progetto di turismo lento nell’area supramontina a cui parteciparono – mi scuso di eventuali dimenticanze – Bachisio Bandinu, Mauro Zedda, GB Gallus, Gisella Rubiu, Sergio Sassu, Cesare Garau, Giorgio Lai, Eliana Sanna.

Sopravvenne il Covid e il progetto si è arenò. Ho comunque speranza che venga disincagliato.

Bachisio Bandinu, che aveva accettato di condurci per mano – nel frattempo, l’ombra ci ha sostituito – ha messo in bella uno straordinario progetto di turismo lento, formalizzato nel libro Turismo lento. In cammino tenendo per mano l’ombra (Fondazione culturale Sardinia, 2023 cultsassari@gmail.com ).

Il libro non è solo un’idea di progetto, è un condensato di antropologia culturale, di rivelazioni visuali, tattili, olfattive e acustiche del paesaggio sardo, quasi un palinsesto che emerge perché Bachisio è in grado di grattare la crosta di oblio che nasconde la sostanza sarda.

Ho già detto anche troppo: non sono in grado di dire del contenuto del libro, perché sicuramente ne tradirei la bellezza o ne traviserei la struttura o, peggio, ne rovinerei l’acustica: la poesia è tale quando non ha bisogno di essere chiosata.

Pertanto il libro va letto.

Forse, invece, sono in grado di dire alcune cose sull’iniziale progetto di turismo lento che nasce dalla sinergia di diverse esigenze: valorizzazione della storia e cultura sarda che si esplica in variegate forme, dall’archeologia nuragica all’ambiente costruito, dalla tradizione culinaria al significato delle feste – profonda, nel libro di Bandinu, l’esegesi della maschera –  fino ad una visione obliqua del paesaggio, ad una offerta di turismo lontano dalla mondanità e ripiegato alla ricerca di valori ancestrali e al contempo capaci di sedare perturbamenti contemporanei.


 
ci avvolge e ci protegge il guscio di una capanna, su pinnetu, che non ha tavolo, né sedia, né letto, né armadio…non ci sono finestre, né sicura chiusura di porta (pag. 40) (foto di Angelo Mereu “La mia Sardegna”)

Il turismo lento – a piedi – oltre alla lentezza, include per me anche l’aggettivo povero che facilmente si interfaccia con parole chiave come frugalità, sobrietà, temperanza…Attenzione però, camminare non significa intraprendere un percorso a scopo salvifico, religioso o mistico, tipo Campostela.

O meglio, può avere anche questi contenuti, ma qui il tema è il nutrimento di quella parte spirituale che permea il mondo animato e non, che necessita di silenzi, di diverse concezioni di spazio e tempo, di nuovo interfaccia con la natura.

Può avere valore catartico o semplicemente evasivo.


 
La laconicità nel parlare dei sardi: il silenzio è parola e il gesto un discorso (foto di S. Cabras, “Coiles”)

Realizzare una tal proposta di cammino nel tempo di tre-quattro settimane per attraversare la Sardegna da sud, partendo da San Sperate come immagina Bandinu e arrivare in Gallura, con sosta

più lunga in Barbagia e Supramonte non è una impresa ardua. Si tratta di più o meno 300km che si possono percorrere anche in due settimane. In una settimana invece può essere sufficiente per muoversi lentamente dal mare al Supramonte. Una guida, esperta e colta, formata dall’amore del territorio e dai suoi veri protagonisti, mi sembra indispensabile.

Dopo la lettura del libro di Bandinu, ognuno capirà che si può nutrire il proprio spirito con la semplicità dei gesti, degli sguardi, dell’innocenza delle intenzioni e delle osservazioni capaci di restituire la storia atavica dell’Isola, che ancora ne mantiene i caratteri primigenei.

Il libro di Bandinu non è altro che il manifesto poietico di un’idea di un possibile turismo lento nell’isola di Sardegna. Per la sua attuazione non abbisognano ingenti capitali e impianti, serve un poco di coraggio, fiducia e la consapevolezza che la ricchezza della tradizione e dell’ambiente è un patrimonio a disposizione.


Partenza da San Sperate (Pinuccio Sciola), Barumini, Sinis e poi Barbagia, Supramonte, Ulassai (Maria Lai) e infine verso Bitti, Olbia e Gallura.

Ad una condizione però: è necessaria la leggerezza. La gravità nuoce all’ipotetico viaggiatore.

Nel libro di Bandinu ricorre spesso la necessità di leggerezza, il procedere è leggero, e leggera è la camminata della solitudine che riempie dolcemente il percorso: è il mio passo a far sentiero da lasciare in eredità ad altri viandanti. Passo di leggerezza, di libertà, di arbitrarietà (pag. 42).

Tenendo sempre presente che non è la meta che conta, bensì il percorso e sono le cose a rivelarsi.

Infine una nota di narcisismo. Regalandomi il libro, Bachisio ha scritto. A Franco, peregrino del sacro, in cammino per nuraghi e pozzi a rivelare il rapporto col cosmo e col divino.

Cosa potrei voler di più dall’isola di Sardegna?


domenica 10 dicembre 2023

Commenti ad una memoria di G. Paglietti e A. Mulas

di Franco Laner

Mauro Zedda mi segnala una memoria di Paglietti-Mulas “Statica ed estetica, architetture isodome e bicrome in età nuragica” apparso nel n. 8 di Layers, archeologia, territorio e contesti dell’Università di Cagliari dello scorso marzo 2023 e mi chiede di esprimere un’opinione, pur sapendo che quando si parla di sacro dei nuraghi la penso diversamente in quanto tutti immaginano il sacro legato alla religione e così i nuraghi diventano templi o luoghi di culto.

Il sacro esiste anche senza la religione ed è quanto ho cercato di sostenere nell’ultimo libro che ho scritto, Nuraghi sillabe del cosmo, pubblicato due mesi fa da Agorà nuragica

Ebbene mi sono sottoposto alla lettura-tortura della memoria, a partire dal titolo Statica ed Estetica. Di statica non c’è una riga esplicativa in relazione all’isodomia e anche il lessico della memoria denuncia l’ignoranza degli statuti di base della statica strutturale. Si parla ad esempio di trazione negli stipiti che sostengono l’architrave d’ingresso del nuraghe, che al contrario sono soggetti a compressione. Un solido snello compresso potrebbe generare tensioni di trazione, ma non c’è nulla di più tozzo degli stipiti di un nuraghe! Ricorre l’espressione “tenuta statica” e “garantire maggior staticità al nuraghe”: mica si muove! Non è più semplice, resistenza e/o maggior sicurezza? Scrivere “durabilità nel tempo” (la durabilità di un’opera è la caratteristica di mantenere le qualità iniziali nel tempo) è l’equivalente ridondante di scrivere “bella calligrafia” (kallos = bello).

Anche l’altra parola, estetica, è fuori luogo, usata, come intuisco dalla lettura del testo, come sinonimo di bellezza, anzi come sinonimo di decorazione.

Estetica è la branca della filosofia che si occupa della percezione del fenomeno artistico e dell’esperienza sensibile del bello. Proprio perché settore della filosofia, ha una lunga storia, declinata appunto con quella della filosofia, particolarmente trattata nei due ultimi secoli con l’idealismo tedesco, ma anche dai contemporanei Adorno, Benjamin, i nostri Croce e Cacciari e tanti altri.

Quando studiavo architettura, tutti conoscevano bene due regole, pena la bocciatura. La prima che non si doveva mai usare l’aggettivo estetico. La seconda che, alla domanda sul perché di una scelta compositiva non bisognava mai rispondere “perché mi piace”. Le scelte andavano essere motivate e sostenute, senza tirare in ballo categorie generiche, tipo “ognuno ha i suoi gusti”.

Ho premesso queste osservazioni perché il titolo mi ha subito attratto: pensavo infatti di imparare qualcosa sia sulla statica delle murature a secco, sia su una categoria estetica dei nuraghi. Il titolo è dunque fuorviante e nulla sarebbe cambiato se statica ed estetica non fossero state nominate.

Il senso dell’articolo invece è assai più modesto: partendo dall’asserzione che in alcuni nuraghi c’è il ricorso all’isodomia e alla bicromia, particolari costruttivi propri dei monumenti nuragici a destinazione sacra, come fonti e pozzi, giocoforza allora è desumere che anche i nuraghi appartengono al sacro. Dovrei gioire, perché sono trent’anni che sostengo questa tesi e prima di me, con altre motivazioni, altri studiosi a cominciare dall’amico carissimo Massimo Pittau. Ma per dire che appartengono al sacro non occorre scomodare illustri precedenti, basta chiederlo ad un pastore che ti risponde col buon senso dicendo che non ha mai pensato che fossero fortezze, perché non sarebbero serviti né per attaccare, né per difendersi e tantomeno per abitarci. Meglio edifici religiosi, anche se riduttivamente intesi.

Il problema comunque non è quello di escludere una funzione profana, ovvia, bensì definire il sacro, altrimenti si intendono templi o luoghi per il culto, come ho scritto sopra. Attenzione, sto parlando della genesi dei nuraghi, del loro atto originario, non di funzione posteriori.

La tesi dei due autori – dovrei essere compiaciuto visto che finalmente due archeologi prendono le distanze dal nuraghe-fortezza, o reggia abitativa, o altre patologiche destinazioni – pur con grande timidezza e cautela, sostiene che i nuraghi siano costruzioni sacre, forti anche di una recente memoria dell’archeologo scozzese Leighton continuamente citata, in cui si sostiene che i nuraghi appartengono, appunto, al sacro. Comunque sia, i due archeologi isolani si mettono di traverso nell’atavico percorso taramellilliano che fa acqua da un secolo, portando però una prova per me alquanto risibile e debole a favore della sacralità. Intanto l’isodomia nei nuraghi non è molto diffusa e ancor meno la bicromia. Se la prova fosse sostenibile potrei affermare che i nuraghi che non hanno isodomia o bicromia, non hanno funzione sacra e chiari monumenti sacri, come pozzi e fonti, privi di isodomia o bicromia, non sono sacri, ma costruiti solo per conservare o captare acqua per uso utilitaristico.

L’osservazione che costruzioni con decorazioni non abbiano funzione militare mi pare comunque un’osservazione condivisibile. A Marte infatti appartengono altri caratteri, maschi e asciutti, mentre a Venere è data la grazia e la decorazione.

Sulla presunta “estetica” dei nuraghi, per usare il pessimo aggettivo degli autori, mi defilo immediatamente. I nuraghi per me non sono architettura, sono semplicemente tettonica e non aggiungono arché, valenza artistica al volume che pure modifica lo spazio. Per essere definita architettura un’opera deve avere ben altri requisiti. La parola architettura è composta da arché e tecton, ovvero coesistono due aspetti, quello artistico e quello tecnico. Nei nuraghi c’è solo l’aspetto tecnico-costruttivo con qualche eccezione, ad esempio trovo architettura nello splendido raccordo ellittico fra l’entrata e la tholos,del nuraghe Is Paras di Isili, oppure nella concezione del Losa o del santu Antine. All’ architettura, alla grande architettura nuragica, appartiene senza dubbio il Pozzo di S. Cristina di Paulilatino o il Predio Canopoli di Perfugas. Anche la stele e l’esedra di alcune TdiG sono per me architettura. Tutte queste opere emozionano e l’architettura è appunto arte, che appartiene alla sfera dello spirito.

Le nostre città sono piene di edilizia, ma poca architettura. Ancora, per esemplificare, non si può confondere un cuoco con un rosticcere, la poesia con la scrittura. Insomma Salieri non è Mozart!

Come l’estetica, anche l’architettura, è una parola usata in modo improprio e svuotata di contenuti alti, volgarmente appiattita.

Al di là di questi pensieri alla fine mi preme esprimere il parere sulla relazione isodomia/ concezione strutturale che l’articolo non affronta, anche se ne dichiara l’esistenza.

Le murature a secco di pietra, come tutti sanno, sono così definite perché non c’è presenza di legante. Su questo argomento, come dirò meglio in un prossimo articolo a cui vorrei dedicarmi, c’è pochissima letteratura, perché non interessa praticamente a nessuno, essendo una tecnologia inutilizzata e priva di futuro. Potrebbe essere utile in caso di restauro o consolidamento. Purtroppo le gare, le rare gare per la conservazione o valorizzazione dei monumenti a secco non vengono vinte dalla competenza, bensì dall’offerta economica o dagli esperti di cemento armato e/o resine varie.

L’opus murario a secco è stato trattato da autori come Giovannoni, Lugli, Choisy e Adam. Ultimamente anche da Giulio Magli. In comune, gli autori citati introducono classificazioni di aspetto, morfemiche. Io preferisco una classificazione tecnemica, ovvero che dipende dalla concezione strutturale sottesa. Ad esempio. L’isodomia, tessitura di elementi parallelepipedi in filari paralleli e perfettamente levigati e combacianti, è una muratura a secco, ma il comportamento strutturale è assai affine ad una muratura con malta, perché le tensioni di trazione orizzontali (una muratura non subisce solo schiacciamenti e deformazioni verticali che dipendono dal modulo E di elasticità, ma anche tensioni di trazione orizzontali che dipendono dal modulo G (elasticità trasversale). La malta ha infatti il compito di contrastare le trazioni orizzontali. Questo stesso contrasto è svolto dall’attrito che si manifesta nella struttura isodoma. Perciò dal punto di vista tecnemico non c’è alcuna differenza fra una muratura con malta e una a secco isodoma.

Nell’opera poliedrica la trasmissione del flusso delle tensioni che si ingenera nella muratura avviene in modo concentrato, non diffuso come nelle murature con malta o isodome, ma ci sono murature poliedriche, quelle in coazione, che si comportano similmente alle murature con malta.

Affinché i piani di posa dei conci isodomi siano perfettamente planari, è necessaria la levigatura, più facile e agevole nelle pietre tenere, come il calcare, che ha colore diverso dalla trachite o basalto.

L’isodomia, data da almeno due corsi, introduce in una muratura poliedrica una cordolatura o listatura, in pratica cerchia la muratura, conferendo un forte presidio strutturale nei confronti delle tensioni orizzontali.

Capisco che tale visione sia complicata e presuma un lessico specialistico e una spiegazione meno sintetica. Perciò tornerò sull’argomento. Ma quanto sopra basti per spiegare che il rapporto isodomia/resistenza/decorazione se appena si approfondiscono i tecnemi e non solo i morfemi (ciò che appare) non può portare a conclusioni del tipo: Conseguentemente e, per coerenza con quanto fin’ora descritto in letteratura, dovremmo estendere il concetto di “sacro” anche all’edificio nuraghe. Inoltre è stato evidenziato come tali soluzioni facciano parte del nuraghe fin dalla sua progettazione e come la resa architettonica non risponda sempre a finalità statiche ma, più probabilmente, ad una resa estetica del monumento invitandoci a riflettere sul significato di tali bicromie: forse i colori evocano elementi naturali quali l’aria, la terra, il fuoco.

Mi scuso se irrido all’ultima frase, ma Empedocle ha ancora da venire e comunque alle radici di tutto per la filosofia greca (anche per i nuragici???) ci sono quattro elementi, non tre: manca l’acqua nella resa estetica e cromatica ipotizzata nei nuraghi. I colori dei quattro elementi: rosso (fuoco), giallo (aria), verde (terra), celeste (acqua) stento comunque a vederli nei nuraghi, ma ciò dipende dalla daltonismo che dovrò aggiungere ai tanti acciacchi propri della mia anagrafe. O, peggio, ho dimenticato il senno in qualche luogo recondito e le solite questioni anagrafiche non me lo fanno ritrovare.

Cosa ho capito alla fine: che è meglio non pisciare fuori dal vaso, ovvero, meno prosaicamente, ognuno si attenga alla propria disciplina, come mi ha ben raccomandato Pittau: parla di nuraghi con la tua disciplina, senza sovrapporti agli archeologi. Gli archeologi viceversa parlino con l’archeologia, non sostituendosi a storici delle costruzioni o ad architetti o altri cultori. Pittau ha dimostrato che i nuraghi non sono fortezze con la sua disciplina, la linguistica!

L’interdisciplinarietà necessaria all’archeologia non si ottiene facendo supplenza, ma confrontandosi con gli specialisti delle altre discipline, altrimenti si corre il rischio del ridicolo.

In un recente Convegno, Gergei novembre 2023, un archeologo per avvicinare gli ascoltatori alla cultura costruttiva dei nuraghi ha parlato della triade vitruviana: firmitas, venustas e utilitas. La firmitas non si discute: i nuraghi hanno quattromila anni e molti hanno forato la coltre dei secoli giungendo praticamente integri fino a noi. Sulla venustas  il discorso si fa più difficile e lo dimostra anche l’articolo ora analizzato. Per me infatti i nuraghi, per le ragioni sopraesposte, non sono architettura, bensì tettonica.

Ma è sulla utilitas che l’archeologo neo architetto è inciampato clamorosamente, perché capiva che non poteva parlare di fortezza o reggia di re pastore e ha balbettato qualcosa sulla polifunzionalità del nuraghe, in pratica sacro e profano assieme, ma non ha salvato né capra, né cavoli!

In conclusione.

Finalmente gli archeologi non parlano più di funzione militare dei nuraghi e seppur timidamente si stanno spostando sul sacro, ancora difficile da declianare.

Io ho trovato molte risposte nei lavori degli storici delle religioni, Mircea Eliade in particolare, letture che caldamente consiglio ai due autori.

Infine un accenno alla bibliografia. Per me la bibliografia deve citare le fonti ispiratrici di una memoria e dei risultati ottenuti. È, per così dire, un servizio che va prestato ad altri ricercatori sull’argomento di comune interesse. Ancora, è una forma di riconoscimento ad autori che hanno sorretto e spesso ispirato la propria ricerca. Nel nostro caso, in una memoria in cui viene pur sommessamente sostenuto che i nuraghi hanno funzione sacra e non militare, viene citata una sola memoria di studiosi che sostengono tale tesi e che guarda caso, non è né sardo, né italiano, ma un archeologo scozzese! Se dovessi elencare chi ha sostenuto per cent’anni la tesi militare, dopo Taramelli e Lilliu parlerei di Contu, Ugas, Tanda, Atzeni, Fadda, Lo Schiavo, Perra Moravetti, Pitzalis, Usai, Cicilloni, Campus, ecc. ecc., cioè tutti gli archeologi dell’Accademia e della Soprintendenza sarda, grandi e piccoli, che si trovano nella bibliografia di Mulas e Paglietti e che hanno fatto carriera, mai mettendo in crisi la sciocchezza del nuraghe-fortezza. Chi ha sostenuto l’appartenenza al sacro, non è archeologo, bensì linguista, architetto, ingegnere, astronomo, archeoastronomo, geologo, ecc.. Nessuno viene citato. Ma appena un archeologo, Leighton appunto, scrive la memoria citata e saccheggiata dagli autori, viene citato.

In altre parole solo un archeologo poteva attuare il cambio di paradigma. Questa constatazione salva, se vogliamo, l’articolo, perché, pur con motivazione molto sofisticata, consente finalmente ad altri due archeologi di schierarsi, seppur flebilmente.

La cosa a me fa un po' pena, ma così funzionano le cose.