di Fabrizio Sarigu
Ultima Cumaei venit iam carminis aetas
magnus ab integro saeclorum nascitur ordo.
Iam redit et Virgo, redeunt Saturnia regna,
iam nova progenies caelo demittitur alto.
(Bucoliche Ecloga IV, Virgilio)
Ultimamente in Sardegna si sta sviluppando un dibattito legato alla possibile identificazione dell’isola con l’Atlantide di Platonica memoria. Tale dibattito ha preso piede a partire dalla pubblicazione del libro di Sergio Frau “Chi ha spostato le colonne d’ercole”. La tesi del libro argomenta a partire dalla presunta scoperta di un “antico equivoco” per cui le famose colonne d’Eracle, limite del mondo conosciuto dei greci, originariamente si sarebbero trovate presso lo stretto di Sicilia e solo successivamente, con l’ampliamento delle esplorazioni, sarebbero state ricollocate presso Gibilterra. Se questo fosse vero, ne deriverebbe il corollario per cui l’oceano atlantico non sarebbe l’omonima distesa d’acque, bensì il mediterraneo occidentale. Qui la prima isola in cui ci si imbatte, isola di una certa grandezza e importanza, sarebbe proprio la Sardegna. La tesi si spinge inoltre a ipotizzare, per giustificare il racconto del disastro che si narra nel mito platonico, che un immenso tsunami abbia colpito l’antica Ichnusa, distruggendo la civiltà nuragica (identificata come la più verosimile candidata). Il ricordo, in seguito idealizzato di questo “evento”, si sarebbe conservato fino a trasferirsi nel mito Platonico.
Sento il dovere di precisare che chi scrive respinge totalmente questa ipotesi, anche per la totale assenza di prove geologiche a sostegno di qualsiasi congettura su tsunami et similia. Tuttavia, ciò a parte, potrebbe essere interessante procedere ad un’analisi più sistematica del mito platonico.
Il filosofo Platone, nei due dialoghi Timeo (421 a.C.) e Crizia, parla di "un'isola più grande della Libia e dell'Asia messe insieme" collocata oltre le Colonne d'Ercole. Un continente, una volta ricchissimo, potente e popoloso, inghiottito dall'Oceano nel giro di un giorno e una notte perché gli dei vollero punire i suoi abitanti, diventati malvagi ed empi.
Bisogna premettere che ricorrendo alla tecnica narrativa del mito, gli antichi, ovunque nel globo, costruirono un linguaggio tecnico capace di dar conto delle conoscenze scientifiche da loro acquisite, che chiamarono “scienza sacra” (propriamente la loro scienza astronomico/religiosa, da una prospettiva geocentrica). L’importanza e sacralità di questa scienza deriva dal possedere un doppio risvolto, da un lato psicologico/religioso, dando ragione dell’esistenza umana e della creazione del cosmo attribuendo all’uomo un ruolo in esso e alla sua anima un destino futuro, e da un lato pratico, consentendo la creazione dei calendari per la sopravvivenza quotidiana e guidando la costruzione di città e monumenti. Il cielo era il regno dell’essere, luogo sacro per eccellenza, sede del tempo (per Platone “immagine mobile dell’eternità”, ossia il tempo coincideva con i moti planetari) e delle anime, contrapposto alla caducità della vita reale, caratterizzata dalla morte e dal divenire. Il cielo si configurò, nella mente antica, come una sorta di maccanismo di cui la matematica e l’atto di “misurare” costituivano le chiavi per poter accedere alla sua intima comprensione. Questo, tuttavia, in un mondo dove la conoscenza e la sua trasmissione avvenivano per iniziazione. Il mito divenne quindi la tecnica attraverso cui criptare tali sacre acquisizioni di sapere, affinché le informazioni potessero circolare tranquillamente nella bocca delle genti senza che queste potessero tuttavia comprenderne i significati nascosti se non ammesse alla conoscenza. Siamo ben lontani dalla moderna idea dell’acquisizione democratica del sapere, fruibile per tutti.
Il mito atlantideo costituisce un perfetto esempio di come possano essere trasmesse in chiave mitica informazioni scientifiche molto precise. La concezione del cosmo che gli antichi possedevano, che emerge dall’analisi comparata dei miti di popoli nella storia, può essere resa attraverso l’immagine di una sfera armillare. In questa sfera possono individuarsi due cerchi massimi, che l’avvolgono, detti coluri (solstiziali ed equinoziali) e due piani, inclinati rispettivamente di 23° l’un con l’altro, il piano dell’eclittica e quello dell’orizzonte. I due coluri, posti fra loro a croce e perpendicolari al piano dell’eclittica, individuano in essa, intersecandola, quattro punti, i due solstizi e i due equinozi. Il piano dell’eclittica, definito dal moto apparente del sole e, per astrazione, di tutti i pianeti visibili luna compresa, viene cosi “quadrato”. Ancora l’eclittica risulta divisa in quattro spicchi di 90° ciascuno ed in essa congiungendo i quattro punti col centro si forma la croce, mentre congiungendoli fra loro si delinea un quadrato iscritto in una circonferenza. Per questo l’eclittica era sovente rappresentata dagli antichi con un’immagine particolare, che spesso è stata utilizzata nella realizzazione di templi, edifici talismano, ossia quattro torri ai vertici di un quadrato con una torre centrale più grande al suo centro (axis mundi). L’eclittica veniva cosi “quadrata” individuando i punti solstiziali ed equinoziali e assumeva il nome di “terra quadra”. Tale “terra quadra” aveva sullo sfondo le dodici costellazioni. Questo incredibile sforzo concettuale, che portò all’elaborazione di questo sistema, consentiva di interpretare alcuni fenomeni osservati dalla superficie del pianeta, avendo sempre come presupposto la concezione geocentrica dell’universo. Infatti, all’alba di uno qualsiasi dei giorni suddetti (solstizi e equinozi), è possibile osservare sorgere eliacamente una delle dodici costellazioni dello zodiaco di modo che quattro su tutte acquistino importanza giacché in grado di fungere da pilastri celesti, in un’immago mundi che vede, come prima precisato, quattro pilastri/costellazioni agli angoli di un quadrato iscritto nella circonferenza dell’eclittica, con un pilastro centrale più grande, l’axis mundi. Per via della precessione degli equinozi questi pilastri/costellazioni non sono eterni ma cambiano, sostituendosi l’un con l’altro nelle suddette posizioni, in un ciclo temporale (anno platonico) della durata di 25000 anni circa (da un segno A e ritorno) di modo che ogni segno permane nella sua posizione pilastro per 2160 anni circa. Poiché l’equinozio di primavera (in molte antiche civiltà l’anno iniziava a maggio in prossimità dell’equinozio stesso) era considerato il momento simbolo dell’era precessionale, si può affermare che la durata di un era sia di 2160(1) anni. Così 6000 anni fa il sole, all’equinozio di primavera, occupava la casa del toro (e altri segni occupavano l’altro equinozio e i solstizi), poi la casa dell’ariete, quindi i pesci e il prossimo candidato è l’acquario.
Questo fenomeno viene delineato in modalità criptata in molti miti sparsi un po’ ovunque nel mondo, in un sistema descrittivo che varia a seconda dell’effetto sul quale si intende porre l’attenzione. Quando si vuole porre l’accento sulla nuova costellazione che sorge all’alba dell’equinozio di primavera eliacamente (un nuovo pilastro celeste), il racconto assume i connotati della descrizione di una “nuova terra” o “monte” che spunta/sorge dal mare (orizzonte). Questo perché attraverso l’osservazione empirica dei cieli, gli antichi potevano notare in quella data una nuova costellazione (ad esempio i pesci) affiorare per un poco dall’orizzonte. Anno dopo anno, osservando il cielo sempre alla stessa data e momento, la figura celeste inizia a levarsi in maniera sempre più preponderante, finché definitivamente emerge in tutta la sua forma, spodestando di fatto la costellazione precedente (ariete), la quale non sorgerà più eliacamente. L’effetto che ne deriva, onde favorirne la comprensione moderna, è quello assimilabile al moto di un nastro trasportatore per cui la nuova costellazione “sposta” la precedente. A questo punto il sole è detto essere nella casa dei pesci (stando all’esempio) e l’era assume quel nome per i successivi 2160 anni. Il fenomeno che si osserva all’alba dell’equinozio di autunno è l’opposto. Ossia il grande nastro trasportatore dell’eclittica determina l’effetto contrario per cui mentre una costellazione sprofonda sotto l’orizzonte, anno dopo anno sempre un po’ di più, fino a non essere più visibile, quella immediatamente superiore ne prende il posto, calandosi sull’orizzonte divenendo la nuova casa del sole quando questo sorge all’alba dell’equinozio di autunno (nel caso dell’era dei pesci, la vergine come nota Virgilio nel carmen su riportato). Il mito da ragione di questo fenomeno descrivendo una terra o un monte che sprofonda nelle acque (l’orizzonte, il “telescopio” degli antichi, per eccellenza è il mare) a causa di cataclismi vari.
Il mito platonico di Atlantide può benissimo collocarsi fra le mitologie che cercano di dare atto di questo fenomeno apparente del cielo. Dunque non da conto di una geografia terrestre, ma di un’uranografia celeste.
“Innanzi a quella foce stretta che si chiama colonne d'Ercole, c'era un'isola. E quest'isola era più grande della Libia e dell'Asia insieme, e da essa si poteva passare ad altre isole e da queste alla terraferma di fronte. [...] In tempi posteriori [...], essendo succeduti terremoti e cataclismi straordinari, nel volgere di un giorno e di una brutta notte [...] tutto in massa si sprofondò sotto terra, e l'isola Atlantide similmente ingoiata dal mare scomparve.”
(Platone, Timeo, Capitolo III.)
Già le colonne d’Eracle sono un’immagine mitologica molto forte e precisa, giacché sovente gli equinozi sono descritti appunto come colonne, pilastri, porte o soglie che devono o abbattersi (Sansone) o comunque attraversarsi. La loro presenza nel racconto deve quindi far subito insospettire, non che si voglia negare l’esistenza anche geografica delle stesse, tuttavia gli antichi sovente cercavano di trasformare in un corrispondente geografico terrestre le componenti uraniche individuate, o viceversa (così in cielo così in terra). Inoltre, come sappiamo, Platone tende spesso nei suoi dialoghi a servirsi di racconti a carattere mitologico, come il mito della caverna ad esempio, per dar conto delle sue idee o teorie. Che poi il mito atlantideo sia un mito cosmologico ci aiuta a comprenderlo già una prima analisi di contesto. Il racconto infatti appare in due dialoghi, “Timeo” e nel suo continuo incompiuto “Crizia”, proprio i due dialoghi in cui Platone ci presenta la sua visione cosmologica dell’origine dell’universo, escatologica della natura umana e fisica della struttura della materia. Interpretare il mito atlantideo come una narrazione mitologico avente il fine di rendere conto in chiave allegorica della visione cosmologica dell’autore ci appare del tutto appropriato.
Inoltre non sembra neanche casuale il nome che Platone da alla sua isola utopica: L’isola di Atlante. Tale nome richiama immediatamente il titano Atlante, colui che regge la volta celeste, ossia l’allegoria dell’axis mundi.
A questo punto è infatti possibile introdurre la descrizione di un altro degli effetti che la precessione degli equinozi(2) determina nei meccanismi celesti: il mutare della stella che indica il polo nord celeste.
Il polo nord celeste è quella porzione della volta stellata che viene traguardata dall’asse ideale collocato al centro del piano dell’orizzonte, ossia l’asse immaginario attorno al quale il cielo pare ruotare la notte. Questo asse ideale non è però fisso, ma a sua volta ruota, come già detto, attorno ad un altro asse ideale che questa volta però passa per il centro del piano dell’eclittica, inclinato rispetto al precedente di 23° circa. La porzione di cielo traguardata dall’asse ideale dell’eclittica individua due punti (polo nord dell’eclittica e polo sud) che sono gli unici punti, da una prospettiva geocentrica ovviamente ma che grande presa dovette avere nell’immaginario delle prime genti, ad essere fissa, stabile, immota e immutabile nel tempo. Come precisato, per contro, l’asse del piano dell’orizzonte ruota intorno all’asse dell’eclittica e ne consegue che il polo nord e sud celesti non sono fissi ma appunto ruotano rispetto ai corrispondenti punti del polo nord e sud dell’eclittica. Per ciò le stelle indicanti il nord ed il sud cambiano(3) e a volte possono anche non esserci (oggi abbiamo una stella polare per il polo nord, ma non una visibile per il polo sud). Lo stesso Platone proprio nel Timeo, descrive questi meccanismi chiamando il piano dell’orizzonte e il piano dell’eclittica propriamente “l’altro” e il “medesimo”(4) e asserendo che fra loro stanno in un rapporto geometrico assimilabile alla conformazione della lettera X dell’alfabeto greco. Rendendo ragione in maniera estremamente chiara dell’inclinazione del piano dell’eclittica di 23° circa rispetto a quello dell’orizzonte.
L’isola di Atlante può quindi essere considerata come un particolare allegoria di un determinato “asse del mondo” definito secondo le coordinate temporali che Platone stesso, come vedremo, si preoccupò di definire.
Ancora la città capitale dell’isola ci viene descritta avente forma circolare, costituita da più isole separate le une delle altre sempre da canali circolari, in una sorta di progressione di porzioni di terra in forma di circonferenze concentriche sempre più piccole fino alla zona centrale dove si trova l’acropoli (monte-axis mundi) con il tempio. Questa immagine dei cerchi concentrici, il labirinto, o il moto di un gigantesco gorgo, sono sovente utilizzati per rappresentare il mondo dell’eclittica ed il moto vorticoso dei pianeti.
Platone, nel suo racconto, sembrerebbe quindi darci una visione di una città ideale, utopica, cosa che trova giustificazione nel fatto che il Timeo segue sia temporalmente sia nei temi la “Repubblica”. La città ideale, per essere tale, deve però essere fondata, quadrata, sulle dimensioni celesti al punto da divenire essa stessa un simbolo del cielo o un’allegoria del cielo stesso (così in cielo così in terra). Nel racconto quindi la componente politica finisce per cedere del tutto lo spazio alla componente cosmologica e cosmogonica. Infatti è Crizia che ci parla di Atlantide, avendo sentito il nonno commentare il fatto che Atene dovette affrontare 9000 anni prima del tempo di Solone, una terribile minaccia a causa delle forze di invasione atlantidee. Terminato il prologo(5), sarà Timeo a prendere la parola (per non lasciarla praticamente più, o quasi) e come su riportato verrà descritta la concezione Platonica dell’origine e struttura del cosmo. Il mito di Atlantide, la sua ipotetica collocazione spaziale e temporale sembrerebbe voler porre l’accento su una particolare configurazione astronomica, essere l’”axis mundi” di una particolare era, poiché colloca non indefinitamente nel tempo la sua isola ma circa 9000 anni prima del tempo di Solone (6). Ciò ci consente di ritornare a ritroso delle ere precessionali, nel tempo, fino alla fine dell’era del leone, era su cui probabilmente gli antichi astronomi e mitografi intesero fissare il momento zero dell’inizio del computo precessionale, che avrebbe visto al momento dell’era dei pesci la metà del grande anno, in quanto sesta era dall’era del leone, per poi completare il giro ritornando nuovamente verso la stessa. Poiché Platone riconduce il suo mito agli egizi, il nonno di Crizia l’avrebbe appresa da Solone il quale a sua volta ne venne a conoscenza in Egitto, si potrebbe ricondurre il tutto al mitico tempo dello “zep tepi” sorta di “saturnia regna” egizio, il mito dell’isola di Atlante renderebbe conto della fine di questa era, probabilmente così importante per i nostri antenati nel computo del grande anno precessionale.
NOTE
1. È necessario operare un distinguo fra costellazione dello zodiaco, le quali sono in misura di 12, 13 o 14 a seconda dell’inclinazione dell’angolo, poiché anch’esso oscilla su un valore medio di 23° circa, che l’eclittica assume rispetto al piano dell’orizzonte, e segni dello zodiaco. Questi ultimi sono meglio frutto di un’operazione geometrica che divide la circonferenza in 12 spicchi di 30 gradi ciascuno. La tradizione associò a questi spicchi una particolare costellazione simbolo, divenendone il corrispondente segno. Poiché il sole impiega 72 anni a percorrere 1° dei 360°, nel suo moto apparente nell’eclittica, basta una semplice operazione matematica per calcolare in 2160 gli anni che impiega a percorrere 30° e circa 26000 gli anni necessari a percorre tutti i 360° (72 per 360).
2. Il termine precessione rende conto del fatto che col tempo il segno che sorge all’alba dell’equinozio di primavera cambia, in un ordine opposto a quello del normale susseguirsi dei segni zodiacali durante l’anno, che in questo caso precedono appunto.
3. Ad esempio, 3000 anni fa la stella polare era la stella alfa della costellazione del drago, ora è alfa ursae minoris, fra 13000 anni sarà vega, in altri momenti semplicemente non c’è una stella visibile prossima al polo nord, che andrà individuato traguardando e allungando segmenti fra stelle diverse di modo da individuare il polo nord, cosa che già ora deve farsi per individuare il polo sud.
4. Da notarsi che anche dove la descrizione appare essere più lineare, Platone utilizza un linguaggio comunque criptico, giacché egli non nomina i due suddetti piani se non vagamente ricorrendo a pronomi “altro” e “medesimo”.
5. Notarsi anche la posizione che Platone sceglie per collocare il suo racconto mitologico dell’isola di Atlante, il prologo alla trattazione dell’origine e struttura dell’universo.
6. Notarsi anche la posizione che Platone sceglie per collocare il suo racconto mitologico dell’isola di Atlante, il prologo alla trattazione dell’origine e struttura dell’universo.
per errore si sono persi i commenti, scusateci.
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