mercoledì 7 agosto 2024

Balentia culturale

 di Franco Laner

 

Ho ricevuto stamane da Ninni Pigozzi la triste notizia della morte dell’amico e collega architetto Salvatore Cabras. Alcuni mesi fa sembrava, visto che la malattia lo insidiava da qualche tempo, che l’avesse sconfitta e già ci stavamo attivando per riprendere le fila di un progetto che lui cullava da sempre e che ci aveva contaminato (parlo al plurale, non per maiestatis, bensì perché coinvolti nell’avventura del turismo lento in Ogliastra: c’è il già citato Ninni Pigozzi, Bachisio Bandinu, Mauro Zedda, GB Gallus, Gisella Rubiu, Sergio Sassu, Cesare Garau, Giorgio Lai, Eliana Sanna e altri che mi scuso di non citare, a causa della mia situazione anagrafica).

Per le finalità del progetto sul turismo lento gli interessati possono leggerne una sintesi nel post pubblicato nel blog di Archeologia nuragica del 30 dicembre 2023, dove commento il libro di Bandinu, appunto sul turismo lento.

Avevo conosciuto Salvatore in occasione di un convegno organizzato dall’Ordine degli architetti, pianificatori, paesaggisti e conservatori di Nuoro sui muri a secco. Fu per me un felice incontro per le mie ricerche sul legno e pietre dell’architettura vernacolare, perché mi fece penetrare negli arcana dei coiles, dove è imprigionata una sapienza costruttiva atavica. Il suo libro è il testamento di una architettura che suggerisce un modo di costruire in cui il primo interesse è l’uomo. Dove tutto deve essere progettato per la sua salute e il suo benessere in armonia con le altre creature e l’ambiente.

Salvatore, con Coiles ci ha restituito un immenso patrimonio culturale con una ricerca puntuale dal punto di vista del rilievo materico, fotografico, esplicativo, proprio della disciplina architettonica con l’aggiunta sapiente di altre discipline, come l’antropologia, l’etnologia, la topografia e toponomastica.

La necessità fatta arte del costruire e dove le categorie utilitas, venustas e firmitas trovano sintesi. Soprattutto, intervistando i pastori che ancora praticano questa attività ancestrale, ha recuperato l’autentica fonte orale e vissuta.

Dal mio punto di vista, quello della tecnologia costruttiva, ha aggiunto osservazioni originali sulle costruzioni di legno e pietra a secco con potenti inferenze su originarie concezioni strutturali e magisteri costruttivi che hanno bucato la coltre dei secoli. Un saggio esemplare dunque, che esprime i valori della tradizione culturale dell’uomo e del suo rapporto col territorio, nel nostro caso col Supramonte e le sue intatte solitudini.

Supramonte che diventerà, non ne dubito, patrimonio dell’umanità, come Salvatore, lucidamente, sognava.

Salvatore è per me un uomo sardo, come ne ho fortunatamente incrociati altri capaci di suggerirmi – non esagero – le fonti della mia stessa origine, che è stata anche la mia risposta all’egregio Giovanni Lilliu che mi chiedeva del mio interesse per l’archeologia nuragica.

Salvatore mi suggerisce l’aggettivo balente, di uno che vale. Nel nostro caso estrapolerei la definizione dall’ambito antropologico, su cui hanno scritto approfonditamente Miali Pira e Bacchisio Bandinu e lo trasporterei tout-court e semplicemente, nell’ambito culturale.

Perciò voglio fissare la figura di Salvatore Cabras, nella sintesi del mio ricordo, come un uomo che appartiene alla balentia culturale.

Venezia, 5 agosto 2024

lunedì 8 luglio 2024

Ancora su Accabadora

di Franco Laner

L’amico Paolo Littarru mi ha segnalato la recente recensione su Sardegna Antica, prestigiosa rivista di archeologia diretta da Giacobbe Manca, del mio Accabadora del 1999, edito da Franco Angeli e mi ha chiesto un commento che obtorto collo, esprimo. Appunto malvolentieri, perché pieno di inesattezze, a partire dal lessico improprio e soprattutto da una malcelata cattiveria alla quale preferirei rispondere col silenzio e ignorando gli autori, Feo e Manca. Spiego perché gli autori siano due, anche se uno solo si firma.

Durante un seminario sulle costruzioni di legno in Piemonte – esattamente non ricordo l’anno, più o meno 2008-2010, ma non voglio perdere tempo a rivedere i miei diari – c’era un giovane ingegnere che mostrava un suo progetto con il legno lamellare, di nome Andrea Costa.

  • Sei sardo? –

  • Sì! – mi rispose

  • Per caso conosci Giacobbe Manca?

  • Sì! – affermò ancora

Con grande imbarazzo mi disse che Manca gli aveva chiesto di firmare una lettera al direttore nella quale criticava Accabadora e che lo stesso Manca aveva scritto per la sua rivista “Sardegna antica”. Anzi Manca gli chiese di dichiararsi studente di architettura, anziché di ingegneria, quasi che per sputtanare un prof. ordinario bastasse uno studentello.

Mi chiese umilmente scusa.

Ebbi compassione del giovane ingegnere e disprezzo per Manca.

Nello stesso numero il direttore scrisse anche la recensione di Accabadora, firmata ovviamente da un altro prestanome.

Ora, a distanza di 25 anni, leggo una nuova recensione di Accabadora, apparsa nell’ultimo numero di Sardegna Antica dello stesso tono della precedente. Ancora gli sto così a cuore? Che miseria!

Nel frattempo sono tornato sull’argomento della tecnologia costruttiva dei nuraghi con altri libri, ad esempio Sa ‘ena (2011) e recentemente con Nuraghi, sillabe del cosmo (2023), rivedendo, alla luce di nuovi studi alcune questioni di Accabadora, confermando comunque la tecnologia costruttiva basata sugli stati di coazione, l’orientamento astrale dei nuraghi, con la finalità di cosmizzare, all’uscita del neolitico, due importanti categorie come tempo e spazio.

Torno alla recensione attuale e mi chiedo quale possa essere lo scopo di criticare un libro di 25 anni fa, con le stesse ignoranti osservazioni.

Mi piace pensare che sia una situazione in cui si avverano i presupposti sociali che portarono al noto proverbio: la lingua batte dove il dente duole!

Scrivono gli autori:

La pietra resiste a compressione 10 volte più che alla trazione”(mi citano e io riconfermo), ma Laner non prende in alcuna considerazione la torsione, che è quella forza che spezza gli architravi gravati in modo diseguale alle estremità di una finestrella”…

Un elemento strutturale può essere sollecitato a compressione, trazione, taglio, flessione e torsione e/o combinazione di queste azioni.

Impossibile, assolutamente impossibile, che l’architrave si rompa per torsione. Si rompe per trazione dovuta alla flessione, data da una coppia che agisce all’estremità nel piano parallelo dell’asse longitudinale, ma mai per torsione data da una coppia che agisce nel piano normale all’asse.

Mi chiedo se un urologo – penso sia il mestiere di Feo - starebbe a sentire uno che confonde l’uretra con la vescica o con le ovaie.

Per la stessa ragione mi chiedo perché devo dar peso a chi confonde la trazione con la torsione?

Triste Feo.

È altresì curioso, direi patologico, che citino Mauro Peppino Zedda come ottimo vignaiolo piuttosto che come archeoastronomo; considerando che i suoi studi sono pubblicati in prestigiose riviste scientifiche internazionali. Logica vuole che debba essere considerato come un autorevole studioso della materia. L'archeoastronomia è una disciplina che aiuta a spiegare le relazioni geometriche e la geometria dei nuraghi. Lapalissiano per chi abbia voglia di capire.

Comunque grazie alla nuova recensione mi sono divertito alle spalle dell’ignoranza, cosa che non è etico fare, ma mi è venuto spontaneo!


Franco Laner

Venezia, 04 luglio 2024

mercoledì 10 aprile 2024

BENVENUTE LE RICOSTRUZIONI VIRTUALI PURCHE’ NON SI RICOSTRUISCA DAVVERO

 di Franco Laner

Le ricostruzioni virtuali di un monumento diroccato non recano danno, anzi col linguaggio grafico si esprimono ipotesi e si invita così al confronto.

In particolare, con riferimento al disegno della ricostruzione del Pozzo di Proedium Canopoli di Perfugas apparsa nel numero 224 del marzo-aprile 2024 di Archeologia Viva, il bravo disegnatore Antonio Farina ha proposto l’idea del fuori terra del pozzo originario, su indicazione degli archeologi Nadia Canu e Franco Campus.


Sul disegno dell’ipotesi ricostruttiva di Antonio Farina, ho sovrapposto, in rosso, le mie osservazioni. Il numero fra parentesi indica il riferimento al testo che il disegno mi ha suggerito

Premetto che il mio interesse non è estemporaneo. Da sempre infatti mi ha intrigato l’ipotizzata parte area del Pozzo di S. Cristina, avanzata dal suo restauratore principe, Enrico Atzeni e da tanti archeologi, con il chiaro obiettivo di rigetto dell’ipotesi di Arnold Lebeuf che sostiene che il pozzo abbia avuto una funzione predittiva per gli eventi lunari, impossibile se il pozzo fosse stato coperto, perché non sarebbe potuta penetrare la luce lunare dalla sommità del camino del pozzo.

Se da un verso non ho difficoltà ad ammettere la presenza della parte area di pozzi e fonti, sia per motivi semantici (la segnalazione della presenza di un monumento e del suo uso e significato non sono mai criptici), sia per la presenza di pozzi e fonti con significativa tettonica conservata, come Su Tempiesu e Is Pirois, purtuttavia lamento alcune criticità nella ricostruzione pubblicata.

Ipotizzare una ricostruzione è un esercizio di immaginazione, mai di fantasia. La fantasia è la parte patologica dell’immaginazione, che al contrario si avvale di logica deduttiva e consequenzialità. Pertanto ogni segno grafico afferma scelte, che sono lo specchio della cultura archeologica dei propositori del com’era il monumento.

In primis, i maggiori indizi si deducono dai resti materiali che generano conseguenze costruttive, statiche e formali: i resti di una fondazione, dello spessore di un muro, la forma di un concio, sono elementi di forte inferenza deduttiva. Ci sono poi possibili analogie con monumenti di uguale funzione, esercizio questo che presuppone la conoscenza e catalogazione, condotta con rigorosi approcci statistici, di pozzi e fonti coevi. Soprattutto è necessario un rilievo metrico e materico diligente e preciso. Nel caso del Pozzo di Perfugas il rilievo è sbagliato. Confrontando le foto e la ricostruzione noto che il concio alla base del camino ha altezza doppia rispetto a quelli superiori e non uguale e soprattutto i tre gradini rovesci partono a livello terreno e non sotto tale livello e fanno parte del tamburo fuori terra.

Un rilievo esatto è una condizione essenziale, altrimenti si sta giocando a far castelli in aria.

In quasi tutti i pozzi l’elemento murario sempre presente è il concio a T, che preferisco pensare a forma di protome taurina (1). Dal punto di vista statico questa conformazione non offre nessun contributo, anzi, al contrario, aumenta la spinta, per la sua maggior superfice e minor peso rispetto ad un concio parallelepipedo e anche dal punto di vista ergonomico è una stupida soluzione. Talvolta sulla superficie a vista del concio ci sono due protuberanze. Per realizzare queste due evidenze bisogna sottrarre materiale. Questo lavoro supplettivo, come ho dimostrato in un mio articolo del 1995 a proposito di Su Tempiesu (Conci adespoti e verità negate, in Tema, rivista di restauro di Franco Angeli, Mi, n.3/1995) non serve per agevolare la posa come sostenne l’archeologa Fulvia Lo Schiavo in analogia con le costruzioni inca o greche, perché il concio è facilmente manovrabile. L’archeologo Giuseppe Pitzalis ha definito la superfice con bugne un opus non finitum: gli archeologi quando si esprimono dal punto di vista costruttivo denunciano un’ignoranza abissale, l’assenza del senso del grave (peso) e di cultura costruttiva.

Vedo, in questo particolare concio, il simbolo dell’ermafrodita: il toro, la forza, il sole, il sangue, il maschio: nelle due protuberanze mammilliformi, la presenza femminile, che è compenetrata nel maschile e genera l’essere perfetto, autosufficiente. Così come i betili mammilliformi di Tamuli rappresentano l’ermafroditismo (il fallo e la compresenza mammilliforme), la perfezione che sola può rigenerare. (v. Accabadora, Franco Angeli 1999).

 


Mi pare evidente la compenetrazione del maschio e femmina: l’ermafrodita, l’essere perfetto

Ancora, molti pozzi sono realizzati con una singolarissima tecnologia isodoma: la facciata a vista del concio è inclinata rispetto alla verticale della parete e i conci sono sovrapposti arretrati, dando luogo a linee parallele e orizzontali (2), quasi uno spartito su cui si può leggere il movimento del raggio solare o lunare: è manifesta la ierofania, la presenza del sacro, una trappola dello spirito cosmico.

Un altro, intrigantissimo particolare costruttivo, è la doppia scala, quella che serve per scendere e il suo rovescio, come soffitto gradinato. Che senso può mai avere? Ma il dio che scende può forse servirsi della scala degli umani (3)?

Altre sono le invarianti che statisticamente si manifestano nei pozzi: l’atrio o vestibolo, l’importante architrave – per dimensione e colore - della porta di accesso alla scala (soglia fra sacro e profano) (4), la curvatura a collo di bottiglia del camino del pozzo (5) e dell’entrata, linea molto presente in pozzi e fonti (Su Tempiesu, Santa Cristina, Is Pirois, Sa Testa). L’insieme di queste ripetizioni autorizza il disegno ricostruttivo, che non può essere inficiato da aggiunte di fantasia come il cono apicale, i betilini sul colmo, il paramento esterno seghettato anziché liscio del tamburo esterno, ecc.

Torniamo ora al disegno ricostruttivo di Proedium Canopoli. I camini dei pozzi si chiudono nell’incontrare la terra (la cosmologia si stratifica sempre in inferi, terra e cielo) e non occupano o chiudono lo strato fra inferi e terra, per cui non ha senso che si alzino a torre (6). Il paramento della torre ipotizzata è segmentato (7): questa texture esiste solo all’interno della scala e del camino del pozzo (2).

Fantasiosa anche la copertura a cono con piani orizzontali (8). Di solito le coperture sono fatte per non trattenere l’acqua e farla scorrere verso il basso. Altrimenti si chiamerebbe colabrodo e non tetto.

Il cono apicale è stato trovato in un altro sito, perché metterlo qua sopra (9)?

Cosa ci fanno i cinque betilini (tre più due) sul colmo della copertura (10)?

Per me i particolari costruttivi sono l’equivalente dei frammenti di uno specchio: ognuno contiene l’immagine dell’intero. Saperlo ricomporre è un esercizio di immaginazione, non di fantasia.

Scostandosi da questa regola si incappa inevitabilmente nella critica negativa.

L’articolo comunque non si ferma all’ipotetica ricostruzione, ma ha una, per me, novità zoomorfa, che mi sta attualmente a cuore: descrive il ritrovamento di una statuina di pietra di un maiale o cinghiale (non di un toro, che non ha le setole evidenziate del nostro caso), il bronzetto di un toro e l’immanicatura di osso di una leonessa o felino (non di un leone, visto che non c’è la criniera!). Mi piacerebbe capire come mai nella bronzettistica nuragica gli animali siano così presenti. Residuale di un immanentismo totemico del paleolitico?

Mi piacerebbe darmi una risposta a questa insistente presenza zoomorfa, singola o in gruppo come sulle navicelle votive di bronzo. Anzi sarei ben grato se qualcuno mi indirizzasse verso plausibili risposte.