mercoledì 7 agosto 2024

Balentia culturale

 di Franco Laner

 

Ho ricevuto stamane da Ninni Pigozzi la triste notizia della morte dell’amico e collega architetto Salvatore Cabras. Alcuni mesi fa sembrava, visto che la malattia lo insidiava da qualche tempo, che l’avesse sconfitta e già ci stavamo attivando per riprendere le fila di un progetto che lui cullava da sempre e che ci aveva contaminato (parlo al plurale, non per maiestatis, bensì perché coinvolti nell’avventura del turismo lento in Ogliastra: c’è il già citato Ninni Pigozzi, Bachisio Bandinu, Mauro Zedda, GB Gallus, Gisella Rubiu, Sergio Sassu, Cesare Garau, Giorgio Lai, Eliana Sanna e altri che mi scuso di non citare, a causa della mia situazione anagrafica).

Per le finalità del progetto sul turismo lento gli interessati possono leggerne una sintesi nel post pubblicato nel blog di Archeologia nuragica del 30 dicembre 2023, dove commento il libro di Bandinu, appunto sul turismo lento.

Avevo conosciuto Salvatore in occasione di un convegno organizzato dall’Ordine degli architetti, pianificatori, paesaggisti e conservatori di Nuoro sui muri a secco. Fu per me un felice incontro per le mie ricerche sul legno e pietre dell’architettura vernacolare, perché mi fece penetrare negli arcana dei coiles, dove è imprigionata una sapienza costruttiva atavica. Il suo libro è il testamento di una architettura che suggerisce un modo di costruire in cui il primo interesse è l’uomo. Dove tutto deve essere progettato per la sua salute e il suo benessere in armonia con le altre creature e l’ambiente.

Salvatore, con Coiles ci ha restituito un immenso patrimonio culturale con una ricerca puntuale dal punto di vista del rilievo materico, fotografico, esplicativo, proprio della disciplina architettonica con l’aggiunta sapiente di altre discipline, come l’antropologia, l’etnologia, la topografia e toponomastica.

La necessità fatta arte del costruire e dove le categorie utilitas, venustas e firmitas trovano sintesi. Soprattutto, intervistando i pastori che ancora praticano questa attività ancestrale, ha recuperato l’autentica fonte orale e vissuta.

Dal mio punto di vista, quello della tecnologia costruttiva, ha aggiunto osservazioni originali sulle costruzioni di legno e pietra a secco con potenti inferenze su originarie concezioni strutturali e magisteri costruttivi che hanno bucato la coltre dei secoli. Un saggio esemplare dunque, che esprime i valori della tradizione culturale dell’uomo e del suo rapporto col territorio, nel nostro caso col Supramonte e le sue intatte solitudini.

Supramonte che diventerà, non ne dubito, patrimonio dell’umanità, come Salvatore, lucidamente, sognava.

Salvatore è per me un uomo sardo, come ne ho fortunatamente incrociati altri capaci di suggerirmi – non esagero – le fonti della mia stessa origine, che è stata anche la mia risposta all’egregio Giovanni Lilliu che mi chiedeva del mio interesse per l’archeologia nuragica.

Salvatore mi suggerisce l’aggettivo balente, di uno che vale. Nel nostro caso estrapolerei la definizione dall’ambito antropologico, su cui hanno scritto approfonditamente Miali Pira e Bacchisio Bandinu e lo trasporterei tout-court e semplicemente, nell’ambito culturale.

Perciò voglio fissare la figura di Salvatore Cabras, nella sintesi del mio ricordo, come un uomo che appartiene alla balentia culturale.

Venezia, 5 agosto 2024

lunedì 8 luglio 2024

Ancora su Accabadora

di Franco Laner

L’amico Paolo Littarru mi ha segnalato la recente recensione su Sardegna Antica, prestigiosa rivista di archeologia diretta da Giacobbe Manca, del mio Accabadora del 1999, edito da Franco Angeli e mi ha chiesto un commento che obtorto collo, esprimo. Appunto malvolentieri, perché pieno di inesattezze, a partire dal lessico improprio e soprattutto da una malcelata cattiveria alla quale preferirei rispondere col silenzio e ignorando gli autori, Feo e Manca. Spiego perché gli autori siano due, anche se uno solo si firma.

Durante un seminario sulle costruzioni di legno in Piemonte – esattamente non ricordo l’anno, più o meno 2008-2010, ma non voglio perdere tempo a rivedere i miei diari – c’era un giovane ingegnere che mostrava un suo progetto con il legno lamellare, di nome Andrea Costa.

  • Sei sardo? –

  • Sì! – mi rispose

  • Per caso conosci Giacobbe Manca?

  • Sì! – affermò ancora

Con grande imbarazzo mi disse che Manca gli aveva chiesto di firmare una lettera al direttore nella quale criticava Accabadora e che lo stesso Manca aveva scritto per la sua rivista “Sardegna antica”. Anzi Manca gli chiese di dichiararsi studente di architettura, anziché di ingegneria, quasi che per sputtanare un prof. ordinario bastasse uno studentello.

Mi chiese umilmente scusa.

Ebbi compassione del giovane ingegnere e disprezzo per Manca.

Nello stesso numero il direttore scrisse anche la recensione di Accabadora, firmata ovviamente da un altro prestanome.

Ora, a distanza di 25 anni, leggo una nuova recensione di Accabadora, apparsa nell’ultimo numero di Sardegna Antica dello stesso tono della precedente. Ancora gli sto così a cuore? Che miseria!

Nel frattempo sono tornato sull’argomento della tecnologia costruttiva dei nuraghi con altri libri, ad esempio Sa ‘ena (2011) e recentemente con Nuraghi, sillabe del cosmo (2023), rivedendo, alla luce di nuovi studi alcune questioni di Accabadora, confermando comunque la tecnologia costruttiva basata sugli stati di coazione, l’orientamento astrale dei nuraghi, con la finalità di cosmizzare, all’uscita del neolitico, due importanti categorie come tempo e spazio.

Torno alla recensione attuale e mi chiedo quale possa essere lo scopo di criticare un libro di 25 anni fa, con le stesse ignoranti osservazioni.

Mi piace pensare che sia una situazione in cui si avverano i presupposti sociali che portarono al noto proverbio: la lingua batte dove il dente duole!

Scrivono gli autori:

La pietra resiste a compressione 10 volte più che alla trazione”(mi citano e io riconfermo), ma Laner non prende in alcuna considerazione la torsione, che è quella forza che spezza gli architravi gravati in modo diseguale alle estremità di una finestrella”…

Un elemento strutturale può essere sollecitato a compressione, trazione, taglio, flessione e torsione e/o combinazione di queste azioni.

Impossibile, assolutamente impossibile, che l’architrave si rompa per torsione. Si rompe per trazione dovuta alla flessione, data da una coppia che agisce all’estremità nel piano parallelo dell’asse longitudinale, ma mai per torsione data da una coppia che agisce nel piano normale all’asse.

Mi chiedo se un urologo – penso sia il mestiere di Feo - starebbe a sentire uno che confonde l’uretra con la vescica o con le ovaie.

Per la stessa ragione mi chiedo perché devo dar peso a chi confonde la trazione con la torsione?

Triste Feo.

È altresì curioso, direi patologico, che citino Mauro Peppino Zedda come ottimo vignaiolo piuttosto che come archeoastronomo; considerando che i suoi studi sono pubblicati in prestigiose riviste scientifiche internazionali. Logica vuole che debba essere considerato come un autorevole studioso della materia. L'archeoastronomia è una disciplina che aiuta a spiegare le relazioni geometriche e la geometria dei nuraghi. Lapalissiano per chi abbia voglia di capire.

Comunque grazie alla nuova recensione mi sono divertito alle spalle dell’ignoranza, cosa che non è etico fare, ma mi è venuto spontaneo!


Franco Laner

Venezia, 04 luglio 2024

mercoledì 10 aprile 2024

BENVENUTE LE RICOSTRUZIONI VIRTUALI PURCHE’ NON SI RICOSTRUISCA DAVVERO

 di Franco Laner

Le ricostruzioni virtuali di un monumento diroccato non recano danno, anzi col linguaggio grafico si esprimono ipotesi e si invita così al confronto.

In particolare, con riferimento al disegno della ricostruzione del Pozzo di Proedium Canopoli di Perfugas apparsa nel numero 224 del marzo-aprile 2024 di Archeologia Viva, il bravo disegnatore Antonio Farina ha proposto l’idea del fuori terra del pozzo originario, su indicazione degli archeologi Nadia Canu e Franco Campus.


Sul disegno dell’ipotesi ricostruttiva di Antonio Farina, ho sovrapposto, in rosso, le mie osservazioni. Il numero fra parentesi indica il riferimento al testo che il disegno mi ha suggerito

Premetto che il mio interesse non è estemporaneo. Da sempre infatti mi ha intrigato l’ipotizzata parte area del Pozzo di S. Cristina, avanzata dal suo restauratore principe, Enrico Atzeni e da tanti archeologi, con il chiaro obiettivo di rigetto dell’ipotesi di Arnold Lebeuf che sostiene che il pozzo abbia avuto una funzione predittiva per gli eventi lunari, impossibile se il pozzo fosse stato coperto, perché non sarebbe potuta penetrare la luce lunare dalla sommità del camino del pozzo.

Se da un verso non ho difficoltà ad ammettere la presenza della parte area di pozzi e fonti, sia per motivi semantici (la segnalazione della presenza di un monumento e del suo uso e significato non sono mai criptici), sia per la presenza di pozzi e fonti con significativa tettonica conservata, come Su Tempiesu e Is Pirois, purtuttavia lamento alcune criticità nella ricostruzione pubblicata.

Ipotizzare una ricostruzione è un esercizio di immaginazione, mai di fantasia. La fantasia è la parte patologica dell’immaginazione, che al contrario si avvale di logica deduttiva e consequenzialità. Pertanto ogni segno grafico afferma scelte, che sono lo specchio della cultura archeologica dei propositori del com’era il monumento.

In primis, i maggiori indizi si deducono dai resti materiali che generano conseguenze costruttive, statiche e formali: i resti di una fondazione, dello spessore di un muro, la forma di un concio, sono elementi di forte inferenza deduttiva. Ci sono poi possibili analogie con monumenti di uguale funzione, esercizio questo che presuppone la conoscenza e catalogazione, condotta con rigorosi approcci statistici, di pozzi e fonti coevi. Soprattutto è necessario un rilievo metrico e materico diligente e preciso. Nel caso del Pozzo di Perfugas il rilievo è sbagliato. Confrontando le foto e la ricostruzione noto che il concio alla base del camino ha altezza doppia rispetto a quelli superiori e non uguale e soprattutto i tre gradini rovesci partono a livello terreno e non sotto tale livello e fanno parte del tamburo fuori terra.

Un rilievo esatto è una condizione essenziale, altrimenti si sta giocando a far castelli in aria.

In quasi tutti i pozzi l’elemento murario sempre presente è il concio a T, che preferisco pensare a forma di protome taurina (1). Dal punto di vista statico questa conformazione non offre nessun contributo, anzi, al contrario, aumenta la spinta, per la sua maggior superfice e minor peso rispetto ad un concio parallelepipedo e anche dal punto di vista ergonomico è una stupida soluzione. Talvolta sulla superficie a vista del concio ci sono due protuberanze. Per realizzare queste due evidenze bisogna sottrarre materiale. Questo lavoro supplettivo, come ho dimostrato in un mio articolo del 1995 a proposito di Su Tempiesu (Conci adespoti e verità negate, in Tema, rivista di restauro di Franco Angeli, Mi, n.3/1995) non serve per agevolare la posa come sostenne l’archeologa Fulvia Lo Schiavo in analogia con le costruzioni inca o greche, perché il concio è facilmente manovrabile. L’archeologo Giuseppe Pitzalis ha definito la superfice con bugne un opus non finitum: gli archeologi quando si esprimono dal punto di vista costruttivo denunciano un’ignoranza abissale, l’assenza del senso del grave (peso) e di cultura costruttiva.

Vedo, in questo particolare concio, il simbolo dell’ermafrodita: il toro, la forza, il sole, il sangue, il maschio: nelle due protuberanze mammilliformi, la presenza femminile, che è compenetrata nel maschile e genera l’essere perfetto, autosufficiente. Così come i betili mammilliformi di Tamuli rappresentano l’ermafroditismo (il fallo e la compresenza mammilliforme), la perfezione che sola può rigenerare. (v. Accabadora, Franco Angeli 1999).

 


Mi pare evidente la compenetrazione del maschio e femmina: l’ermafrodita, l’essere perfetto

Ancora, molti pozzi sono realizzati con una singolarissima tecnologia isodoma: la facciata a vista del concio è inclinata rispetto alla verticale della parete e i conci sono sovrapposti arretrati, dando luogo a linee parallele e orizzontali (2), quasi uno spartito su cui si può leggere il movimento del raggio solare o lunare: è manifesta la ierofania, la presenza del sacro, una trappola dello spirito cosmico.

Un altro, intrigantissimo particolare costruttivo, è la doppia scala, quella che serve per scendere e il suo rovescio, come soffitto gradinato. Che senso può mai avere? Ma il dio che scende può forse servirsi della scala degli umani (3)?

Altre sono le invarianti che statisticamente si manifestano nei pozzi: l’atrio o vestibolo, l’importante architrave – per dimensione e colore - della porta di accesso alla scala (soglia fra sacro e profano) (4), la curvatura a collo di bottiglia del camino del pozzo (5) e dell’entrata, linea molto presente in pozzi e fonti (Su Tempiesu, Santa Cristina, Is Pirois, Sa Testa). L’insieme di queste ripetizioni autorizza il disegno ricostruttivo, che non può essere inficiato da aggiunte di fantasia come il cono apicale, i betilini sul colmo, il paramento esterno seghettato anziché liscio del tamburo esterno, ecc.

Torniamo ora al disegno ricostruttivo di Proedium Canopoli. I camini dei pozzi si chiudono nell’incontrare la terra (la cosmologia si stratifica sempre in inferi, terra e cielo) e non occupano o chiudono lo strato fra inferi e terra, per cui non ha senso che si alzino a torre (6). Il paramento della torre ipotizzata è segmentato (7): questa texture esiste solo all’interno della scala e del camino del pozzo (2).

Fantasiosa anche la copertura a cono con piani orizzontali (8). Di solito le coperture sono fatte per non trattenere l’acqua e farla scorrere verso il basso. Altrimenti si chiamerebbe colabrodo e non tetto.

Il cono apicale è stato trovato in un altro sito, perché metterlo qua sopra (9)?

Cosa ci fanno i cinque betilini (tre più due) sul colmo della copertura (10)?

Per me i particolari costruttivi sono l’equivalente dei frammenti di uno specchio: ognuno contiene l’immagine dell’intero. Saperlo ricomporre è un esercizio di immaginazione, non di fantasia.

Scostandosi da questa regola si incappa inevitabilmente nella critica negativa.

L’articolo comunque non si ferma all’ipotetica ricostruzione, ma ha una, per me, novità zoomorfa, che mi sta attualmente a cuore: descrive il ritrovamento di una statuina di pietra di un maiale o cinghiale (non di un toro, che non ha le setole evidenziate del nostro caso), il bronzetto di un toro e l’immanicatura di osso di una leonessa o felino (non di un leone, visto che non c’è la criniera!). Mi piacerebbe capire come mai nella bronzettistica nuragica gli animali siano così presenti. Residuale di un immanentismo totemico del paleolitico?

Mi piacerebbe darmi una risposta a questa insistente presenza zoomorfa, singola o in gruppo come sulle navicelle votive di bronzo. Anzi sarei ben grato se qualcuno mi indirizzasse verso plausibili risposte.


sabato 30 dicembre 2023

Turismo lento. In cammino tenendo per mano l’ombra

 di Franco Laner

Torno indietro di tre anni ad alcune riunioni che facemmo attorno ad una proposta degli architetti Salvatore Cabras e Ninni Pigozzi per formulare un progetto di turismo lento nell’area supramontina a cui parteciparono – mi scuso di eventuali dimenticanze – Bachisio Bandinu, Mauro Zedda, GB Gallus, Gisella Rubiu, Sergio Sassu, Cesare Garau, Giorgio Lai, Eliana Sanna.

Sopravvenne il Covid e il progetto si è arenò. Ho comunque speranza che venga disincagliato.

Bachisio Bandinu, che aveva accettato di condurci per mano – nel frattempo, l’ombra ci ha sostituito – ha messo in bella uno straordinario progetto di turismo lento, formalizzato nel libro Turismo lento. In cammino tenendo per mano l’ombra (Fondazione culturale Sardinia, 2023 cultsassari@gmail.com ).

Il libro non è solo un’idea di progetto, è un condensato di antropologia culturale, di rivelazioni visuali, tattili, olfattive e acustiche del paesaggio sardo, quasi un palinsesto che emerge perché Bachisio è in grado di grattare la crosta di oblio che nasconde la sostanza sarda.

Ho già detto anche troppo: non sono in grado di dire del contenuto del libro, perché sicuramente ne tradirei la bellezza o ne traviserei la struttura o, peggio, ne rovinerei l’acustica: la poesia è tale quando non ha bisogno di essere chiosata.

Pertanto il libro va letto.

Forse, invece, sono in grado di dire alcune cose sull’iniziale progetto di turismo lento che nasce dalla sinergia di diverse esigenze: valorizzazione della storia e cultura sarda che si esplica in variegate forme, dall’archeologia nuragica all’ambiente costruito, dalla tradizione culinaria al significato delle feste – profonda, nel libro di Bandinu, l’esegesi della maschera –  fino ad una visione obliqua del paesaggio, ad una offerta di turismo lontano dalla mondanità e ripiegato alla ricerca di valori ancestrali e al contempo capaci di sedare perturbamenti contemporanei.


 
ci avvolge e ci protegge il guscio di una capanna, su pinnetu, che non ha tavolo, né sedia, né letto, né armadio…non ci sono finestre, né sicura chiusura di porta (pag. 40) (foto di Angelo Mereu “La mia Sardegna”)

Il turismo lento – a piedi – oltre alla lentezza, include per me anche l’aggettivo povero che facilmente si interfaccia con parole chiave come frugalità, sobrietà, temperanza…Attenzione però, camminare non significa intraprendere un percorso a scopo salvifico, religioso o mistico, tipo Campostela.

O meglio, può avere anche questi contenuti, ma qui il tema è il nutrimento di quella parte spirituale che permea il mondo animato e non, che necessita di silenzi, di diverse concezioni di spazio e tempo, di nuovo interfaccia con la natura.

Può avere valore catartico o semplicemente evasivo.


 
La laconicità nel parlare dei sardi: il silenzio è parola e il gesto un discorso (foto di S. Cabras, “Coiles”)

Realizzare una tal proposta di cammino nel tempo di tre-quattro settimane per attraversare la Sardegna da sud, partendo da San Sperate come immagina Bandinu e arrivare in Gallura, con sosta

più lunga in Barbagia e Supramonte non è una impresa ardua. Si tratta di più o meno 300km che si possono percorrere anche in due settimane. In una settimana invece può essere sufficiente per muoversi lentamente dal mare al Supramonte. Una guida, esperta e colta, formata dall’amore del territorio e dai suoi veri protagonisti, mi sembra indispensabile.

Dopo la lettura del libro di Bandinu, ognuno capirà che si può nutrire il proprio spirito con la semplicità dei gesti, degli sguardi, dell’innocenza delle intenzioni e delle osservazioni capaci di restituire la storia atavica dell’Isola, che ancora ne mantiene i caratteri primigenei.

Il libro di Bandinu non è altro che il manifesto poietico di un’idea di un possibile turismo lento nell’isola di Sardegna. Per la sua attuazione non abbisognano ingenti capitali e impianti, serve un poco di coraggio, fiducia e la consapevolezza che la ricchezza della tradizione e dell’ambiente è un patrimonio a disposizione.


Partenza da San Sperate (Pinuccio Sciola), Barumini, Sinis e poi Barbagia, Supramonte, Ulassai (Maria Lai) e infine verso Bitti, Olbia e Gallura.

Ad una condizione però: è necessaria la leggerezza. La gravità nuoce all’ipotetico viaggiatore.

Nel libro di Bandinu ricorre spesso la necessità di leggerezza, il procedere è leggero, e leggera è la camminata della solitudine che riempie dolcemente il percorso: è il mio passo a far sentiero da lasciare in eredità ad altri viandanti. Passo di leggerezza, di libertà, di arbitrarietà (pag. 42).

Tenendo sempre presente che non è la meta che conta, bensì il percorso e sono le cose a rivelarsi.

Infine una nota di narcisismo. Regalandomi il libro, Bachisio ha scritto. A Franco, peregrino del sacro, in cammino per nuraghi e pozzi a rivelare il rapporto col cosmo e col divino.

Cosa potrei voler di più dall’isola di Sardegna?


domenica 10 dicembre 2023

Commenti ad una memoria di G. Paglietti e A. Mulas

di Franco Laner

Mauro Zedda mi segnala una memoria di Paglietti-Mulas “Statica ed estetica, architetture isodome e bicrome in età nuragica” apparso nel n. 8 di Layers, archeologia, territorio e contesti dell’Università di Cagliari dello scorso marzo 2023 e mi chiede di esprimere un’opinione, pur sapendo che quando si parla di sacro dei nuraghi la penso diversamente in quanto tutti immaginano il sacro legato alla religione e così i nuraghi diventano templi o luoghi di culto.

Il sacro esiste anche senza la religione ed è quanto ho cercato di sostenere nell’ultimo libro che ho scritto, Nuraghi sillabe del cosmo, pubblicato due mesi fa da Agorà nuragica

Ebbene mi sono sottoposto alla lettura-tortura della memoria, a partire dal titolo Statica ed Estetica. Di statica non c’è una riga esplicativa in relazione all’isodomia e anche il lessico della memoria denuncia l’ignoranza degli statuti di base della statica strutturale. Si parla ad esempio di trazione negli stipiti che sostengono l’architrave d’ingresso del nuraghe, che al contrario sono soggetti a compressione. Un solido snello compresso potrebbe generare tensioni di trazione, ma non c’è nulla di più tozzo degli stipiti di un nuraghe! Ricorre l’espressione “tenuta statica” e “garantire maggior staticità al nuraghe”: mica si muove! Non è più semplice, resistenza e/o maggior sicurezza? Scrivere “durabilità nel tempo” (la durabilità di un’opera è la caratteristica di mantenere le qualità iniziali nel tempo) è l’equivalente ridondante di scrivere “bella calligrafia” (kallos = bello).

Anche l’altra parola, estetica, è fuori luogo, usata, come intuisco dalla lettura del testo, come sinonimo di bellezza, anzi come sinonimo di decorazione.

Estetica è la branca della filosofia che si occupa della percezione del fenomeno artistico e dell’esperienza sensibile del bello. Proprio perché settore della filosofia, ha una lunga storia, declinata appunto con quella della filosofia, particolarmente trattata nei due ultimi secoli con l’idealismo tedesco, ma anche dai contemporanei Adorno, Benjamin, i nostri Croce e Cacciari e tanti altri.

Quando studiavo architettura, tutti conoscevano bene due regole, pena la bocciatura. La prima che non si doveva mai usare l’aggettivo estetico. La seconda che, alla domanda sul perché di una scelta compositiva non bisognava mai rispondere “perché mi piace”. Le scelte andavano essere motivate e sostenute, senza tirare in ballo categorie generiche, tipo “ognuno ha i suoi gusti”.

Ho premesso queste osservazioni perché il titolo mi ha subito attratto: pensavo infatti di imparare qualcosa sia sulla statica delle murature a secco, sia su una categoria estetica dei nuraghi. Il titolo è dunque fuorviante e nulla sarebbe cambiato se statica ed estetica non fossero state nominate.

Il senso dell’articolo invece è assai più modesto: partendo dall’asserzione che in alcuni nuraghi c’è il ricorso all’isodomia e alla bicromia, particolari costruttivi propri dei monumenti nuragici a destinazione sacra, come fonti e pozzi, giocoforza allora è desumere che anche i nuraghi appartengono al sacro. Dovrei gioire, perché sono trent’anni che sostengo questa tesi e prima di me, con altre motivazioni, altri studiosi a cominciare dall’amico carissimo Massimo Pittau. Ma per dire che appartengono al sacro non occorre scomodare illustri precedenti, basta chiederlo ad un pastore che ti risponde col buon senso dicendo che non ha mai pensato che fossero fortezze, perché non sarebbero serviti né per attaccare, né per difendersi e tantomeno per abitarci. Meglio edifici religiosi, anche se riduttivamente intesi.

Il problema comunque non è quello di escludere una funzione profana, ovvia, bensì definire il sacro, altrimenti si intendono templi o luoghi per il culto, come ho scritto sopra. Attenzione, sto parlando della genesi dei nuraghi, del loro atto originario, non di funzione posteriori.

La tesi dei due autori – dovrei essere compiaciuto visto che finalmente due archeologi prendono le distanze dal nuraghe-fortezza, o reggia abitativa, o altre patologiche destinazioni – pur con grande timidezza e cautela, sostiene che i nuraghi siano costruzioni sacre, forti anche di una recente memoria dell’archeologo scozzese Leighton continuamente citata, in cui si sostiene che i nuraghi appartengono, appunto, al sacro. Comunque sia, i due archeologi isolani si mettono di traverso nell’atavico percorso taramellilliano che fa acqua da un secolo, portando però una prova per me alquanto risibile e debole a favore della sacralità. Intanto l’isodomia nei nuraghi non è molto diffusa e ancor meno la bicromia. Se la prova fosse sostenibile potrei affermare che i nuraghi che non hanno isodomia o bicromia, non hanno funzione sacra e chiari monumenti sacri, come pozzi e fonti, privi di isodomia o bicromia, non sono sacri, ma costruiti solo per conservare o captare acqua per uso utilitaristico.

L’osservazione che costruzioni con decorazioni non abbiano funzione militare mi pare comunque un’osservazione condivisibile. A Marte infatti appartengono altri caratteri, maschi e asciutti, mentre a Venere è data la grazia e la decorazione.

Sulla presunta “estetica” dei nuraghi, per usare il pessimo aggettivo degli autori, mi defilo immediatamente. I nuraghi per me non sono architettura, sono semplicemente tettonica e non aggiungono arché, valenza artistica al volume che pure modifica lo spazio. Per essere definita architettura un’opera deve avere ben altri requisiti. La parola architettura è composta da arché e tecton, ovvero coesistono due aspetti, quello artistico e quello tecnico. Nei nuraghi c’è solo l’aspetto tecnico-costruttivo con qualche eccezione, ad esempio trovo architettura nello splendido raccordo ellittico fra l’entrata e la tholos,del nuraghe Is Paras di Isili, oppure nella concezione del Losa o del santu Antine. All’ architettura, alla grande architettura nuragica, appartiene senza dubbio il Pozzo di S. Cristina di Paulilatino o il Predio Canopoli di Perfugas. Anche la stele e l’esedra di alcune TdiG sono per me architettura. Tutte queste opere emozionano e l’architettura è appunto arte, che appartiene alla sfera dello spirito.

Le nostre città sono piene di edilizia, ma poca architettura. Ancora, per esemplificare, non si può confondere un cuoco con un rosticcere, la poesia con la scrittura. Insomma Salieri non è Mozart!

Come l’estetica, anche l’architettura, è una parola usata in modo improprio e svuotata di contenuti alti, volgarmente appiattita.

Al di là di questi pensieri alla fine mi preme esprimere il parere sulla relazione isodomia/ concezione strutturale che l’articolo non affronta, anche se ne dichiara l’esistenza.

Le murature a secco di pietra, come tutti sanno, sono così definite perché non c’è presenza di legante. Su questo argomento, come dirò meglio in un prossimo articolo a cui vorrei dedicarmi, c’è pochissima letteratura, perché non interessa praticamente a nessuno, essendo una tecnologia inutilizzata e priva di futuro. Potrebbe essere utile in caso di restauro o consolidamento. Purtroppo le gare, le rare gare per la conservazione o valorizzazione dei monumenti a secco non vengono vinte dalla competenza, bensì dall’offerta economica o dagli esperti di cemento armato e/o resine varie.

L’opus murario a secco è stato trattato da autori come Giovannoni, Lugli, Choisy e Adam. Ultimamente anche da Giulio Magli. In comune, gli autori citati introducono classificazioni di aspetto, morfemiche. Io preferisco una classificazione tecnemica, ovvero che dipende dalla concezione strutturale sottesa. Ad esempio. L’isodomia, tessitura di elementi parallelepipedi in filari paralleli e perfettamente levigati e combacianti, è una muratura a secco, ma il comportamento strutturale è assai affine ad una muratura con malta, perché le tensioni di trazione orizzontali (una muratura non subisce solo schiacciamenti e deformazioni verticali che dipendono dal modulo E di elasticità, ma anche tensioni di trazione orizzontali che dipendono dal modulo G (elasticità trasversale). La malta ha infatti il compito di contrastare le trazioni orizzontali. Questo stesso contrasto è svolto dall’attrito che si manifesta nella struttura isodoma. Perciò dal punto di vista tecnemico non c’è alcuna differenza fra una muratura con malta e una a secco isodoma.

Nell’opera poliedrica la trasmissione del flusso delle tensioni che si ingenera nella muratura avviene in modo concentrato, non diffuso come nelle murature con malta o isodome, ma ci sono murature poliedriche, quelle in coazione, che si comportano similmente alle murature con malta.

Affinché i piani di posa dei conci isodomi siano perfettamente planari, è necessaria la levigatura, più facile e agevole nelle pietre tenere, come il calcare, che ha colore diverso dalla trachite o basalto.

L’isodomia, data da almeno due corsi, introduce in una muratura poliedrica una cordolatura o listatura, in pratica cerchia la muratura, conferendo un forte presidio strutturale nei confronti delle tensioni orizzontali.

Capisco che tale visione sia complicata e presuma un lessico specialistico e una spiegazione meno sintetica. Perciò tornerò sull’argomento. Ma quanto sopra basti per spiegare che il rapporto isodomia/resistenza/decorazione se appena si approfondiscono i tecnemi e non solo i morfemi (ciò che appare) non può portare a conclusioni del tipo: Conseguentemente e, per coerenza con quanto fin’ora descritto in letteratura, dovremmo estendere il concetto di “sacro” anche all’edificio nuraghe. Inoltre è stato evidenziato come tali soluzioni facciano parte del nuraghe fin dalla sua progettazione e come la resa architettonica non risponda sempre a finalità statiche ma, più probabilmente, ad una resa estetica del monumento invitandoci a riflettere sul significato di tali bicromie: forse i colori evocano elementi naturali quali l’aria, la terra, il fuoco.

Mi scuso se irrido all’ultima frase, ma Empedocle ha ancora da venire e comunque alle radici di tutto per la filosofia greca (anche per i nuragici???) ci sono quattro elementi, non tre: manca l’acqua nella resa estetica e cromatica ipotizzata nei nuraghi. I colori dei quattro elementi: rosso (fuoco), giallo (aria), verde (terra), celeste (acqua) stento comunque a vederli nei nuraghi, ma ciò dipende dalla daltonismo che dovrò aggiungere ai tanti acciacchi propri della mia anagrafe. O, peggio, ho dimenticato il senno in qualche luogo recondito e le solite questioni anagrafiche non me lo fanno ritrovare.

Cosa ho capito alla fine: che è meglio non pisciare fuori dal vaso, ovvero, meno prosaicamente, ognuno si attenga alla propria disciplina, come mi ha ben raccomandato Pittau: parla di nuraghi con la tua disciplina, senza sovrapporti agli archeologi. Gli archeologi viceversa parlino con l’archeologia, non sostituendosi a storici delle costruzioni o ad architetti o altri cultori. Pittau ha dimostrato che i nuraghi non sono fortezze con la sua disciplina, la linguistica!

L’interdisciplinarietà necessaria all’archeologia non si ottiene facendo supplenza, ma confrontandosi con gli specialisti delle altre discipline, altrimenti si corre il rischio del ridicolo.

In un recente Convegno, Gergei novembre 2023, un archeologo per avvicinare gli ascoltatori alla cultura costruttiva dei nuraghi ha parlato della triade vitruviana: firmitas, venustas e utilitas. La firmitas non si discute: i nuraghi hanno quattromila anni e molti hanno forato la coltre dei secoli giungendo praticamente integri fino a noi. Sulla venustas  il discorso si fa più difficile e lo dimostra anche l’articolo ora analizzato. Per me infatti i nuraghi, per le ragioni sopraesposte, non sono architettura, bensì tettonica.

Ma è sulla utilitas che l’archeologo neo architetto è inciampato clamorosamente, perché capiva che non poteva parlare di fortezza o reggia di re pastore e ha balbettato qualcosa sulla polifunzionalità del nuraghe, in pratica sacro e profano assieme, ma non ha salvato né capra, né cavoli!

In conclusione.

Finalmente gli archeologi non parlano più di funzione militare dei nuraghi e seppur timidamente si stanno spostando sul sacro, ancora difficile da declianare.

Io ho trovato molte risposte nei lavori degli storici delle religioni, Mircea Eliade in particolare, letture che caldamente consiglio ai due autori.

Infine un accenno alla bibliografia. Per me la bibliografia deve citare le fonti ispiratrici di una memoria e dei risultati ottenuti. È, per così dire, un servizio che va prestato ad altri ricercatori sull’argomento di comune interesse. Ancora, è una forma di riconoscimento ad autori che hanno sorretto e spesso ispirato la propria ricerca. Nel nostro caso, in una memoria in cui viene pur sommessamente sostenuto che i nuraghi hanno funzione sacra e non militare, viene citata una sola memoria di studiosi che sostengono tale tesi e che guarda caso, non è né sardo, né italiano, ma un archeologo scozzese! Se dovessi elencare chi ha sostenuto per cent’anni la tesi militare, dopo Taramelli e Lilliu parlerei di Contu, Ugas, Tanda, Atzeni, Fadda, Lo Schiavo, Perra Moravetti, Pitzalis, Usai, Cicilloni, Campus, ecc. ecc., cioè tutti gli archeologi dell’Accademia e della Soprintendenza sarda, grandi e piccoli, che si trovano nella bibliografia di Mulas e Paglietti e che hanno fatto carriera, mai mettendo in crisi la sciocchezza del nuraghe-fortezza. Chi ha sostenuto l’appartenenza al sacro, non è archeologo, bensì linguista, architetto, ingegnere, astronomo, archeoastronomo, geologo, ecc.. Nessuno viene citato. Ma appena un archeologo, Leighton appunto, scrive la memoria citata e saccheggiata dagli autori, viene citato.

In altre parole solo un archeologo poteva attuare il cambio di paradigma. Questa constatazione salva, se vogliamo, l’articolo, perché, pur con motivazione molto sofisticata, consente finalmente ad altri due archeologi di schierarsi, seppur flebilmente.

La cosa a me fa un po' pena, ma così funzionano le cose.

 

giovedì 30 novembre 2023

Nessun parapetto sui nuraghi

di Franco Laner

Che la parte sommitale, la terrazza, di un nuraghe fosse munita di un parapetto di protezione per non cader di sotto, è per me inconcepibile, per i motivi che di seguito elenco.

Primo. Nessun parapetto è mai stato trovato in opera. Né di muratura, né di legno. Ovvio che se il parapetto fosse stato di legno, non sarebbe mai giunto a noi, ma non ci sono segni di presenza di buche di infissione di pali o altri indizi.

Secondo. La terrazza di qualche nuraghe, dove si è conservato un tratto integro, mostra una finitura piana, ben ordita, direi pavimentata. Uno spazio aperto dove una chiusura sarebbe un limite gratuito e pleonastico.

Terzo. La preoccupazione per la protezione è storicamente recente. Per sostenere tale asserzione porto l’esempio dei ponti romani che non sono mai stati concepiti con parapetti, anche se oggi questi manufatti ne sono muniti. In un articolo che scrissi nel 2004 per l’Almanacco Gallurese, n.12 “I ponti romani in Sardegna” dove ho documentato la differenza tecnologica fra i ponti romani e quelli romanici, riduttivamente nominati genericamente “vecchi” e intesi come romani, sottolineavo come tutti i parapetti fossero aggiunzioni degli ultimi 2-3 secoli. I ponti vecchi erano tutti privi di parapetto.

Pont’ezzu di Ozieri sul fiume Mannu sotto il quartiere di S. Nicola. Sono ancora visibili i danni provocati dal passaggio di una ruspa. Grazie a questo danno ho potuto però constatare che il parapetto è stato costruito a posteriori sull’estradosso lastricato

Questa annotazione mi era stata suggerita ispezionando il bellissimo Pont’ezzu di Ozieri, sicuramente romano, costruito sul fiume Mannu, 200m sotto il nuraghe Sa mandra e sa Jua, sulla strada che da Ulbia passava Lugudo e sbucava a Hafa (Bonorva) congiungendosi con l’arteria che partiva da Turris Libisonis per scendere a Sud. Negli anni Cinquanta un contadino, nel passare con una ruspa aveva abbattuto tratti del parapetto. Tutt’ora è visibile il danno, ma si può notare che il muretto del parapetto è stato a posteriori costruito sopra le grandi lastre del selciato. Da allora ho guardato questo particolare e in tutti i ponti romani si nota come i parapetti siano stati costruiti con apparecchi murari differenti da quelli del ponte, non solo in Sardegna, ma anche nei ponti romani del continente.

Ponte romano a Bingia Manna, Decimomannu. È chiaro che il parapetto è disetaneo al ponte

 

Ponte di età imperiale Turris Libisonis (Porto Torres). Anche in questo caso è percepibile la superfetazione del parapetto

D’altra parte anche i ponti in muratura veneziani erano privi di parapetto, così come le fondamente sui rii (fondamenta, plurale fondamente, è il tratto di strada che costeggia un rio e le case). Solo nell’Ottocento furono aggiunte queste protezioni. Rimangono ancora due ponti e diverse fondamente prive di parapetto. Senza parapetto il ponte romano era essenziale. Largo quanto bastava per il transito dei carri – intorno ai 2,3 -2,7m – e in caso di piena la mancanza dei parapetti diminuiva la spinta dell’acqua. Le bestie da soma hanno forte il senso dell’equilibrio, ma anche gli ubriachi finiscono difficilmente in acqua da una fondamenta senza parapetto. Oggi è inconcepibile la mancanza di parapetti, balaustre e ringhiere. Perciò questo manufatto protettivo viene acriticamente esteso al passato, per mancanza di capacità di contestualizzazione, categoria indispensabile per chi si occupa di tecnologie del passato.

 

Ponte di muratura a Torcello privo di parapetto. Solo nell’Ottocento i ponti di muratura furono dotati di parapetti

Perché allora si assegna al nuraghe il parapetto sommitale? A causa dei cosiddetti modellini di nuraghe, che sono intesi come maquette dei nuraghi (modelli in scala ridotta), che hanno una sporgenza sommitale, ornata con motivi a zig-zag (chevron propiziatori, simbologia rituale e sacra), immaginati come parapetti.

Altra solenne cantonata! I modellini di nuraghe sono un imago mundi, interpretazione già accettata e definita cento anni fa nel Convegno archeologico in Sardegna del 1926 promosso da Taramelli: i quattro pilastri che sostengono il mondo posti nei punti cardinali e l’axis mundi centrale che collega inferi-terra-cielo. In altre parole tali modellini vivono di per sé e ci sarebbero anche senza i nuraghi.

Anche i nuraghi quadrilobi sono un’imago mundi. Ma non si guardi il modellino come maquette di nuraghe e soprattutto gli chevron come parapetti!

Cosiddetto modello di nuraghe con chevron, intesi come parapetto. Le banalità sono la conseguenza dell’incapacità di vedere e contestualizzare

È stato recentemente avviata dall’associazione Perdas Novas di Gergei un interessante campagna di archeologia sperimentale sulle tecnologie nuragiche, a cui questo blog ha dato spazio. Prima di dar avvio alla ricostruzione di particolari costruttivi dei nuraghi particolarmente interessanti è però necessario contestualizzare e dare senso a ciò che si vuol dimostrare, come proporre le modalità realizzative per sovrapporre i grandi massi, per varare l’architrave di soglia dell’entrata (la pietra più grande di ogni nuraghe), costruire una cupola senza centina, estrarre monoliti e trasportarli e metterli in opera. Attenzione, ciò non significa dimostrare che così fecero i costruttori nuragici, ma semplicemente che è una tecnologia possibile, non l’unica. Soprattutto è necessario sperimentare la fattibilità di particolari propri dei nuraghi e non presunti, come il caso qui trattato dei parapetti per me inesistenti.

venerdì 24 novembre 2023

Nuraghi sillabe del cosmo

di Franco Laner

 


Il pamphlet che ho scritto quest’estate è in libreria. Assieme agli amici di Agorà nuragica l’ho presentato a metà novembre a Carbonia, Cagliari e Borore.

Il testo – riporto l'indice – cerca di rispondere alle motivazioni che ha spinto i sardi, all’uscita del neolitico, a costruire ottomila nuraghi in quasi un migliaio d’anni. L’ipotesi che sostengo, sinteticamente, è la necessità di cosmizzare due categorie, spazio e tempo.

A questa conclusione era giunto già con Accabadora (1999), ripresa con Sa ‘ena (2006). Con questo lavoro ho riproposto la questione col continuo sostegno degli scritti dello storico delle religioni Mircea Eliade, applicando le sue conclusioni sui riti e scopi del costruire, anche se Eliade non ha mai visto i nuraghi e nemmeno li conosceva. Eppure li ha descritti magistralmente!

L’altra novità è uno sforzo di contestualizzazione del paesaggio nuragico, prendendo a piene mani dagli studi di Mauro Zedda, in particolare il libro Archeologia del paesaggio nuragico (2009) che delinea la struttura della società nuragica e la visione del mondo del popolo che abitava l’Isola nel secondo millennio a. Cr. Largo spazio anche alla questione dell’orientamento astronomico del nuraghe, monotorre e polilobato e al sistema distributivo territoriale, ormai incontestabilmente accettato dalla comunità scientifica di archeoastronomia.

Dai dibattiti, invero molto pacati e costruttivi, sono emersi due aspetti.

Il primo riguarda la difficoltà di condivisione della nozione di sacro. Lo stesso Eliade deplora il fatto della limitatezza del concetto di sacro, generalmente inteso attinente alla religione, mentre il sacro esiste anche senza religione, senza credere in Dio, negli dei o negli spiriti e si riferisce all’esperienza legata alla nozione di essere, significato e verità. Il sacro è il carattere di ciò che possiede un valore assoluto ed è nella sua essenza separato e nascosto, perciò non raggiungibile almeno nei modi in cui si dà accesso alle altre cose (il suo opposto è il profano).


 

Ho dedicato una scheda di approfondimento della nozione di sacro – Eliade propone di introdurre il termine ierofania, che meglio definisce il sacro – indispensabile per non incorrere nell’errore che parlare di sacro a proposito di nuraghi si intenda che siano templi, luoghi di culto.

Ripeto, per avvicinarsi alle intenzioni sottese alla costruzione dei nuraghi, è necessaria una approfondita conoscenza del sacro, concetto oggi inflazionato e riduttivamente appiattito dalle religioni. Nella fase finale della costruzione dei nuraghi, quando appaiono i polilobati, il senso del sacro è già corrotto e si può parlare di funzione religiosa, oracolare, di santuario, ma originariamente il nuraghe va declinato con una diversa appartenenza al sacro e quindi funzionale all’esigenza di mettere ordine nel caotico e informe spazio e tempo, fissando aree e momenti dove il sacro si manifesta, perché incluso in una concezione cosmologica e cosmogonica del reale.

Il secondo aspetto è la constatazione che l’archeologia isolana ha preso atto che l’ipotesi della funzione militare dei nuraghi sia giunta al capolinea, poiché insostenibile e fuorviante. L’alternativa, per me peggio, è l’introduzione di un concetto di polifunzionalità, ovvero nuraghi buoni a tutti gli usi, templi, fortezze, abitazioni, punti di osservazione e controllo territoriale, depositi, spazi assembleari, ecc., ecc.

L’archeologa Emina Usai, intervenuta a Cagliari nel dibattito della presentazione del libro, ha fatto un passaggio logico: i reperti di scavo dei nuraghi non ci aiutano a risalire alla loro funzione. Obietto che non dobbiamo ragionare sui reperti, perché l’unico reperto è il nuraghe stesso e solo esso ci può indirizzare alla conoscenza. In un precedente dibattito (al “Verano buddusoino” dello scorso aprile) la professoressa Anna Depalmas sostenne l’ipotesi di funzione abitativa, considerato che spesso si trovano resti di pasti, stoviglie e suppellettili.

Sulla funzione dei nuraghi un importante contributo è arrivato, lo scorso anno, dall’archeologo scozzese Robert Leighton, capo del dipartimento di archeologia dell’area mediterranea di Edimburgo, pubblicando una memoria in cui ha sostenuto la funzione rituale dei nuraghi, smentendo con interessanti argomentazioni la loro funzione laica, come abitazione o fortezza, proponendo funzioni cultuali e religiose, interpretando proprio resti di pasti e ceramiche per uso rituale e non domestico.

Di fatto però, entrambe le archeologhe hanno escluso la funzione di fortezza dei nuraghi. Comunque, sia nell’ambiente accademico sia in quello delle soprintendenze, la funzione militare non è mai stata ufficialmente smentita. Purtuttavia nessuno la evoca e si preferisce glissare la questione, al massimo parlando di polifunzionalità.

Mi aspetto dunque un cambio epocale di paradigma e mi auguro che l’archeologia sarda avvii ricerche senza la stantia armatura militare e che si presenti nuda al cospetto della ricerca nuragologica.