di Franco Laner
Di Giovanni Lilliu, a cui ho rivolto in cuor mio quando ho saputo della sua morte un deferente Requiscat in pace, conservo diversi libri. Oltre alla monumentale “Civiltà dei Sardi” e a “Sardegna nuragica” conservo una sua raccolta di articoli “Una vita da archeologo”, che registra molti articoli scritti dall’illustre studioso e che restituiscono una sorta di autobiografia, scientifica ed umana.
Conservo anche suoi articoli, come quello che scrisse per la “Nuova” il 9 novembre 1997 che titolò “I templi antichi guardano il cielo”.
L’articolo prende le mosse dalla sua partecipazione, come Accademico dei Lincei, al Convegno celebrato a Roma con tema “Archeoastronomia, credenze e religioni nel mondo antico”
In sintesi, in quell’articolo, il professore apre alla legittimazione e conferisce “la patente di scienza” all’archeoastronomia, legittimata per così dire dall’Accademia dei Lincei. Con l’augurio di rimuovere gli steccati del passato, si aspetta dal nuovo approccio interdisciplinare nuove scoperte con l’auspicio di lavorare assieme, nel possibile e nel conveniente.
Nel lungo articolo intravede la possibilità che proprio dal magico e religioso possa essere maturata una ragione scientifica, che ha portato a visioni e modelli teorici e a creazione di sistemi fondati anche su osservazioni astronomiche e principi di geometria (cioè categorie di ordinamento, seppur elementari) che erano di casa a latitudini diverse ed in tempi progressivi…
Senza quelle origini, prosegue Lilliu, non avremmo avuto la nostra stagione nella quale, in virtù di una sotterranea continuità vitale, si rende necessario saldare i valori della scienza e della tecnica con la grande tradizione della plurimillenaria civiltà umana. Benvenuta sia dunque la nuova disciplina dell’archeoastronomia, ovviamente nel suo proprio e severo ambito scientifico. Praticarla su questo fondamento gioverà anche ad eliminare il sottobosco degli “archeoastronomi” improvvisati che pullulano in varie parti del mondo e prosperano anche, con un seguito senza discernimento, nella nostra Sardegna.
Ricordo molte discussioni che seguirono. Facile riconoscerci in quel sottobosco (oltre a Mauro, al sottoscritto e un paio d’altri, nessuno in Sardegna si occupava di archeoastronomia, se si esclude Proverbio presente al Convegno) con irritazione da una parte, ma anche con speranza, che l’apertura di Lilliu prefigurava.
Gli scrissi la seguente lettera, alla quale mi diede breve risposta durante un Convegno, mi pare ad Isili che Zedda organizzò, dicendomi che avevo frainteso l’articolo. Non ricordo le parole, ma quell’incontrò definì nella mia testa il profilo di Lilliu: furbo come ra stries, mi ripeto in ladino.
Egr. prof. Lilliu,
Sono un docente di tecnologia dell’architettura all’Università di Venezia. Mi occupo anche della storia delle tecnologie costruttive e fra le altre cose ho cercato di capire come furono costruiti i nuraghi. Ciò che ho letto a questo proposito –specie nei suoi libri o della sua Scuola- non mi ha soddisfatto e pertanto sono venuto in Sardegna a vedermi i nuraghi. Ho formulato un mio sistema costruttivo, che sintetizzato suona come “nuraghe macchina di sé stesso” ovvero la necessaria rampa di servizio è “congelata” nello stesso nuraghe: non c’è bisogno di supplementari rampe esterne, né di scalandroni, come ipotizza un suo ex allievo, Giacobbe Manca. Oggetto di questo mio studio è stata una relazione che ho illustrato a Saragoza, in un convegno internazionale di storia delle tecniche costruttive.
Ma non è di ciò che desidero parlarle, ma della nota da lei scritta sulla Nuova Sardegna, a proposito di archeoastronomia.
Ebbene, trovo davvero disdicevole tale articolo.
Ma al contempo stimolante, perché mi fa riprendere la voglia di completare un lavoro, di cui allego l’indice e l’introduzione, sufficiente credo ad esprimere la mia opinione sulla questione nuragica, di cui ovviamente sono un dilettante (sono architetto), uno di quei dilettanti che pullulano nel sottobosco della vostra Sardegna (l’indice e l’introduzione erano quelli di “Accabadora” in cui sostenevo che i nuraghi appartengono al sacro e che la teoria militare aveva fatto troppi danni).
Vede, se ci si occupa delle costruzioni del passato, soprattutto megalitiche e ciclopiche, prescindendo dall’archeoastronomia, sarebbe come scrivere senza conoscere la grammatica o la sintassi. Forse voi archeologi avete dimenticato di guardare l’ordine magistrale del cielo, poiché, chini sugli scavi, vi interessa ciò che brilla sulla punta del piccone e solo ora vi accorgete della “nascente archeoastronomia”.
Ma torniamo alla chiusura del suo articolo: “Benvenuti…nella nostra Sardegna”…Il resto, mi scusi, sono cose senza nessuna inferenza speculativa, scritte solo per recuperare un treno perso da tempo. Come pensa di eliminare il sottobosco degli archeoastronomi? Credo ci sia un solo modo. Non con la spocchia accademica, ma col confronto, poiché una verità o una stupidità non cambia se detta da un accademico o da un peon.
E sopporti anche qualche “outsider”, che pensa che il patrimonio archeologico sardo sia anche un poco suo, non solo vostro, così come il patrimonio artistico e culturale di Venezia è anche suo, non solo nostro!
Cordiali saluti
Franco Laner
Venezia, 28/12/1997
Lilliu ha incarnato un profilo di archeologo che nulla può o deve concedere all’illazione. Non si devono formulare ipotesi, né tantomeno, suggestioni.
L’archeologo -scrive Lilliu- questo essere che, di solito, ha una vena di pazzia, deve diventare l’uomo più “saggio”, più controllato del mondo; deve essere una sorta di perito settore, dalla mano ferma e dall’occhio rapido, sordo ad ogni richiamo patetico dello spirito.
Strana contraddizione. Forse che chi ci ha preceduto non concedeva nulla allo spirito? Ma come avvicinarmi a costui, senza concedere qualcosa allo spirito?
Venezia, 19 febbraio 2012
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