domenica 27 aprile 2025

Spazzatura nuragica

 

Recensione di Franco Laner a:  Il pozzo sacro di Santa Cristina a Paulilatino nella Sardegna pre-nuragica e nuragica di Alessandro Madau.

L'ho acquistato attraverso Amazon (26 euro e 2,60 spedizione). Il libro è “Printed by Amazon Italia Logistica”, senza l'indicazione dell'anno di edizione.

Frontespizio del libro in questione

Sto lavorando su tema dei pozzi e fonti della Sardegna nuragica.

Ovviamente ho la presunzione di dire qualcosa di aggiuntivo a quanto già scritto, altrimenti perché scrivere? Prima però di presumere di aggiungere mezza pagina a quanto già scritto, penso sia indispensabile raccogliere, leggere e capire quanto chi mi ha preceduto ha ipotizzato.

Nella mia ricerca mi sono imbattuto nel libro in oggetto e l’ho ordinato, considerato l’argomento.

Subito la sorpresa: libricino di 94 pagine, formato A5 (massimo risparmio carta), banalmente impaginato, senza alcun tentativo di composizione grafica, anzi spesso difficile da leggere perché non è stato lasciato nemmeno lo spazio minimo fra scritto e rilegatura, cosicché l’allineamento della pagina sinistra si sovrappone a quello della destra.

Per deviazione professionale – quante tesi di laurea ho seguito! – vado subito alla bibliografia, specchio immediato, come raccomandava Umberto Eco, di valutazione di un lavoro di ricerca. Manca la casa editrice di tutti i libri consultati. Forse è considerato un optional, visto che anche il libro in questione non ha editore.

Amen, non mi scoraggio e scorro l’indice. I primi tre capitoli, 58 pagine su 94 (60%) sono dedicati al riassunto – banale, acritico e stereotipato – dei millenni ricchi di storia della Sardegna, dal Neolitico fino al periodo nuragico. Ma il libro non ha per oggetto il pozzo di S. Cristina, come annunciato in quarta di copertina dove si dice che il pozzo sarà analizzato nel dettaglio?

Mi pare che si stia menando il can per l’aia! E non si arriva al dunque!

Resisto e finalmente il capitolo IV è dedicato all’architettura religiosa, dove l’autore inserisce pozzi e fonti con descrizioni scontate da piccola guida turistica, malamente riassunte dai siti internet.

Apprendo comunque che Su Tempiesu, gioiello di fonte, pur superficialmente restaurata (v. mio articolo su TEMA, rivista di restauro edita da Franco Angeli, n. 3, 1995: Conci adespoti e verità negate. Alcune riflessioni sull’intervento ricostruttivo di una fonte nuragica) non si chiama così perché in sardo tempiesu è un piccolo tempio, un tempietto, bensì perché nel bosco circostante agli inizi del secolo (quale?), lavorasse un signore di Tempio (Su Tempiesu appunto) incaricato al taglio degli alberi per ricavarne carbone (pag. 63)!

E S. Cristina, che da il titolo al libro? Finalmente si arriva al V e ultimo capitolo. Poche righe per il pozzo, molte di più al contesto, a cominciare dalla cosiddetta capanna delle riunioni, alla chiesa e le cumbessias. Mancava appunto la storia del pozzo nel periodo cristiano per completarne la storia iniziata nel Neolitico!

Anche il cane, a ‘sto punto, è stufo di essere menato per l’aia.

Tralascio gli accenni alla tecnologia costruttiva, della serie muratura a secco con malta di fango per meglio fermare le zeppe. La malta, per essere tale, ha bisogno di legante (calce, cemento, pozzolana: il fango è fango, non malta). Se poi la zeppa ha bisogno di malta non è una zeppa, bensì un vuoto, una sottrazione: niente! La muratura a secco comunque non fa ricorso al “bagnato”, semplicemente perché è “a secco”!

Alcune foto sono illeggibili, come quella di fig, 25, 31, 38, 42 e 44. Altre di scarsa definizione.

Ma ciò che mi far girare le armonie è la condivisione della funzione di nuraghe per uso militare. Scrive:

Recentemente sembra sempre più diffusa quest’ultima teoria, soprattutto osservando la posizione dei nuraghi. Essi si trovano, di solito in posizione dominante, guardano dall’alto e da vicino un passo, un guado, una fonte, un approdo e quando circondano i bordi degli altopiani, si infittiscono dove minore è la difesa naturale. Sono inoltre posti in vista uno dall’altro o di svariati altri. I nuraghi, insomma, dimostrano con la loro dislocazione, lo scopo di difesa, di conquista e di possesso della terra sarda, sia nel suo complesso che nel suo particolare frastaglio di valli, di altopiani e di pianure. In una nota l’autore attribuisce all’archeologo Ercole Contu – pappagallo di Lilliu – la frase che lui fa sua. Pensavo, sbagliandomi, che la teoria del nuraghe fortezza, madre di ogni sciocchezza, fosse morta e sepolta!

Confondere il sacro col profano mi annichilisce, molto più di sentirmi buggerato e derubato per il prezzo del libro che, a conti fatti, viene 28,60 euro : 94 pagine = 30 centesimi a pagina, a confronto di prezzi di simili pubblicazioni che vanno da meno di 5 centesimi a 20 centesimi massimo per pagina.

A fronte di questa mia piccante e sgradevole recensione mi sento replicare da Amazon, più che dall’autore: nessuno ti ha imposto di comperare il libro, l’hai chiesto e te l’abbiamo dato. Replico che nemmeno io ho chiesto o imposto di leggere questa recensione. Pertanto siamo pari!

Pareggio? Se ricorressimo ai supplementari sicuramente soccomberei, perché nel libro sono introdotti nuovi aggettivi. Ad esempio ipogeico al posto di ipogeo, ctonico al posto di ctonio, con la chicca dei betili con protuberanze mammelliformi, definiti menhir mammellati (i betili di Tamuli)

Difronte all’innovazione lessicale alzo le braccia in segno di resa.



lunedì 3 febbraio 2025

PONTI NURAGICI. Gratificante segnalazione, ma amara costatazione

di Franco Laner



Questo ponte sul rio Trogos a Paulilatino è stato recentemente ritenuto nuragico da un archeologo durante un convegno sul culto dell’acqua. È stato invece realizzato alcuni anni fa con la pala del Comune, come è evidente e immediato a chi abbia un minimo di familiarità con le costruzioni storiche a secco.

In un precedente post su questo blog – 17 gennaio 2025 – ho sostenuto, con semplici osservazioni, che non potevano essere stati costruiti ponti di tipo dolmenico dai nuragici, meravigliandomi di come un archeologo potesse sostenere una così evidente stupidata.

Il post mi ha procurato diverse critiche. In verità nessuna nel merito, quanto piuttosto nei modi e nel linguaggio, ma come ho spesso detto non riesco a sopportare la stupidità, perché le tonterias archeologiche non solo danneggiano la disciplina, ma i sardi. Ciò mi fa uscire dai gangheri.


Una semplice domanda: se devo passare un rio mi conviene mettere un paio di tronchi d’albero affiancati o mettere una pietra di 50q sopra due massi?

Ebbene, un caro amico di Paulilatino, mi ha girato quanto riporto:

Ponte sul rio Trogos, formato da ciclopici massi, di origine recente,
si trova in località 'Angrona' nel territorio comunale di Paulilatino.
Qui sotto la risposta del signor Paolo Cadinu, pubblicata in data 1 dicembre 2018 nei commenti all'articolo che definisce il "ponte nuragico" come il più antico del mondo.
sardegna.admaioramedia.it/il-ponte-piu-antico-al-mondo-...
"Carissimo ..., prima di tutto GRAZIE per aver fatto conoscere ancora di più il paese di Paulilatino, provincia di Oristano, nel mondo, paese tra i più ricchi di reperti preistorici e storici di cui oltre ad andarne fieri ci curiamo della loro manutenzione e promozione, siamo il paese del pozzo sacro di santa Cristina, del paese pieno di nuraghi, domus de Janas, stele ma sicuramente non siamo il paese con il ponte più antico del mondo e non vogliamo diffondere imprecise notizie in merito in quanto ciò che offriamo ai nostri visitatori è tutto originale. Il ponte in questione, nonostante possa trarre in inganno non è altro che una costruzione realizzata molto artigianalmente da alcuni abitanti del paese nel “lontano” 1988 poiché era necessario realizzare un punto di passaggio quando le forti piogge facevano crescere il rio che vi scorre sotto e diventava impossibile attraversare quel tratto di strada. Detto questo la invito con piacere a visitare il nostro territorio, non avremmo il ponte ma resterà a bocca aperta per le nostre bellezze.
Cordialmente, Paolo Cadinu, consigliere comunale di Paulilatino"

Se vengono prese per buone evidenti bufale, significa che la cultura archeologica è fragile, molto fragile e lo dimostra il fatto che ancora si parla di nuraghe-fortezza, madre di ogni sciocchezza, teoria ostativa alla reimpostazione della ricerca nuragica che reclama un ovvio e conseguente cambio di paradigma.

Ma, visto che tutto il male non viene per nuocere, sto pensando ad un mio impegno. Postare, ogni mese, una “tonteria nuragica”, sempre che il curatore di questo blog archeologia nuragica sia d’accordo. Per una decina di mesi ho materiale. Nel frattempo non dubito che gli archeologi mi forniranno nuovi materiali.

lunedì 27 gennaio 2025

Conci mammelliformi. Allusione androgina

di Franco Laner

Per rispondere a due richieste di maggior chiarimento di alcune immagini che ho proiettato durante il mio intervento sui pozzi e fonti e sacralità dell’acqua nel recente incontro di Settimo (v. precedente post su questo blog), dove ho sostenuto che i conci a T (onnipresenti nei pozzi) abbiano forma taurina, maschia e ricordato che spesso il toro è presente in pozzi e fonti anche con le sue fattezze reali, non solo simboliche, sintetizzo ciò che in altre occasioni, in scritti e conferenze, ho sostenuto.

Molto spesso, sui conci taurini sono presenti due protuberanze che interpreto come mammelle.

È dunque compresente il maschio e la femmina, ovvero l’ermafrodita, l’androgino, figura che ha in sé la completezza e perfezione.

Gli archeologi hanno interpretato le protuberanze come funzionali al trasporto dei conci e alla loro messa in opera per essere poi scalpellate via.

Ma come si fa a pensare ad una tale corbelleria? Il concio è facilmente sollevabile e lavorabile senza necessità di protuberanze, estremamente laboriose per la sottrazione materica necessaria!

Sarebbe un lavoro stupido ed inutile e chi lo dovesse compiere sarebbe immediatamente condannato, come Sisifo, e costretto a spingere un masso in cima al monte e poi lasciarlo rotolare a valle e quindi riportarlo in cima all’infinito. In altre parole è una cretinata ergonomica: grande sforzo per non ottenere alcun risultato. Come corollario: quale credibilità, quale affidabilità può mai avere chi confonde tale evidenza quando poi si accinge a restaurare monumenti, se nulla sa di tecnologia costruttiva?

1. “Per la prima volta in Sardegna” -scrive David Ridgway (Quaderno 18, Torchietto, Ozieri, 1992) a proposito del restauro di Su Tempiesu, eseguito da M. A. Fadda “è stato possibile dimostrare la funzione puramente funzionale dei mammelloni destinati semplicemente a facilitare il maneggio dei blocchi per essere poi scalpellati via a fine opera”

 Nei conci dei pozzi possono trovarsi” -fa eco Contu- delle protuberanze mammelliformi alle quali un tempo gli archeologi davano significati magico-rituali, mentre deve trattarsi utile per il trasporto, per la messa in opera e per la lavorazione dei blocchi”.



2. Ancora nel 2008 Maria Ausilia Fadda riprende la tesi utilitaristica delle protuberanze, illustrando il restauro del complesso nuragico di Gremanu (Delfino editore, Sassari, 2008)

Per rafforzare questa mia convinzione del richiamo simbolico all’ermafrodita, ho poi proiettato i betili mammelliformi di Tamuli: fallo e seni compresenti di chiara simbologia androgina.

L’androgino, presso molte culture arcaiche, rappresenta la forza, la luce da cui ha origine la vita.

Rappresenta la divinità da cui tutto proviene. È la perfezione primordiale, la riunione di cielo e terra. Anche nel Simposio di Platone l’uomo era originalmente bisessuale.



3. I betili di Tamuli a presidio e auspicio di rinascita presso le tombe di giganti

La compresenza maschile/femminile nella simbologia dei pozzi e fonti nuragiche ci aiuta a capire i possibili riti di rigenerazione e fecondità che si potevano svolgere in questi templi, oltre che di purificazione sottesi alla sacralità dell’acqua, argomento su cui stiamo lavorando data la sua attualità per la comprensione del paesaggio nuragico.

Qualora infatti l’indagine archeologica e i reperti siano afoni e insufficienti a restituire il contesto sociale, culturale e religioso, altre discipline possono concorrere a restringere gli ambiti di aleatorietà. Mi riferisco alla storia delle religioni, dell’architettura e dell’arte; alla tecnologia costruttiva, alla psicologia, all’antropologia, all’astronomia, insomma a tutte le discipline dello spirito e della natura, perché l’uomo è un unicum, sommatoria e sintesi di discipline e l’archeologia da sola è impotente a restituirci l’uomo del passato, specie se si fonda solo su ciò che brilla sulla punta del piccone. Gli archeologi, chini a cercare e a catalogare cocci, dimenticano di sollevare qualche volta gli occhi al cielo.

 



4 e 5. Per sollevare alcuni grandi blocchi, es. Incas e architravi di templi, le protuberanze erano funzionali al sollevamento, ma si tratta di tonnellate, non di alcune decine di kilogrammi dei conci dei pozzi e fonti nuragiche.

Nuraghi, pozzi e fonti sacre e TdiG sono monumenti specifici e propri della civiltà nuragica. Un insieme che va indagato all’infuori di teorie belliche e utilitaristiche, ancora imperanti nell’archeologia sarda, se ci si vuole avvicinare al particolare paesaggio culturale, sociale, religioso e artistico di un millennio di storia assolutamente originale.

venerdì 17 gennaio 2025

PONTI NURAGICI ?!?!

 di Franco Laner

Sabato scorso, 11 gennaio 2025, ho partecipato ad un incontro a Settimo san Pietro organizzato dalla locale associazione archeologica Jenna Arcana che aveva per oggetto il culto dell’acqua nel periodo nuragico con interventi diversamente declinati dai relatori.

Nella sua relazione, l’archeologo, fra i vari manufatti, pozzi, fonti, cisterne, canalizzazioni nuragiche ha incluso anche i ponti. In particolare una dia mostrava il ponte dolmenico/nuragico sul rio Trogos (Paulilatino).

 

Fig.1 Il ponte nuragico/dolmenico dalla relazione dell’archeologo

Sono sobbalzato sulla sedia per la sorpresa: come, ponti in Sardegna prima delle strade romane?

I ponti sono opere complementari alle strade e quindi c’era una viabilità stradale nuragica? Ho visto piste antiche con solchi segnati da slitte e carri a sant’ Antonio Ruinas dove si erge uno straordinario e slanciato menhir, ma mi è nuova la viabilità nuragica.

 

Fig 2 Solchi di carro nei pressi del menhir di sant’Antonio Ruinas. sono diffusi in tutta la Sardegna e a mio parere si sono formati negli ultimi 2500 anni, ovvero dal periodo punico in poi.

Anche i sentieri possono aver necessità di passerelle, ma per passare un rio o un torrente si mettono alcuni tronchi d’albero accostati. Per passare un fiume si sono usate barche (traghetti), ma sono attestati anche ponti di barche unite fra loro sia nell’antichità e sia anche recentemente, ad esempio fino a poco tempo fa c’erano ponti di barche per automobili sul Po.

Subito ho pensato a un dolmen e che un rio avesse subito una deviazione. Ma appena ho guardato meglio si vede che per arrivare sopra la pietra apicale, ci son altri massi messi a gradino e che effettivamente è un ponte che permette il passaggio di pedoni agili o di capre. Non sicuramente anziani o mucche.

Sul trasporto e messa in opera delle pietre ortostatiche dei dolmen nel Neolitico ho scritto e ipotizzato diverse tecnologie. Stessa cosa per lo scavo, trasporto e posa delle pietre per i ciclopici nuraghi. Non ho dubbio che un nuragico sarebbe riuscito a fare un ponte dolmenico.

Ma non l’ha mai fatto semplicemente perché non sapeva cosa fosse un ponte! E nemmeno sapeva cosa fosse una strada di cui il ponte è opera d’arte, come lo sono i muri di sostegno, le cunette per l’acqua o i tornanti in caso di strade di montagna…

Se poi si sono visti dolmen, opera di ingegno e eccelsa arte, la pietra apicale non è solo grande, ma anche bella ed espressiva e anche quando non ha le facce parallele e planari, non è una pietra messa sopra come è stata trovata, bensì lavorata, seppur sommariamente. Ma soprattutto le pietre ortostatiche sono snelle e strette, oppure, piramidali, non come nel nostro caso, che sono massi rozzi e trovati lì vicino. In altre parole non c’è architettura, solo mera tettonica.

Fare una passerella con tali pesanti pietre è una stupidata. Esattamente come tagliare un albero per fare uno stecchino per pulirsi i denti.

In una frase allora il mio parere: il ponte nuragico è stato fatto non più di cinquant’anni fa con una pala meccanica per guadare il rio anche in caso di piena!

 

Fig. 3 Manifesto dell’incontro di Settimo san Pietro


L’altro argomento citato nel florilegio dei manufatti che interferiscono con l’acqua, utilitaristica o sacra, riguardava le dighe! A onor del vero, c’era un punto di domanda su questo tema. Perché se è stupido parlar di ponti dolmenici, parlar di dighe nuragiche sarebbe demenziale.

Eppure concepirei più una diga nuragica che un ponte. Per trasportare tronchi d’albero a valle, da secoli, da noi in montagna, ci si serviva dei torrenti, ma, essendo di poca portata, i tronchi si sarebbero incagliati. Allora si costruivano dighe di terra e nel bacino si mettevano i tronchi da trasportare. Poi la diga veniva aperta e la massa d’acqua trascinava i tronchi a valle.

Venezia è stata costruita coi tronchi fluitati, ma prima di arrivare ai fiumi e in laguna, c’era bisogno di stue, (dal latino stuere, stappare improvvisamente) e si sono costruite dighe di terra. A parte questa particolare ragione, un po' più seria dell’archeologia all’Hanna & Barbera dei ponti nuragici, anche le dighe si sono realizzate per avere riserva d’acqua per l’irrigazione e la distribuzione idrica per gli usi domestici e produttivi in tempi recenti. Al massimo i nuragici hanno realizzato canalizzazioni di qualche decina di metri per il recupero del troppo pieno di sacre acque di fonti.

Non escludo che qualche ruscello sia stato sbarrato, in antico e di recente, da rudimentali dighette per bagnarsi e refrigerarsi il cervello nei caldi estivi.

mercoledì 7 agosto 2024

Balentia culturale

 di Franco Laner

 

Ho ricevuto stamane da Ninni Pigozzi la triste notizia della morte dell’amico e collega architetto Salvatore Cabras. Alcuni mesi fa sembrava, visto che la malattia lo insidiava da qualche tempo, che l’avesse sconfitta e già ci stavamo attivando per riprendere le fila di un progetto che lui cullava da sempre e che ci aveva contaminato (parlo al plurale, non per maiestatis, bensì perché coinvolti nell’avventura del turismo lento in Ogliastra: c’è il già citato Ninni Pigozzi, Bachisio Bandinu, Mauro Zedda, GB Gallus, Gisella Rubiu, Sergio Sassu, Cesare Garau, Giorgio Lai, Eliana Sanna e altri che mi scuso di non citare, a causa della mia situazione anagrafica).

Per le finalità del progetto sul turismo lento gli interessati possono leggerne una sintesi nel post pubblicato nel blog di Archeologia nuragica del 30 dicembre 2023, dove commento il libro di Bandinu, appunto sul turismo lento.

Avevo conosciuto Salvatore in occasione di un convegno organizzato dall’Ordine degli architetti, pianificatori, paesaggisti e conservatori di Nuoro sui muri a secco. Fu per me un felice incontro per le mie ricerche sul legno e pietre dell’architettura vernacolare, perché mi fece penetrare negli arcana dei coiles, dove è imprigionata una sapienza costruttiva atavica. Il suo libro è il testamento di una architettura che suggerisce un modo di costruire in cui il primo interesse è l’uomo. Dove tutto deve essere progettato per la sua salute e il suo benessere in armonia con le altre creature e l’ambiente.

Salvatore, con Coiles ci ha restituito un immenso patrimonio culturale con una ricerca puntuale dal punto di vista del rilievo materico, fotografico, esplicativo, proprio della disciplina architettonica con l’aggiunta sapiente di altre discipline, come l’antropologia, l’etnologia, la topografia e toponomastica.

La necessità fatta arte del costruire e dove le categorie utilitas, venustas e firmitas trovano sintesi. Soprattutto, intervistando i pastori che ancora praticano questa attività ancestrale, ha recuperato l’autentica fonte orale e vissuta.

Dal mio punto di vista, quello della tecnologia costruttiva, ha aggiunto osservazioni originali sulle costruzioni di legno e pietra a secco con potenti inferenze su originarie concezioni strutturali e magisteri costruttivi che hanno bucato la coltre dei secoli. Un saggio esemplare dunque, che esprime i valori della tradizione culturale dell’uomo e del suo rapporto col territorio, nel nostro caso col Supramonte e le sue intatte solitudini.

Supramonte che diventerà, non ne dubito, patrimonio dell’umanità, come Salvatore, lucidamente, sognava.

Salvatore è per me un uomo sardo, come ne ho fortunatamente incrociati altri capaci di suggerirmi – non esagero – le fonti della mia stessa origine, che è stata anche la mia risposta all’egregio Giovanni Lilliu che mi chiedeva del mio interesse per l’archeologia nuragica.

Salvatore mi suggerisce l’aggettivo balente, di uno che vale. Nel nostro caso estrapolerei la definizione dall’ambito antropologico, su cui hanno scritto approfonditamente Miali Pira e Bacchisio Bandinu e lo trasporterei tout-court e semplicemente, nell’ambito culturale.

Perciò voglio fissare la figura di Salvatore Cabras, nella sintesi del mio ricordo, come un uomo che appartiene alla balentia culturale.

Venezia, 5 agosto 2024

lunedì 8 luglio 2024

Ancora su Accabadora

di Franco Laner

L’amico Paolo Littarru mi ha segnalato la recente recensione su Sardegna Antica, prestigiosa rivista di archeologia diretta da Giacobbe Manca, del mio Accabadora del 1999, edito da Franco Angeli e mi ha chiesto un commento che obtorto collo, esprimo. Appunto malvolentieri, perché pieno di inesattezze, a partire dal lessico improprio e soprattutto da una malcelata cattiveria alla quale preferirei rispondere col silenzio e ignorando gli autori, Feo e Manca. Spiego perché gli autori siano due, anche se uno solo si firma.

Durante un seminario sulle costruzioni di legno in Piemonte – esattamente non ricordo l’anno, più o meno 2008-2010, ma non voglio perdere tempo a rivedere i miei diari – c’era un giovane ingegnere che mostrava un suo progetto con il legno lamellare, di nome Andrea Costa.

  • Sei sardo? –

  • Sì! – mi rispose

  • Per caso conosci Giacobbe Manca?

  • Sì! – affermò ancora

Con grande imbarazzo mi disse che Manca gli aveva chiesto di firmare una lettera al direttore nella quale criticava Accabadora e che lo stesso Manca aveva scritto per la sua rivista “Sardegna antica”. Anzi Manca gli chiese di dichiararsi studente di architettura, anziché di ingegneria, quasi che per sputtanare un prof. ordinario bastasse uno studentello.

Mi chiese umilmente scusa.

Ebbi compassione del giovane ingegnere e disprezzo per Manca.

Nello stesso numero il direttore scrisse anche la recensione di Accabadora, firmata ovviamente da un altro prestanome.

Ora, a distanza di 25 anni, leggo una nuova recensione di Accabadora, apparsa nell’ultimo numero di Sardegna Antica dello stesso tono della precedente. Ancora gli sto così a cuore? Che miseria!

Nel frattempo sono tornato sull’argomento della tecnologia costruttiva dei nuraghi con altri libri, ad esempio Sa ‘ena (2011) e recentemente con Nuraghi, sillabe del cosmo (2023), rivedendo, alla luce di nuovi studi alcune questioni di Accabadora, confermando comunque la tecnologia costruttiva basata sugli stati di coazione, l’orientamento astrale dei nuraghi, con la finalità di cosmizzare, all’uscita del neolitico, due importanti categorie come tempo e spazio.

Torno alla recensione attuale e mi chiedo quale possa essere lo scopo di criticare un libro di 25 anni fa, con le stesse ignoranti osservazioni.

Mi piace pensare che sia una situazione in cui si avverano i presupposti sociali che portarono al noto proverbio: la lingua batte dove il dente duole!

Scrivono gli autori:

La pietra resiste a compressione 10 volte più che alla trazione”(mi citano e io riconfermo), ma Laner non prende in alcuna considerazione la torsione, che è quella forza che spezza gli architravi gravati in modo diseguale alle estremità di una finestrella”…

Un elemento strutturale può essere sollecitato a compressione, trazione, taglio, flessione e torsione e/o combinazione di queste azioni.

Impossibile, assolutamente impossibile, che l’architrave si rompa per torsione. Si rompe per trazione dovuta alla flessione, data da una coppia che agisce all’estremità nel piano parallelo dell’asse longitudinale, ma mai per torsione data da una coppia che agisce nel piano normale all’asse.

Mi chiedo se un urologo – penso sia il mestiere di Feo - starebbe a sentire uno che confonde l’uretra con la vescica o con le ovaie.

Per la stessa ragione mi chiedo perché devo dar peso a chi confonde la trazione con la torsione?

Triste Feo.

È altresì curioso, direi patologico, che citino Mauro Peppino Zedda come ottimo vignaiolo piuttosto che come archeoastronomo; considerando che i suoi studi sono pubblicati in prestigiose riviste scientifiche internazionali. Logica vuole che debba essere considerato come un autorevole studioso della materia. L'archeoastronomia è una disciplina che aiuta a spiegare le relazioni geometriche e la geometria dei nuraghi. Lapalissiano per chi abbia voglia di capire.

Comunque grazie alla nuova recensione mi sono divertito alle spalle dell’ignoranza, cosa che non è etico fare, ma mi è venuto spontaneo!


Franco Laner

Venezia, 04 luglio 2024

mercoledì 10 aprile 2024

BENVENUTE LE RICOSTRUZIONI VIRTUALI PURCHE’ NON SI RICOSTRUISCA DAVVERO

 di Franco Laner

Le ricostruzioni virtuali di un monumento diroccato non recano danno, anzi col linguaggio grafico si esprimono ipotesi e si invita così al confronto.

In particolare, con riferimento al disegno della ricostruzione del Pozzo di Proedium Canopoli di Perfugas apparsa nel numero 224 del marzo-aprile 2024 di Archeologia Viva, il bravo disegnatore Antonio Farina ha proposto l’idea del fuori terra del pozzo originario, su indicazione degli archeologi Nadia Canu e Franco Campus.


Sul disegno dell’ipotesi ricostruttiva di Antonio Farina, ho sovrapposto, in rosso, le mie osservazioni. Il numero fra parentesi indica il riferimento al testo che il disegno mi ha suggerito

Premetto che il mio interesse non è estemporaneo. Da sempre infatti mi ha intrigato l’ipotizzata parte area del Pozzo di S. Cristina, avanzata dal suo restauratore principe, Enrico Atzeni e da tanti archeologi, con il chiaro obiettivo di rigetto dell’ipotesi di Arnold Lebeuf che sostiene che il pozzo abbia avuto una funzione predittiva per gli eventi lunari, impossibile se il pozzo fosse stato coperto, perché non sarebbe potuta penetrare la luce lunare dalla sommità del camino del pozzo.

Se da un verso non ho difficoltà ad ammettere la presenza della parte area di pozzi e fonti, sia per motivi semantici (la segnalazione della presenza di un monumento e del suo uso e significato non sono mai criptici), sia per la presenza di pozzi e fonti con significativa tettonica conservata, come Su Tempiesu e Is Pirois, purtuttavia lamento alcune criticità nella ricostruzione pubblicata.

Ipotizzare una ricostruzione è un esercizio di immaginazione, mai di fantasia. La fantasia è la parte patologica dell’immaginazione, che al contrario si avvale di logica deduttiva e consequenzialità. Pertanto ogni segno grafico afferma scelte, che sono lo specchio della cultura archeologica dei propositori del com’era il monumento.

In primis, i maggiori indizi si deducono dai resti materiali che generano conseguenze costruttive, statiche e formali: i resti di una fondazione, dello spessore di un muro, la forma di un concio, sono elementi di forte inferenza deduttiva. Ci sono poi possibili analogie con monumenti di uguale funzione, esercizio questo che presuppone la conoscenza e catalogazione, condotta con rigorosi approcci statistici, di pozzi e fonti coevi. Soprattutto è necessario un rilievo metrico e materico diligente e preciso. Nel caso del Pozzo di Perfugas il rilievo è sbagliato. Confrontando le foto e la ricostruzione noto che il concio alla base del camino ha altezza doppia rispetto a quelli superiori e non uguale e soprattutto i tre gradini rovesci partono a livello terreno e non sotto tale livello e fanno parte del tamburo fuori terra.

Un rilievo esatto è una condizione essenziale, altrimenti si sta giocando a far castelli in aria.

In quasi tutti i pozzi l’elemento murario sempre presente è il concio a T, che preferisco pensare a forma di protome taurina (1). Dal punto di vista statico questa conformazione non offre nessun contributo, anzi, al contrario, aumenta la spinta, per la sua maggior superfice e minor peso rispetto ad un concio parallelepipedo e anche dal punto di vista ergonomico è una stupida soluzione. Talvolta sulla superficie a vista del concio ci sono due protuberanze. Per realizzare queste due evidenze bisogna sottrarre materiale. Questo lavoro supplettivo, come ho dimostrato in un mio articolo del 1995 a proposito di Su Tempiesu (Conci adespoti e verità negate, in Tema, rivista di restauro di Franco Angeli, Mi, n.3/1995) non serve per agevolare la posa come sostenne l’archeologa Fulvia Lo Schiavo in analogia con le costruzioni inca o greche, perché il concio è facilmente manovrabile. L’archeologo Giuseppe Pitzalis ha definito la superfice con bugne un opus non finitum: gli archeologi quando si esprimono dal punto di vista costruttivo denunciano un’ignoranza abissale, l’assenza del senso del grave (peso) e di cultura costruttiva.

Vedo, in questo particolare concio, il simbolo dell’ermafrodita: il toro, la forza, il sole, il sangue, il maschio: nelle due protuberanze mammilliformi, la presenza femminile, che è compenetrata nel maschile e genera l’essere perfetto, autosufficiente. Così come i betili mammilliformi di Tamuli rappresentano l’ermafroditismo (il fallo e la compresenza mammilliforme), la perfezione che sola può rigenerare. (v. Accabadora, Franco Angeli 1999).

 


Mi pare evidente la compenetrazione del maschio e femmina: l’ermafrodita, l’essere perfetto

Ancora, molti pozzi sono realizzati con una singolarissima tecnologia isodoma: la facciata a vista del concio è inclinata rispetto alla verticale della parete e i conci sono sovrapposti arretrati, dando luogo a linee parallele e orizzontali (2), quasi uno spartito su cui si può leggere il movimento del raggio solare o lunare: è manifesta la ierofania, la presenza del sacro, una trappola dello spirito cosmico.

Un altro, intrigantissimo particolare costruttivo, è la doppia scala, quella che serve per scendere e il suo rovescio, come soffitto gradinato. Che senso può mai avere? Ma il dio che scende può forse servirsi della scala degli umani (3)?

Altre sono le invarianti che statisticamente si manifestano nei pozzi: l’atrio o vestibolo, l’importante architrave – per dimensione e colore - della porta di accesso alla scala (soglia fra sacro e profano) (4), la curvatura a collo di bottiglia del camino del pozzo (5) e dell’entrata, linea molto presente in pozzi e fonti (Su Tempiesu, Santa Cristina, Is Pirois, Sa Testa). L’insieme di queste ripetizioni autorizza il disegno ricostruttivo, che non può essere inficiato da aggiunte di fantasia come il cono apicale, i betilini sul colmo, il paramento esterno seghettato anziché liscio del tamburo esterno, ecc.

Torniamo ora al disegno ricostruttivo di Proedium Canopoli. I camini dei pozzi si chiudono nell’incontrare la terra (la cosmologia si stratifica sempre in inferi, terra e cielo) e non occupano o chiudono lo strato fra inferi e terra, per cui non ha senso che si alzino a torre (6). Il paramento della torre ipotizzata è segmentato (7): questa texture esiste solo all’interno della scala e del camino del pozzo (2).

Fantasiosa anche la copertura a cono con piani orizzontali (8). Di solito le coperture sono fatte per non trattenere l’acqua e farla scorrere verso il basso. Altrimenti si chiamerebbe colabrodo e non tetto.

Il cono apicale è stato trovato in un altro sito, perché metterlo qua sopra (9)?

Cosa ci fanno i cinque betilini (tre più due) sul colmo della copertura (10)?

Per me i particolari costruttivi sono l’equivalente dei frammenti di uno specchio: ognuno contiene l’immagine dell’intero. Saperlo ricomporre è un esercizio di immaginazione, non di fantasia.

Scostandosi da questa regola si incappa inevitabilmente nella critica negativa.

L’articolo comunque non si ferma all’ipotetica ricostruzione, ma ha una, per me, novità zoomorfa, che mi sta attualmente a cuore: descrive il ritrovamento di una statuina di pietra di un maiale o cinghiale (non di un toro, che non ha le setole evidenziate del nostro caso), il bronzetto di un toro e l’immanicatura di osso di una leonessa o felino (non di un leone, visto che non c’è la criniera!). Mi piacerebbe capire come mai nella bronzettistica nuragica gli animali siano così presenti. Residuale di un immanentismo totemico del paleolitico?

Mi piacerebbe darmi una risposta a questa insistente presenza zoomorfa, singola o in gruppo come sulle navicelle votive di bronzo. Anzi sarei ben grato se qualcuno mi indirizzasse verso plausibili risposte.