di
Franco Laner
Le
ricostruzioni virtuali di un monumento diroccato non recano danno,
anzi col linguaggio grafico si esprimono ipotesi e si invita così al
confronto.
In
particolare, con riferimento al disegno della ricostruzione del Pozzo
di Proedium Canopoli di Perfugas apparsa nel numero 224 del
marzo-aprile 2024 di Archeologia Viva, il bravo disegnatore
Antonio Farina ha proposto l’idea del fuori terra del pozzo
originario, su indicazione degli archeologi Nadia Canu e Franco
Campus.
Sul
disegno dell’ipotesi ricostruttiva di Antonio Farina, ho
sovrapposto, in rosso, le mie osservazioni. Il numero fra parentesi
indica il riferimento al testo che il disegno mi ha suggerito
Premetto
che il mio interesse non è estemporaneo. Da sempre infatti mi ha
intrigato l’ipotizzata parte area del Pozzo di S. Cristina,
avanzata dal suo restauratore principe, Enrico Atzeni e da tanti
archeologi, con il chiaro obiettivo di rigetto dell’ipotesi di
Arnold Lebeuf che sostiene che il pozzo abbia avuto una funzione
predittiva per gli eventi lunari, impossibile se il pozzo fosse stato
coperto, perché non sarebbe potuta penetrare la luce lunare dalla
sommità del camino del pozzo.
Se
da un verso non ho difficoltà ad ammettere la presenza della parte
area di pozzi e fonti, sia per motivi semantici (la segnalazione
della presenza di un monumento e del suo uso e significato non sono
mai criptici), sia per la presenza di pozzi e fonti con significativa
tettonica conservata, come Su Tempiesu e Is Pirois, purtuttavia
lamento alcune criticità nella ricostruzione pubblicata.
Ipotizzare
una ricostruzione è un esercizio di immaginazione, mai di fantasia.
La fantasia è la parte patologica dell’immaginazione, che al
contrario si avvale di logica deduttiva e consequenzialità. Pertanto
ogni segno grafico afferma scelte, che sono lo specchio della cultura
archeologica dei propositori del com’era il
monumento.
In
primis, i maggiori indizi si deducono dai resti materiali che
generano conseguenze costruttive, statiche e formali: i resti di una
fondazione, dello spessore di un muro, la forma di un concio, sono
elementi di forte inferenza deduttiva. Ci sono poi possibili analogie
con monumenti di uguale funzione, esercizio questo che presuppone la
conoscenza e catalogazione, condotta con rigorosi approcci
statistici, di pozzi e fonti coevi. Soprattutto è necessario un
rilievo metrico e materico diligente e preciso. Nel caso del Pozzo di
Perfugas il rilievo è sbagliato. Confrontando le foto e la
ricostruzione noto che il concio alla base del camino ha altezza
doppia rispetto a quelli superiori e non uguale e soprattutto i tre
gradini rovesci partono a livello terreno e non sotto tale livello e
fanno parte del tamburo fuori terra.
Un
rilievo esatto è una condizione essenziale, altrimenti si sta
giocando a far castelli in aria.
In
quasi tutti i pozzi l’elemento murario sempre presente è il concio
a T, che preferisco pensare a forma di protome taurina (1).
Dal punto di vista statico questa conformazione non offre nessun
contributo, anzi, al contrario, aumenta la spinta, per la sua maggior
superfice e minor peso rispetto ad un concio parallelepipedo e anche
dal punto di vista ergonomico è una stupida soluzione. Talvolta
sulla superficie a vista del concio ci sono due protuberanze. Per
realizzare queste due evidenze bisogna sottrarre materiale. Questo
lavoro supplettivo, come ho dimostrato in un mio articolo del 1995 a
proposito di Su Tempiesu (Conci adespoti e verità negate, in
Tema, rivista di restauro di Franco Angeli, Mi, n.3/1995) non
serve per agevolare la posa come sostenne l’archeologa Fulvia Lo
Schiavo in analogia con le costruzioni inca o greche, perché il
concio è facilmente manovrabile. L’archeologo Giuseppe Pitzalis ha
definito la superfice con bugne un opus non finitum:
gli archeologi quando si esprimono dal punto di vista costruttivo
denunciano un’ignoranza abissale, l’assenza del senso del
grave (peso) e di cultura costruttiva.
Vedo,
in questo particolare concio, il simbolo dell’ermafrodita: il toro,
la forza, il sole, il sangue, il maschio: nelle due protuberanze
mammilliformi, la presenza femminile, che è compenetrata nel
maschile e genera l’essere perfetto, autosufficiente. Così come i
betili mammilliformi di Tamuli rappresentano l’ermafroditismo (il
fallo e la compresenza mammilliforme), la perfezione che sola può
rigenerare. (v. Accabadora, Franco Angeli 1999).
Mi
pare evidente la compenetrazione del maschio e femmina:
l’ermafrodita, l’essere perfetto
Ancora,
molti pozzi sono realizzati con una singolarissima tecnologia
isodoma: la facciata a vista del concio è inclinata rispetto alla
verticale della parete e i conci sono sovrapposti arretrati, dando
luogo a linee parallele e orizzontali (2), quasi uno spartito
su cui si può leggere il movimento del raggio solare o lunare: è
manifesta la ierofania, la presenza del sacro, una trappola dello
spirito cosmico.
Un
altro, intrigantissimo particolare costruttivo, è la doppia scala,
quella che serve per scendere e il suo rovescio, come soffitto
gradinato. Che senso può mai avere? Ma il dio che scende può forse
servirsi della scala degli umani (3)?
Altre
sono le invarianti che statisticamente si manifestano nei pozzi:
l’atrio o vestibolo, l’importante architrave – per dimensione e
colore - della porta di accesso alla scala (soglia fra sacro e
profano) (4), la curvatura a collo di bottiglia del camino del
pozzo (5) e dell’entrata, linea molto presente in pozzi e
fonti (Su Tempiesu, Santa Cristina, Is Pirois, Sa Testa). L’insieme
di queste ripetizioni autorizza il disegno ricostruttivo, che non può
essere inficiato da aggiunte di fantasia come il cono apicale, i
betilini sul colmo, il paramento esterno seghettato anziché liscio
del tamburo esterno, ecc.
Torniamo
ora al disegno ricostruttivo di Proedium Canopoli. I camini dei pozzi
si chiudono nell’incontrare la terra (la cosmologia si stratifica
sempre in inferi, terra e cielo) e non occupano o chiudono lo strato
fra inferi e terra, per cui non ha senso che si alzino a torre (6).
Il paramento della torre ipotizzata è segmentato (7): questa
texture esiste solo all’interno della scala e del camino del pozzo
(2).
Fantasiosa
anche la copertura a cono con piani orizzontali (8). Di
solito le coperture sono fatte per non trattenere l’acqua e farla
scorrere verso il basso. Altrimenti si chiamerebbe colabrodo e non
tetto.
Il
cono apicale è stato trovato in un altro sito, perché metterlo qua
sopra (9)?
Cosa
ci fanno i cinque betilini (tre più due) sul colmo della copertura
(10)?
Per
me i particolari costruttivi sono l’equivalente dei frammenti di
uno specchio: ognuno contiene l’immagine dell’intero. Saperlo
ricomporre è un esercizio di immaginazione, non di fantasia.
Scostandosi
da questa regola si incappa inevitabilmente nella critica negativa.
L’articolo
comunque non si ferma all’ipotetica ricostruzione, ma ha una, per
me, novità zoomorfa, che mi sta attualmente a cuore: descrive il
ritrovamento di una statuina di pietra di un maiale o cinghiale (non
di un toro, che non ha le setole evidenziate del nostro caso), il
bronzetto di un toro e l’immanicatura di osso di una leonessa o
felino (non di un leone, visto che non c’è la criniera!). Mi
piacerebbe capire come mai nella bronzettistica nuragica gli animali
siano così presenti. Residuale di un immanentismo totemico del
paleolitico?
Mi
piacerebbe darmi una risposta a questa insistente presenza zoomorfa,
singola o in gruppo come sulle navicelle votive di bronzo. Anzi sarei
ben grato se qualcuno mi indirizzasse verso plausibili risposte.