lunedì 25 ottobre 2010

Su Nuraxi di Barumini

di Franco Laner

Non vado mai volentieri a Su Nuraxi, perché ogni volta si rinnova lo strazio del pessimo restauro-consolidamento del monumento.
Posso solo attenuare il negativo giudizio rapportandolo all’epoca dell’intervento. In quel periodo a Venezia si sostituivano le travi di larice dei solai della Cà d’Oro con solai in latero-cemento!
Girare fra il villaggio rimesso “in bello” con un coacervo di tecnologie costruttive, dove la malta la fa da padrona, con apparecchi murari decontestualizzati, non degni nemmeno di un muro di sostegno di una strada provinciale, con risibili architravi sulle porte di ingresso, in dispregio ad un minimo di regole dell’arte del costruire a secco, con lastre di pavimento posate verticalmente a mò di soglie, fa soffrire davvero molto! E vien solo voglia di scappare in un diruto nuraghe dove gli archeologi-ricostruttori non abbiano mai messo mano!
Se già un architetto può far danno, figuriamoci un letterato che non ha il minimo senso del grave!
Mi chiedo per quale benigna congiuntura non sia stata ricostruita almeno una torre coi mensoloni in aggetto, che ora sono raccolti assieme a centinaia di conci a protome taurina nell’area archeologica, conci che sono propri ed esclusivi dei pozzi e delle fonti sacre, così da esibire il castello-reggia-fortezza realmente e non solo nelle fantasmagoriche ricostruzioni virtuali.
O forse ci hanno provato e si sono accorti che era impossibile, anche con malta e calcestruzzo, uscire a sbalzo sulla sommità di un nuraghe!
L’improprio “restauro”, funzionale esclusivamente alla visione medioevale del suo archeologo e ai turisti di bocca buona richiama centomila visitatori all’anno e risolve – con cospicui finanziamenti regionali- un problema di occupazione, considerate le decine di guide, addetti vari e indotto.
Pertanto va bene così!
Volevo acquistare una fra le tante pintadere esposte, ma nessuna di esse era una copia fedele delle tante ritrovate nei siti nuragici sardi. Erano solo fantasiose interpretazioni, in coerenza con la visione distorta del monumento e del suo interprete e in coerenza con l’idea che non conta puntare ad un turismo, non dico culturale, ma almeno dignitoso. Conta il numero delle presenze, che aumentano quando c’è il maestrale o piove, perché non si sta in spiaggia!
Non è questo il turismo su cui puntare. O si pensa che i gadget made in Cina o i muri raffazzonati possano aver futuro? E’ necessario un cambio di paradigma, in primis archeologico, che ancora si incardina sul nuraghe-fortezza, madre di ogni sciocchezza e quindi di offerta di turismo culturale che il patrimonio sardo reclama, perché ora è avvilito e maldestramente sfruttato.

domenica 10 ottobre 2010

Vittorio Angius predecessore della Teoria della Continuità

di Mauro Peppino Zedda


Recentemente Gigi Sanna (nel blog di Gianfranco Pintore), ha messo in evidenza che Padre Vittorio Angius, può essere considerato un predecessore della Teoria della Continuità di Mario Alinei. Vi riporto uno stralcio dove Sanna cita l’Angius: “il canonico Vittorio Angius molto prima, quasi duecento anni fa (1838: Biblioteca Sarda: si veda 'Lingua antica de' Sardi' in Casalis, 1851, vol. XVIII, 2, pp. 527 -529 ) anticipava da un pulpito di enorme prestigio culturale e quindi anche linguistico qual era il Dizionario degli Stati di S.M:
Conosciamo la lingua de' sardi nel secolo VIII simile, fuori alcune lievi differenze, a quella che essi parlano nel secolo XII, e nessuno dubita che fosse pure quasi simile a quella che usavano al tempo di Augusto.
Ma era simile a questa, quella che parlavano avanti la dominazione romana?
Negano tutti, perché credono che la lingua sarda, tanto affine alla latina quanto tutti sanno, sia stata introdotta da' romani; ed io come ho già negato questo fatto contro l'opinione universale che credo un errore universale, lo negherò anche adesso.
Diceva nella Biblioteca Sarda (p. 312) in una notazione all'articolo letterario su gli improvvisatori sardi: '' Qui (in Sardegna) stanziarono alcuni secoli i saraceni e non alterarono la lingua nazionale; appena hanno in essa intruso alcune parole; dominarono per quattro secoli i penisolani dell'Iberia, ragonesi, catalani, valenzani, castigliani, e se non fosse stata piantata la colonia algherese non resterebbe di quelle lingue più che alcune parole; esiste per più di 130 anni una continua pratica coi piemontesi e non so quante parole si siano prese da essi.
Che si fa da questo? Che si possono alterare le opinioni, i costumi, le leggi e tutt'altro, di una nazione, quando viene in comunicazione strettissima con un'altra nazione di differenti opinioni, costumi, leggi, non mai la lingua''.
Soggiungeva poi: ''In Sardegna gli algheresi parlano catalano. Or tra essi intrometti mille che parlino il sardo, e pensa che avverrà nelle due lingue. Certamente i settemila algheresi non lasceranno il loro linguaggio nativo per parlare il sardo, né dissuaderanno i vocaboli della loro lingua della pluralità. Se essi nol facciano lo faranno senza dubbio i loro figli. Sia un'altra supposizione. Mischia alla popolazione algherese altrettanti sardi; ed avverrà che si abbandoni né l'uno né l'altro linguaggio, e dalla confusione ne nasca un terzo. Una terza supposizione, i settemila algheresi si fondano in quarantamila sardi, ed il catalano in breve cesserà''. Di che si ha una prova nella colonia straniera che abitava il castello di Cagliari, la quale come si confuse con gli abitatori de' quartieri bassi in breve dimenticò la lingua avita. Una dimostrazione di maggior evidenza ne abbiamo nell'Italia. In essa invasero cento orde di barbari ed alcune vi stabilirono la stanza; ma perché il loro numero era non più che il ventessimo o trentesimo della popolazione italiana, non poterono mutare la lingua che vi si parlava, affine, come quella dei sardi, alla latina, e solo le aggiunsero alcuni vocaboli e forme, che oramai tutti rigettano come barbarismi di vero nome.
Dunque se i saraceni, i goti, i vandali furono pochissimi verso la popolazione sarda, non potevano cagionare nessuna alterazione nella lingua degli isolani; quindi si potrà dire in buona logica, che se i romani non mandarono più milioni d'uomini ben parlanti la lingua del Lazio, la lingua della Sardegna non poté latinizzarsi, se non lo era.
Si dirà: che i sardi dovettero latinizzare quando Roma comandò che si parlasse nelle provincie la lingua latina. Ma può alcuno persuadersi che siasi potuto per un decreto ottenere, che in tutte le provincie gli uomini illetterati parlassero una lingua, cui non conoscevano, e lasciassero e lasciassero la lingua patria nelle cose domestiche e private? Del resto è certo che l'uso della lingua de' dominatori fu obbligatorio solamente negli atti pubblici.
Or aggiungo: i romani imperarono anche in varie regioni della Germania e nella isola Britannica, e tuttavolta non poterono volgarizzarsi la loro lingua latina; imperarono sopra vastissime regioni orientali e la loro lingua non vi allignò.
Si introdusse però nelle Gallie e nella Spagna. Vi si introduceva non più che in Sardegna; e devo tenere il lettore che le nazioni che ebbero un dialetto latino furono germogli della stessa stirpe de' latini, parimenti che i popoli sardi.
Di più se tra i sardi quelli che restarono soggetti ai romani dovettero lasciare la lingua nativa, questa si sarebbe dovuta conservare in quelle tribù che restarono sempre indipendenti da' romani . Ma come spiegare allora questo che nelle loro alpestri contrade il linguaggio sia meglio latino, che altrove?
Per conseguenza se i romani non la introdussero essa fu la lingua antichissima dell'isola, la lingua de' primi coloni dell'isola'.
Dai quali antecedenti è posto in evidenza l'errore di quelli i quali pretendono i primi popolatori dell'isola essere stati fenici, e la popolazione essere poi cresciuta con gli africani.
”.

sabato 9 ottobre 2010

Mito Antico (e moderno) e conoscenza astronomica (terza parte)

di Fabrizio Sarigu


L’universo dagli antichi era quindi immaginato come una sfera armillare (quella che per intenderci troviamo sovente in mano ai papi, ai santi, agli imperatori etc) dove l’armatura dei coluri avvolge tutta la struttura delle stelle fisse e al centro sta il nostro pianeta. Tutto l’universo è quindi ripartito in tre regni divisi sotto il seguente schema che appare sovente nei miti:
a) Cielo: dal tropico del cancro alla stella polare, la regione circumpolare del cielo abitata fra l’altro dai 7 re o saggi, le stelle dell’orsa, i 7 buoi a cui il mito aveva, fra gli altri, affidato il compito di far ruotare il “mulino” (settentrione deriva dal latino septem triones, i triones erano i buoi deputati a far ruotare la macina, il termine con cui indichiamo il “nord” ci deriva direttamente dal mito), la costellazione dell’orsa era fondamentale poiché il coluro solstiziale la attraversò passando per ciascuna delle sue sette stelle (ognuna di esse era associata ad un pianeta).
b) La terra quadrata: il piano dell’eclittica su cui si muovevano le forze planetarie. La quale a sua volta era divisa in due grandi blocchi, la “terra emersa” ossia la parte d’eclittica sopra l’orizzonte (da equinozio a equinozio passando per il polo nord) e quindi visibile all’osservatore durante le ore notturno, ed il “mare” ossia la parte dell’eclittica non visibile all’osservatore perché sotto l’orizzonte (da equatore ad equatore passando per il polo sud). Ecco spiegata l’allegoria dello sprofondare di Atlantide (ossia del pilastro dell’equinozio d’autunno) e dello spuntare dal mare di nuove terre (costellazione pilastro dell’equinozio di primavera), che nulla hanno a che spartire con la geografia del nostro pianeta.
c) Il regno dei morti: la parte di cielo che va dal tropico del capricorno al polo sud, rappresentata principalmente dalla nave sacra, la costellazione Argo e dal suo pilota, la stella remo Canopo, sede come vedremo delle misure.
Platone nel Timeo spiega proprio come si articola questo schema e di come l’incastro fra il piano dell’eclittica e dell’equatore (che lui chiama “l’altro” e il “medesimo”) sia raffigurabile con la lettera X dell’alfabeto greco.
Ma chi era Amleto? Perché era lui il proprietario del mulino?, in altra sede abbiamo detto che dietro Amleto si nasconde una precisa forza planetaria, ora è venuto il momento di presentare il signore e padrone del tempo, nonchè delle misure, ossia il pianeta Saturno.
Anzitutto è necessario spiegare il ruolo che i pianeti ricoprivano nella visione (sempre geocentrica ) che l’uomo aveva dell’universo. I pianeti (cani, come li chiamava Pitagora) erano le forze divine, non a caso conservano tuttora i nomi delle divinità, erano gli DEI. In seguito a causa della segretezza che circondava la scienza sacra, la gente comune finì per non capire più chi e cosa fossero gli dei, lasciandosi rapire da un processo di antropizzazione che nascose la vera origine delle credenze. I pianeti da un punto di vista geocentrico sono riconoscibili (ovviamente si parla dei pianeti visibili dalla terra, ossia Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno) poiché si collocano sul piano dell’eclittica (come sappiamo nel nostro sistema solare i pianeti non si dispongono come gli elettroni rispetto al nucleo di un atomo, ma grosso modo su un unico piano) e ruotano nella direzione opposta a quella delle stelle fisse.
Il movimento apparente che essi delineano, che i greci disperatamente cercavano di ricondurre geometricamente a orbite circolari, permette di dividerli in due grandi gruppi:
A) Mercurio e Venere
B) Marte, Giove e Saturno
Mercurio e Venere, descrivendo orbite interne rispetto a quella della terra, hanno un moto apparente incredibilmente complesso, essi compiono incredibili evoluzioni, vanno avanti, tornano indietro, fanno “capriole” in un moto assolutamente irrazionale. Il mito spesso descrive infatti Mercurio come il pianeta/dio degli intestini, proprio per indicare la complessità del suo moto apparente. Questo viene espresso anche dal simbolo con cui oggi lo conosciamo, il caduceo, uno o due serpenti arrotolati su un bastone che simbolicamente indicano proprio la complessità del moto (spirale del serpente) attorno all’asse della terra (il d.n.a. non c’entra nulla, nonostante qualcuno sostenga il contrario…). Ciò che è incomprensibile, ma assolutamente spettacolare da un punto di vista geocentrico, diventa comprensibile dal nostro punto di vista eliocentrico. Mercurio e Venere sono pianeti interni rispetto all’orbita della terra, per questo coprono in meno tempo la loro rotazione attorno al sole (Mercurio è il più veloce, infatti era il messaggero degli dei, con le “ali” ai piedi). Ciò significa che ci “doppiano” ripetutamente creando delle “evoluzioni” particolari e risultando visibili soprattutto prima del sorgere del sole (stella del mattino) o dopo il tramonto (stella della sera), in quanto sono posti fra noi e il sole.
I movimenti dei pianeti esterni sono invece più semplici ma comunque molto spettacolari. In pratica compiono delle “capriole”, ossia il pianeta, rispetto al suo moto normale, pare ad un certo punto tornare indietro sui suoi passi per poi riprendere ad andare (vedere wikipedia alla voce Marte, c’è un filmato molto chiaro). Tali moti sono detti retrogradi per evidenti motivi, su tutti Marte, ritenuto non a caso anche il dio della danza.
Questi erano i fautori del tempo, le vere potenze e tutta la mitologia non è altro che un resoconto celato (anzi, celatissimo) delle loro evoluzioni, ossia una uranografia.
Fra le potenze planetarie, la più importante è quella ricoperta da Saturno/Kronos, signore del tempo e delle misure nonché dell’età dell’oro (il grande fabbro, deus faber, l’architetto). Egli ricoprì questo ruolo sia a causa del suo moto solenne (è il pianeta più “lento”), sia per via delle sue congiunzioni con Giove (trigono). Se il sole nel “attraversare” i segni dello zodiaco è la lancetta delle “ore precessionali”, nel cielo esiste un’altra fiaccola che segnava invece i minuti di un’era, tale fiaccola è il pianeta Saturno. Agli antichi mitografi dovette sembrare proprio segno della volontà creatrice l’esistenza di periodi che si accordavano l’uno con l’altro, così avviene che entro il tempo di un’era processionale, ossia 2160 anni, un angolo del trigono delle congiunzioni di Saturno con Giove percorre tutto lo zodiaco (in realtà impiega 2384 anni), cadenzando così i ritmi di un’era e consentendo di delinearne un inizio, una metà e una fine/inizio di una nuova era. Un nuovo segno zodiacale regnava a partire dal primo giorno di una grande congiunzione Saturno/Giove nel punto di passaggio, l’era dei pesci ebbe inizio con la prima congiunzione Saturno/Giove nel segno dei pesci avvenuta nel 6 a.C. (ecco cosa era la stella cometa del vangelo!!). Grazie a questo trigono, Saturno/Kronos fornisce veramente le misure al figlio Zeus. La sede di Saturno, dove egli si ritirò a seguito della caduta dell’età dell’oro (epoca dei gemelli, dove la via lattea, per la posizione ricoperta al momento, era un coluro equinoziale visibile e i tre regni erano uniti da un ponte/strada visibile, cosicché le anime dei morti non potevano perdersi, ecco perché età d’oro), è la stella Canopo, come più volte detto, considerata l’unico punto statico del cosmo poiché il polo sud era ritenuto esente dalla precessione. Giacchè il tempo è movimento (dei pianeti), l’unico luogo statico del firmamento non può che essere la sede-origine del tempo e quindi saturno-kronos ne è il signore.
Ci sarebbe un’infinità di altre cose da dire su quest’argomento, che però vanno ben oltre le mie modeste capacità di sintesi, spero solo di aver suscitato in voi delle domande e la curiosità di andare a leggere un saggio così importante per l’analisi storica del pensiero umano e della sua evoluzione.

P.S. il trigono è una figura che ripropone le congiunzioni tra Saturno e Giove rispetto ai segni dello zodiaco venendo a suddividere lo stesso in 4 triplicità corrispondenti ai quattro elementi:
1. Fuoco: Ariete, Leone, Sagittario
2. Terra: Toro, Vergine,Capricorno
3. Aria: Gemelli, Bilancia, Acquario
4. Acqua: Cancro, Scorpione, Pesci
(adesso si capisce perche nell’oroscopo i segni di acqua e aria paiono incoerenti, ossia che ci fa lo scorpione fra i segni d’acqua? E l’acquario perché è in aria?). Ogni 20 anni dunque avviene una grande congiunzione fra il Pianeta Saturno e Giove, congiunzione che ha come sottofondo un segno dello zodiaco, dopo 20 anni un’altra con a sua volta un segno e quindi una terza con un altro segno formando così un triangolo rispetto al cerchio dello zodiaco. Per ben 12 congiunzioni (circa 200 anni) si resta entro la triplicità che si è delineata e in 800 anni tutti gli “elementi” vengono attraversati. Se invece consideriamo un angolo del trigono, questo impiegherà per percorrere tutta la circonferenza zodiacale circa 2400 anni per tornare dal punto A al punto A, quando supererà il punto A entrando nel nuovo segno, ecco che quella è la data di nascita della nuova era, come avvenne per l’era dei pesci, inaugurata dalla prima congiunzione Saturno-Giove nel segno dei pesci appunto (6 a.C.).