di Alessandro Mannoni
Il post di Mauro Zedda sul Rito
dell’incubazione nell’epoca nuragica (7 marzo 2016) mi sollecita a ritornare
sull’argomento che avevo già diffusamente trattato in un ampio capitolo del mio
libro “Religione e spiritualità nella Sardegna Nuragica” (Mannoni 2014).
Le ragioni che consentono di
escludere con ragionevole certezza l’uso a fini incubatori delle tombe dei
giganti nuragiche sono tre.
Le prime due le ha nuovamente
riassunte Zedda nel suo scritto:
1)
tecnicamente risulta poco praticabile l’utilizzo
di uno spazio aperto, quale quello fornito dall’esedra della tomba dei
giganti, per un rito che prevedeva un
sonno indisturbato e della durata addirittura di più giorni. Nelle altre
regioni della Grecia e del Medio Oriente dove si praticava tale rito, ad esso
erano sempre destinati dei locali chiusi o delle grotte, luoghi protetti da
intemperie, animali, presenze o rumori che sarebbero riusciti di disturbo o di
ostacolo alla completa esecuzione del rito.
2)
la cronologia non coincidente che confuta
l’attribuzione di un fenomeno religioso, descritto in ambito greco solo a
partire dal IV secolo a. C., ad una struttura tombale il cui uso termina con
certezza almeno 700/800 anni prima. L’incubazione sarda di cui parla
Aristotele, e con lui i suoi tardi commentatori, non può che essere un fenomeno
osservato e raccontato dai viaggiatori e colonizzatori greci che solcavano il
mediterraneo occidentale nel I° millennio a.C. e non precedentemente.
La terza però mi appare come
decisiva. Tutte le fonti antiche che trattano l’argomento, sia greche che
latine, pur nella loro estrema sinteticità concordano su un fatto: i luoghi
presso cui viene effettuato il rito appartengono ad “eroi” e non a comuni
defunti. Non si parla di avi o antenati generici, ma sempre e solo di alcuni,
pochissimi, eroi. Conseguenza sicura di tale fatto è l’esclusione dal rito
incubatorio delle tombe dei giganti, in quanto sepolture collettive di comuni
defunti, per giunta diffusissime sul territorio.
Se poi si aggiunge che tali eroi,
secondo le fonti più tarde, apparivano come “dormienti” nel santuario loro
dedicato, si capisce come tali salme, probabilmente imbalsamate, dovessero
essere ospitate in ben altri luoghi che le tombe dei giganti.
La distinzione cultuale tra eroi e normali defunti sembra però
un punto che continua ad essere ignorato o trascurato dagli studiosi che si
sono occupati dell’argomento, quasi si trattasse di un fatto irrilevante ai
fini della comprensione del fenomeno.
In effetti comincia con l’iniziale studio del Pettazzoni
sulla religione primitiva in Sardegna (Pettazzoni 1912) l’associazione tra
l’incubazione sarda e la pratica del sonno presso le tombe degli antenati morti
per ottenere visioni e oracoli diffusa tra le antiche popolazioni libiche dei
Nasamoni e degli Augili (descritta da
Erodoto, Pomponio Mela e Plinio il Vecchio), i quali, con le parole dello
stesso Pettazzoni, “non avevano altra religione che la religione dei morti”.
Tale associazione è stata poi riproposta dagli autori successivi, sino al
recente studio di Attilio Mastino, che pur focalizzando esplicitamente la sua analisi
proprio sul “sonno terapeutico davanti agli eroi”, tanto da ambientare il rituale
non più presso le tombe dei morti, le tradizionali tombe dei giganti, ma nei
templi, ed in particolare davanti alle statue dei giovani eroi guerrieri del
santuario di Mont’e Prama, in conclusione però finisce per riproporre il
consueto abbinamento, propendendo, sempre sulla scia del Pettazzoni, per una
decisiva influenza nordafricana sull’usanza sarda, e contraddicendo, in tal modo, la sua stessa
ipotesi interpretativa (Mastino, Aristotele e la natura del tempo: la pratica
del sonno terapeutico davanti agli eroi della Sardegna, 2015).
Questo accostamento mi pare invece
fraintenda un dato religioso che ha notevole valenza e che forse si può
intendere meglio con un esempio adeguato ad un pubblico più abituato alle forme
religiose del cattolicesimo che a quelle arcaiche: in sostanza sarebbe come se,
per la richiesta di grazia, un cristiano malato si affidasse non alla Madonna,
a S.Antonio o a Padre Pio, ma alla buonanima della trisnonna defunta!
Presso molte culture dell’antichità
gli eroi, a differenza dei comuni mortali, erano individui con un destino,
anche post mortem, radicalmente diverso, e quindi in grado di intervenire
salvificamente presso i fedeli che li interpellavano. E che i protagonisti del
culto sardo fossero eroi lo asseriscono esplicitamente, ripeto, tutte le fonti
greche e latine al riguardo, a partire dalla prima testimonianza aristotelica;
fonti che invece, quando si riferiscono alle popolazioni nordafricane dei
Nasamoni e Augili, non hanno difficoltà a parlare esclusivamente di antenati e
morti comuni (progonoi, manes, inferos), la cui divinizzazione,
nel mondo classico, aveva però un carattere collettivo e indistinto, mai
individuale come nel caso degli eroi.
E, indirittamente, proprio
Pettazzoni sembra mostrarlo con la sua ricca casistica di confronto
dell’usanza, dal momento che al di fuori degli esempi del Nordafrica, tutti gli
altri avanzati, sino alla sopravvivenza in ambito cristiano, hanno a che fare
con specifici eroi, divinità o santi e mai generici e banali defunti
(Pettazzoni 1912, pag.152 e seg.).
La comunanza di finalità
(terapeutica) e di tecnica (il sonno) utilizzate in Africa e in Sardegna quindi
non mi pare consenta un’assimilazione indebita tra le figure interpellate nel
rito.
Anche la messa in discussione
della validità delle fonti classiche stesse, dirette, si sostiene, con la loro
interpretazione culturalmente e politicamente interessata del rito sardo a
riportare ai greci e ai loro eroi ogni degna espressione civile, o tramite i
Troiani a convalidare arcaiche connessioni tra sardi e romani (Didu 2003 –
Baglivi 2005 – Mastinu 2014), non mi
pare possa essere del tutto giustificata: non solo perché viene applicata
esclusivamente alla lettura delle fonti sui sardi, ma non a quella di altre
popolazioni come quelle Nordafricane, mai “viziate” da distorsioni
interpretative; ma anche perché le testimonianze classiche sono le uniche che
abbiamo sul fenomeno, l’unico dato scritto grazie al quale abbiamo notizia di
questa pratica che altrimenti avremmo ignorato del tutto. Testimonianza non
sostituibile con dati archeologici o comparativi, assolutamente insufficienti,
da soli, a far luce sull’usanza in questione.
Come poi possa apparire mero
frutto di una rilettura a posteriori di epoca classica un culto degli eroi (al
di là della loro specifica identificazione) in una civiltà, quale quella sarda
del bronzo finale e del ferro, che ha prodotto una bronzistica e una statuaria
unica avente ad oggetto privilegiato proprio le figure di giovani guerrieri,
non si riesce a comprendere.
Escluse pertanto le tombe dei
giganti quali potevano essere i luoghi preposti al rito? Forse alcuni nuraghi
complessi già a partire dall’epoca nuragica e con un utilizzo cultuale
prolungatosi per buona parte del I° millennio, come Pittau, Baglivi e infine
Zedda suppongono?
Tenderei ad escluderlo per una
serie di ragioni: culturali innanzitutto. La pratica incubatoria sembra
espressione delle culture diffuse nel bacino del mediterraneo, orientale e
nordafricano, ma non del continente europeo, con cui la civiltà nuragica aveva
probabilmente maggiori affinità.
Ma soprattutto l’ideologia
religiosa sottesa al culto degli eroi, anche per quanto detto prima, è distante
dalla visione antropologica e dall’organizzazione sociale probabilmente
egualitaria della cultura nuragica in senso stretto (Zedda 2009) e soprattutto dalla
sua visione del sacro, dove probabilmente non era ancora presente quel processo
di antropomorfizzazione e specializzazione delle forme divine che invece
diventerà tipico della cultura post nuragica che inizia ad emergere tra la fine
del II° e l’inizio del I° millennio a.C.
Molto più sostenibile mi sembra quindi
la localizzazione all’interno di heroon
presenti in alcuni di quei santuari “federali”, come l’archeologia sarda li ha
spesso definiti, che compaiono alla fine della civiltà nuragica vera e propria
e appartengono a una fase religiosa e culturale differente della storia sarda,
come ho cercato di mostrare nel mio libro (Mannoni 2014).
Se Mastinu ipotizza una tale
destinazione per il santuario di Monte Prama, Pittau pensava ad un utilizzo anche
incubatorio delle stanzette del recinto di Santa Vittoria di Serri, mentre nel
mio lavoro immaginavo un’analoga funzione per il santuario di Su Romanzesu a
Bitti.
Nessun commento:
Posta un commento