domenica 15 dicembre 2013

Astronomia nella Sardegna Preistorica


di Franco Laner



La prima considerazione che mi è venuta da fare, solo sfogliando il nuovo libro di Mauro Peppino Zedda, riguarda l’enorme mole di dati rilevati. Ho contato più di 600 DdJ (Domus de janas) e più di 300 TdG (tombe di Giganti) e poi dolmen, pozzi, megaron, senza contare la caterva impressionante di nuraghi e mi chiedo: quanti erano i rilevatori? Quanto è costata questa ricerca, viaggi, ordinare e interpretare i dati, scrivere ed impaginare?
Qual è l’Istituzione o l’Ente che ha finanziato la ricerca?
E soprattutto a fronte di quale impegno finanziario è stata possibile la pubblicazione?
La domanda è ovviamente pleonastica. La risposta è che Mauro se l’è pensata, fatta e pubblicata da solo! Fosse stata commissionata dall’Istituzione, mettiamo Università o Soprintendenza, avremo una sola voce: cospicuo finanziamento: resoconti in qualche remoto cassetto, che non vedranno mai la luce, forse una pubblicazione, sicuramente un convegno sponsorizzato!
In sintesi: chi fa, lo fa a sue spese. Chi non fa, lo fa coi soldi dello Stato!
L’ immediata considerazione è subito confortata dalla presentazione di Juan A. Belmonte, dell’Instituto de Astrofisica de Canaries che giudica straordinario il lavoro di Mauro per la gran mole di dati: "esta es sin duda la maestra de datos arqueastronomicos mas estensa recogida jamas en un intorno geografico tan limitado" (questa è senza dubbio la raccolta di dati archeoastronomici più estesa mai raccolta in un ambito geografico ristretto).
Questa caterva di dati interpretati ed analizzati, consentono a Mauro, continua l’astrofisico spagnolo, di legittimare le teorie che ha sostenuto negli ultimi 25 anni, in particolare il contributo che l’archeoastronomia ha dato all’archeologia, alla storia delle religioni e alle sue decisive implicazioni per la comprensione del paesaggio archeologico sardo.
Appena per inciso ricordo che Zedda ha voluto e trovato fin dall’inizio delle sue ricerche interfaccia e confronto con i contemporanei cultori di archeoastronomia, come Hoskin (università di Cambridge), Ruggles (università di Leicester), Arnold Lebeuf (università di Cracovia) e ovviamente Belmonte. Inserito in questo consesso internazionale le sue ricerche hanno avuto il conforto scientifico e convalida dei risultati.
A fronte ai dati rilevati non parlerei nemmeno più di interpretazione statistica di campioni, perché il campione è una parte casuale della totalità dell’intera popolazione tipologica che si vuol analizzare. I dati rilevati per analizzare l’orientamento dei monumenti sono estesi a tutta la popolazione e quindi più che di interpretazione di un campione si deve parlare di inferenze deduttive, logiche e consequenziali con riferimento alla totalità dei dati di orientamento.
Fra le teorie che vengono validate dall’approccio archeoastronomico inaugurato da Mauro e che mi stanno particolarmente a cuore, è che d’ora innanzi non si potrà più parlare, a meno di non farlo a vanvera, di nuraghe con destinazione diversa dalla sfera del sacro.
Le considerazioni che l’Autore svolge nel capitolo 12 a questo proposito, totalmente condivisibili, aggiungono altre ragioni per abbandonare definitivamente le teorie militari sulla funzione del nuraghe, che sembrano comunque trovare nuovi adepti purtroppo anche nell’Archeologia ufficiale isolana, aggiungendo nuovi danni e fuorvianze a quelle già consumate da Taramelli e Lilliu e discepoli, sia appartenenti all’Accademia sia alla Soprintendenza, che non meritano nemmeno la citazione dei nomi.
Sarebbe comunque riduttivo giudicare il lavoro come censimento e misurazione dei monumenti sardi dal punto di vista archeoastronomico e relative inferenze.
Il libro apre un nuovo e vasto campo di indagine che riguarda la dislocazione territoriale dei monumenti e le possibili considerazioni che ne derivano (capitolo 8). La storia degli studi in questo settore è assai recente, meno di 20 anni. Mauro riprende le considerazioni di Mauro Maxia sulla dislocazione dei nuraghi dell’Anglona, riprende le sue considerazioni sul territorio di Isili, fino ai recenti studi di Augusto Mulas e Roberto Serra. L’eccezionale scoperta di Mulas sulla coincidenza fra la posizione in cielo delle Pleiadi e in terra dei nuraghi che fanno capo al S. Antine è comunque valida -qui dissento dal giudizio di Mauro (pag. 149)- anche se fosse unica. In questo caso l’unicum, proprio per la sua assolutezza probabilistica, diventa prova scientifica, per chi pensa, come da tempo penso, che ciò che è in cielo così in terra, con i tanti corollari che ne seguono, in primis quello di cosmizzare spazio e tempo, funzione primaria dei nuraghi, strumento di razionalizzazione per gli uomini che hanno nella geometria celeste, nell’astronomia, il riferimento sicuro e logico con cui operare la ri-creazione dei riferimento spazio-temporale.
Voglio dire che se l’unicità di un reperto non consente deduzioni generali, proprio per il pericolo di casualità’ e quindi di inattendibilità e generalizzazione, lo sovrapposizione della mappa celeste delle Pleiadi con quella terrena, non lascia scampo al dubbio scientifico.
Considero infine il lavoro di Mauro con doppia valenza.
Da una parte mette un macigno sulla questione della legittimità del giudizio -anche, ma non solo- archeoastronomico dei monumenti della presistoria sarda (Belmonte si esprime così: Es mi opinion sincera che està destinada a ser un hito (pietra miliare) en la arquelogia sarda), ma dall’altra apre intelligentemente l’angolo visuale dal monumento al territorio, ovvero lo apre sul paesaggio, definizione a lui cara, da non intendersi come “panorama”, bensì paesaggio come insieme del risultato di antropizzazione, fisica e culturale, ipostasi della storia del territorio, palinsesto che restituisce, se sapientemente “grattato” , la possibilità di ricostruire il passato dell’Isola.

Venezia, 24 novembre 2013

mercoledì 27 novembre 2013

Archeoastronomia alla Cabizza-Forteleoni

di Mauro Peppino Zedda

Alcuni giorni fa un archeologo mi ha chiesto perché nel libro Astronomia nella Sardegna Preistorica non abbia citato lo studio sull’orientamento delle domus de janas eseguito dai due astrofili Turritani, Gian Nicola Cabizza e Michele Forteleoni.
Credo che la risposta che ho dato all’archeologo possa interessare tutti coloro che sono interessati all’archeoastronomia.
La ragione di fondo consiste nel fatto che in Astronomia nella Sardegna Preistorica ho scelto di non citare le pubblicazioni che non rispondano a criteri di scientificità tra le quali rientra anche il lavoro di Cabizza e Forteleoni (“La misura del tempo”, risultati preliminari, in Cronache di Archeologia, vol 8, 2011).
Cabizza e Forteleoni hanno analizzato l’orientamento di 156 domus de janas distribuite in 19 necropoli della Sardegna Nord-occidentale, buona parte delle quali rientra tra le 300 (circa) che avevo esaminato e pubblicato assieme a Juan Antonio Belmonte (“From Domus de Janas to Hawanat: on the orientations of rock carved tombs in the Western Mediterranean” in proceedings of the SEAC 2005 Lights and Shadows in Cultural Astronomy, Isili).
Tra il 2005 e il 2012, ho continuato misurare l’orientamento delle domus de janas, e in Astronomia nella Sardegna Preistorica vi è l’analisi archeoastronomica dell’orientamento di 649 domus de janas.
Delle 156 domus de janas esaminate da Cabizza e Forteleoni, una quarantina non rientrano tra le 649 sulle quali ho basato le mie analisi.
Se Cabizza e Forteleoni avessero misurato l’orientamento delle domus de janas attenendosi ai criteri che seguono gli archeoastronomi di tutto il mondo, avrei potuto confrontare le mie misurazioni con le loro e sommare al campione di 649 quella quarantina di domus da loro misurate ed inedite.
Purtroppo la procedura di misurazione seguita da Cabizza e Forteleoni è superficiale almeno quanto l’apparato bibliografico che presentano a corredo del loro articolo.
Dell’orientamento delle 156 domus, presentano infatti solo l’azimut, che non sarebbe il vero azimut geografico, ma un azimut corretto con l’altezza dell’orizzonte visibile (cfr pag. 31 dell’articolo citato).
Vi è da chiedersi perchè i due astrofili Turritani non abbiano seguito le procedure comunemente seguite dagli studiosi di archeoastronomia di tutto il mondo?
Perché Cabizza e Forteleoni, non presentano i dati relativi all’azimut geografico, all’altezza dell’orizzonte e alla declinazione di ogni singolo orientamento?
Forteleoni e Cabizza si sono “dimenticati” di presentare i dati fondamentali dell’orientamento ovvero l’azimut geografico e l’altezza dell’orizzonte. Sarebbe come se un archeoastronomo serio non citasse i dati relativi all'azimut geografico e all'altezza d’orizzonte e impostasse la sua disquisizione citando solo i dati in termini di declinazione.
Per meglio intenderci Cabizza e Forteleoni hanno operato come un architetto che dopo aver misurato un nuraghe indicasse solo il volume, dimenticandosi di indicare la larghezza e l’altezza del monumento. Anzi Cabizza e Forteleoni hanno fatto di peggio perchè invece della declinazione hanno adottato un “azimut corretto”, come se un architetto ci indicasse il volume con un sistema diverso da quello internazionale.
Il loro azimut corretto potrebbe rappresentare una sorta di maldestro surrogato della declinazione, ma la mancata presentazione dell’azimut geografico e dell’altezza dell’orizzonte che caratterizzano ogni singolo orientamento fa in modo che i dati della loro analisi non siano cumulabili e confrontabili con quelli derivanti da procedure ortodosse.
Il loro studio oltre ad essere bizzarro dal punto di vista procedurale, non aggiunge niente all’interpretazione dell’orientamento delle domus de janas proposta da me e da Juan Antonio Belmonte nel 2005 e riproposta nel libro Astronomia nella Sardegna Preistorica.
Certamente mi sarebbe piaciuto confrontare i risultati delle mie misurazioni con le loro, ma il loro modo di procedere, una sorta di archeoastronomia alla Turritana, contrasta con le procedure comunumente seguite in tutto il mondo. Nel loro opuscolo hanno citato Clive Ruggles come esempio da seguire nelle ricerche archeoastronomiche e su questo sono pienamente d’accordo, ma probabilmente è solo una dichiarazione d'intenti dato che il loro modo di procedere non tiene minimamente conto di quanto suggerito dal Presidente dell’ISAAC (International Society for Archaeoastronomy and Astronomy in the Culture).
Dopo queste spiegazioni, l’archeologo curioso sulla mancata citazione dello studio sulle domus de janas eseguito dei due astrofili Turritani, mi disse che avrei dovuto citarli e criticarli nel libro. Avrà forse ragione l’archeologo, ma stà di fatto che ho preferito non citare criticamente uno studio archeoastronomico alla “cabizza-forteleoni” che dal punto di vista interpretativo niente aggiunge a quanto già noto e dal punto di vista metodologico è inadeguato.
Ovviamente spero che Cabizza e Forteleoni presentino i loro futuri eventuali studi in accordo con i dettami e le procedure dell’archeoastronomia internazionale, invece che nella loro indigeribile salsa turritana.

lunedì 21 gennaio 2013

Dolmen e nuraghi versus nozione di confine


di Franco Laner

Nel capitolo 3 sui dolmen in Sardegna (“Sa ’ena”, Condaghes ed. 2011) dedicato in particolare alle possibili tecnologie di trasporto e posa in opera, introducevo due categorie di giudizio: una sulla loro estetica, l’altro sul loro significato territoriale.
I dolmen -scrivevo- introducono ad una nozione di confine, in una accezione alquanto diversa da quella corrente, che per confine intende il limite definito, ad esempio di un terreno, oppure di una regione geografica o di uno stato. Il confine è oggi la zona di transizione in cui scompaiono le caratteristiche individuanti di un territorio. Il confine può essere naturale, quello che si identifica con linee stabilite dalla natura, es. una costa, un fiume o un crinale di montagna, oppure politico, quello convenzionale stabilito dai governi.
La nozione di confine ha occupato e tutt’ora occupa gli studiosi.
Kant ha dedicato spazio nella Critica al concetto di confine. In sintesi definisce il concetto di confine avvicinandolo al concetto di limite, conferendogli una nozione negativa, inibente, incardinante, ponente vincoli e quindi barriere.
Zygmunt Bauman (sociologo e filosofo polacco) preferisce non vedere barriere nei confini. Sono piuttosto interfacce tra i luoghi che separano. In quanto tali, sono soggetti a pressioni contrapposte e sono perciò fonti potenziali di conflitti e tensioni. Parla di confini spontanei, costituiti dal rifiuto di una commistione, anziché da cemento e filo spinato. Essi svolgono una doppia funzione: oltre ad avere lo scopo di separare, hanno anche il ruolo/destino di essere delle interfacce, di promuovere quindi incontri, interazioni e scambi, e in definitiva una fusione di orizzonti cognitivi e pratiche quotidiane. Il confine protegge (o almeno così si spera o si crede) dall'inatteso e dall'imprevedibile: dalle situazioni che ci spaventerebbero, ci paralizzerebbero e ci renderebbero incapaci di agire. Più i confini sono visibili e i segni di demarcazione sono chiari, più sono «ordinati» lo spazio e il tempo all'interno dei quali ci muoviamo. I confini danno sicurezza. Ci permettono di sapere come, dove e quando muoverci. Ci consentono di agire con fiducia.
Altri studiosi contemporanei, Giacomo Marramao, Marilena Casella (Complessità antropologica della nozione di confine), Gian Primo Cella (I confini come distinzione e fonte di significato) hanno scritto importanti saggi su questo intrigante concetto e comunque si capisce facilmente come questa nozione debba essere declinata, se riferita alla preistoria, con uno sforzo di storicizzazione, assolutamente non facile.
Ritornando dunque ai dolmen, ne ipotizzo la loro funzione di un particolare confine. Laddove c’è un dolmen, lì c’è una comunità identificata. Il territorio è posseduto, abitato, conosciuto. Il dolmen è il CENTRO, irremovibile, attaccato agli inferi, che si mostra in terra ed ha per tetto il cielo. Il territorio è così marcato, anche se non esattamente definito da termini o precisi confini naturali.
Manifesta la capacità di compiere azioni importanti e collettive, di essere coesi e di riconoscersi, di rivendicare e difendere. Identifica un riferimento, lo spazio sacro per i riti, a partire da quelli della fertilità, a cui secondo alcuni autori il dolmen è associato.
Mi pare che questa visione possa ben inquadrarsi nella funzione che alcune costruzioni assumono nel processo, per me ancora in atto, di mettere ordine nel territorio, nello spazio in cui l’uomo vive. Di cosmizzare in altre parole l’ambiente, uscire dal caos, dal disordine e mettere ordine.
L’altra categoria che necessita di ordine è il tempo. E qualora ci sia ordine, riferimento, iterazione e misura, l’uomo è rassicurato.
Ebbene non ho esitazione ad assegnare anche ai nuraghi questa funzione di cosmizzazione dello spazio e del tempo. Questa visione ha contrassegnato tutta la mia ricerca sulla preistoria sarda.
Nel capitolo sui nuraghi (dal caos al cosmo) reintroduco il concetto di confine, molto pertinente per capire il ricorso alla loro realizzazione ed edificazione e per assegnarlo alla sfera del sacro.
Stabilire un confine significa per me non solo fondare e delimitare uno spazio, non è dunque mera questione geografica.
E’ la storia, è la cultura e la civiltà che si sono sviluppate in quel determinato territorio. E’ la dichiarazione che quel territorio è qualcosa di diverso da cui si proviene ed esprime identità.
Nulla meglio della pietra, della pesantissima ed irremovibile pietra, può esprimere la comunità, l’identità, i legami col passato e col futuro.
La conferma dello spazio assume quindi un ruolo molto importante all’interno di una comunità e il sapere dove si trovano i suoi confini diventa uno degli elementi che può determinare l’appartenenza o meno e in alcuni casi, anche il tipo di appartenenza alla stessa. Le iniziazioni - continua Pietro Zannini, autore de “I significati del confine”- sono spesso legate a soggiorni marginali, all’allontanamento dal centro o dal gruppo per un dato periodo di tempo, anche oltre i limiti della comunità.
Il nuraghe è il marcatore del confine, nell’accezione che ho cercato di definire con l’aiuto di Zannini. Non è solo elemento tettonico, ha i requisiti della durabilità temporale che la pietra esprime, ha le radici anche sotto il terreno, in cui la pietra è incastonata e sopra “confina” col cielo e lo ingloba. Non potrebbe avere un tetto, perché si creerebbe una frontiera! La terra non può avere sopra di sé un tetto. Il nuraghe ha il tetto aperto (pietra apicale removibile: dalla chiave della cupola passa l’axis mundi, entra il raggio solare…)
Questa notazione è ricca di inferenze, proprio sul piano-simbolico cosmologico che il nuraghe a mio avviso possiede.
Senza un potente marcatore dello spazio e del tempo, lo spazio si presenterebbe vuoto, terrificante, caotico. Il centro è condizione, ma spesso non sufficiente. Ho necessità di una linea, di linee di
espansione, per togliere possibile confusione. Credo che l’allineamento dei nuraghi in un territorio risponda alla necessità di “incidere” il suolo, di “solcarlo” secondo una geometria, che è tale se è riferita ad un ordine magistrale, ripetibile, certo, come quello che l’astronomia può offrire.
L’ordine celeste è materializzato nel concetto di confine.
Così in cielo, così in terra.
Da qui la mia incondizionata affezione all’archeoastronomia, scienza che aiuta a districarmi e dare finalità alla funzione dei nuraghi. Aggiungo che il periodo nuragico coincide con l’uscita dal neolitico e quindi con il grande cambio di paradigma dovuto all’osservazione scientifica di cui l’astronomia era portatrice. L’astronomia è dunque in relazione con le due grandi categorie, spazio e tempo, che devono essere comprese e possedute.
L’impianto ordinato, geometrico, è capace di generare corollari rassicuranti e precisi, ierofanici, con eventi, allineamenti, congiunzioni che si iterano ed inverano con scadenze certe e prevedibili.
Metronomo che segnala lo scorrere del tempo, lo misura ed indica l’inizio e la fine delle attività vitali di comunità ormai stanziali.
Ho usato l’aggettivo ierofanico per indicare, forse suggestivamente, l’apparizione del divino. Per cominciare a capire il nuraghe è necessario fermarsi per qualche ora all’interno. Dalla finestrella sopra l’ingresso entra la luce solare che staglia la testa taurina della forma della finestrella sulla parete buia della camera e lentamente descrive il percorso del sole. Si intuisce come questo possa variare a seconda dell’ora e della stagione. Sole e toro come forme della divinità. Lo scorrere del tempo si materializza nel nuraghe. L’eterno ritorno che trova fondamento e conferma annuale, precisa, certa, ineludibile.
E’ solo suggestione?
Ne aggiungo una seconda. Quando entro in un nuovo nuraghe, non ho mai troppe sorprese. L’impianto è lo stesso, ovviamente ci sono varianti, ma ogni nuraghe è profondamente simile anche se diverso per particolari, materiali, luogo in cui si erige.
Eppure è riconoscibile, familiare. Io penso che sia così perché la stessa Sardegna è confine, strutturata su una sommatoria di confini simili, dove le inevitabili differenze, dettate dal genius loci, epoca, dai diversi costruttori e materiali, si annullano.
Venezia, 21 gennaio 2013