lunedì 26 dicembre 2016

Giovanni Ugas e l’epistemologia


di Mauro Peppino Zedda

Nei giorni scorsi è arrivato in libreria l’attesissimo saggio di Giovanni Ugas. Shardana e Sardegna, gli alleati del Nordafrica e la fine dei Grandi Regni (XV-XII secolo a.C.).
Il saggio si dipana in 1024 pagine dense di scrittura, l’autore è stato parsimonioso in immagini, sia in quantità che in dimensioni.
Di seguito vi propongo un passo che condensa le motivazioni che hanno portato l’autore ad identificare i nuragici con gli Shardana citati nelle cronache egizie.

A pagina 661 del libro citato Ugas scrive: “… la Sardegna contava una popolazione ragguardevole, stimata in 400.000-700.000 abitanti, ed era in grado di armare un consistente esercito, ma, come si è detto, consistenti gruppi dei suoi abitanti dovevano essere costretti ad abbandonarla.
Sappiamo che al tempo dei nuraghi tra i Sardi vigeva ancora un regime ereditario matrilineare, come si evince dall’uso delle tombe collettive e soprattutto dal costume del sacrificio dei vecchi re, retaggio neolitico trapiantato in una società tribale. Anche la presenza di regine, come Medusa e Sarda, e di divinità femminili dominanti come la dea Luna (Diana/jana e orgia nella tradizione etnografica) è legata a costumi matrilineari. Come detto, poiché in regime di successione matrilineare diventava re (capo tribale e cantonale) chi sposava la principessa ereditaria, i figli maschi del capo erano necessariamente costretti ad andar via dalla comunità e occupare nuove terre al di fuori del cantone o della tribù, portandosi appresso una parte della popolazione giovanile. Un costume simile che obbligava i giovani ad emigrare era praticato tra le popolazioni italiche e in tal caso a imporre la cacciata dalla comunità, giustificata col sovraffollamento e la carestia, era una prescrizione religiosa, il “ver sacrum”, che rispondeva ovviamente ad una  esigenza politica, sociale. Ora, il proliferare nell’isola di migliaia di torri, castelli e villaggi è certamente in relazione con un modello di popolamento centralizzato che impone a una parte della comunità di  costruire nuovi insediamenti. Tale modello poteva reggere soltanto sino a quando nell’ambito dei confini tribali e cantonali vi erano terre da occupare e da spartire, perché altrimenti occorreva emigrare fuori dalla tribù se non fuori dall’isola. Una progressiva saturazione delle terre disponibili doveva portare a tensioni sociali interne sempre più gravi e dunque ad esigenze migratorie man mano crescenti.”.

Quel “Sappiamo” di Ugas mi pare sconvolgente, un “Sappiamo” palesemente inappropriato, un “Sappiamo” riferito a concetti che albergano solo nella sua fantasia piuttosto che nella comunità degli studiosi.
Ma ve li immaginate i figli dei capi tribù che devono sloggiare e dare spazio allo sposo della figlia del capo? Giovanni Ugas, oltre che fantasioso non è né logico né consequenziale. Se la Sardegna Nuragica fosse stata caratterizzata da un sistema sociale in cui invece delle donne si spostavano gli uomini si sarebbe assistito ad uno scenario costituito da un sistema articolato su uno scambio reciproco dove tutti si spostavano ma c’era spazio per tutti senza i defenestrati su cui fantastica Giovanni Ugas. Il discorrere di Ugas pare quello di un Azzeccagarbugli che fa tornare i conti a suo piacimento e godimento . Si inventa i defenestrati e poi spiega che si trovarono costretti ad invadere l’Egitto dei faraoni, alla ricerca di terre da coltivare! E perché proprio in Egitto, non sarebbe stato più comodo andare in Lazio e Toscana a quei tempi mezzo disabitate?
Nutro certezza  che se il passo vergato da Giovanni Ugas lo avesse scritto un qualsiasi appassionato di archeologia,  tanti archeologi lo avrebbero etichettato  come fantaarcheologia, chissà se avranno il coraggio farlo con l’allievo prediletto di Giovanni Lilliu
Concludo dicendo che se fossi professore di epistemologia  a Giovanni Ugas gli darei un bel zero spaccato!


P.S. Per chi volesse approfondire la strutturazione della società nuragica (compreso il sistema matrimoniale) e le motivazioni per cui ritengo che i nuragici non possono essere gli Shardana citati nelle cronache egizie consiglio la lettura di Archeologia del Paesaggio Nuragico (2009).

lunedì 28 novembre 2016

Archi e travi

di Franco Laner




L’osservatore sembra si stia chiedendo: ho un arco sopra la testa? Gli rispondo con l’articolo seguente.


Mia moglie mi ha fatto notare, in Facebook, alcuni commenti a proposito del nuraghe Alvu di Pozzomaggiore, in particolare degli amici Saba e Montalbano, che assieme ad altri si interrogano sui tecnemi costruttivi dei nuraghi, a secco (che non ci sia malta -ovvero inerti e legante- lo posso testimoniare avendo fatto analisi su presunte malte del Losa) e con conci sommariamente sbozzati.
Mi dispiace invece deludere la collega  Auguadro: se avessi un minimo di credibilità, farei davvero modificare la storia dell’architettura aprendo ogni storia del genere con il pozzo di S. Cristina, strappandolo all’archeologia, che pochissimo c’entra col mirabile ed emozionante documento costruito.
Comunque il problema di cui si tratta è un po’ più intrigante di quanto potrebbe apparire e soprattutto il parere estemporaneo di chi si avvicina ad una disciplina munito del buon senso non è sufficiente (ho spesso fatto l’elogio del buon senso comune, citando Raffaele La Capria, che nel bellissimo volumetto “La mosca nella bottiglia” chiarisce l’importanza del buon senso comune).
Talvolta  è però necessario conoscere i prolegomeni di una disciplina per formulare giudizi più approfonditi.
Ci sono due modi per coprire una spazio: o con la “trave semplicemente appoggiata”  e sue declinazioni (in pratica il trilite, come il dolmen) oppure con “l’arco” che però è spingente, a differenza della trave semplicemente appoggiata che dà reazioni verticali.
La trave deve essere realizzata con materiale che resiste a compressione e trazione. Nell’arco invece è sufficiente che il materiale resista a compressione. Ogni suo componente, concio, è solo schiacciato, mai teso e in questo fatto risiede la meraviglia delle strutture ad arco, a volta, a cupola di rotazione.
Intanto, per prima cosa, lasciamo perdere le priorità e le datazioni storiche, perché entrambe le soluzioni hanno precedenti storici in varie località e sono presenti anche presso comunità e territori non contigui, isolate fra loro. E’ come discutere su chi ha “inventato” il tetto spiovente a falde o piano…. Ci sono soluzioni simili e ovvie presso comunità più disparate e isolate, perché l’intelligenza dell’uomo è diffusa e risolve nello stesso, ovvio modo, le particolari situazioni. Ad esempio per far defluire l’acqua e allontanarla dalla fabbrica non c’è che la falda inclinata.


    



Archi naturali. La corrosione per acqua e vento lascia strutture che naturalmente si comportano ad arco (Ponte del Diavolo a Paullo e degli Innamorati ad Amalfi). Esistono molti ponti ad arco naturali e possono aver ispirato il sistema costruttivo



E così per coprire uno spazio: o si mette una trave di legno, o una lastra di pietra appoggiata ai muri o agli ortostati, o si ricorre all’arco.
Quest’ultima soluzione è diabolica (gli arabi dicono che il diavolo abbia inventato l’arco). Molti archi formatisi naturalmente sono chiamati ponti del diavolo e sono belle le leggende su questi ponti che hanno sullo sfondo la sconfitta del demonio. I romani hanno portato a mirabile compimento la tecnologia dell’arco, ma non l’hanno inventato. Resti di archi, oltrettutto realizzati senza centina, sono presenti nei territori mediorientali millenni prima di Cristo.



La figura che ho tratto da “Voci di Tecnologia dell’Architettura” ed. Tecnologos, Mantova 2006, è relativa alla voce “Tecnema e morfema”, che io stesso ho curato


Bando dunque alla ciance.
Mentre dal punto di vista visivo formale si può confondere e definire arco ogni struttura curva, dal punto di vista strutturale la differenza fra arco e trave è sostanziale: la trave trasmette carichi verticali, l’arco spinge e tale spinta può essere diversamente neutralizzata (es. con contrafforti, con tiranti, con grossi pilastri, ecc.).
Sia comunque ben chiaro che sto trattando l’argomento con categorie concettuali moderne. Sarebbe sciocco pensare alle soluzioni tecniche del passato con le nostre attuali categorie. In altre parole i costruttori nuragici non avevano sicuramente in testa la trave, l’arco, le reazioni, le sollecitazioni, il vettore forza, o il concetto di trazione per flessione…Bensì concezioni che a me almeno sicuramente sfuggono! Di certo possedevano categorie costruttive e pratici magisteri per realizzare ciò che è arrivato a noi.
Nel caso segnalato della  nicchia dell’Alvu la situazione è quella della piattabanda, cioè è un arco.
Ma nello stesso Alvu ci sono altre situazioni: c’è una pietra che appoggia sulla struttura rastremata e soprattutto un altro arco che si è naturalmente formato con un assestamento.
Poi c’è il mirabile stato di coazione dell’arco orizzontale della tholos, proprio di ogni nuraghe, che permette l’autocostruzione della cupola che ho sempre cercato di spiegare (v. “Accabadora” e “Sa ‘ena”) anche se con scarso successo.
Questa soluzione è la stessa che Brunelleschi ha adottato per la cupola fiorentina e che stupendamente è accennata nel film di questi giorni “I Medici”, quando la regia indugia con una ripresa all’interno della cupola fiorentina giunta al tamburo e fa vedere la rete di fili (la rete magica di Brunelleschi) che serviranno per tracciare gli otto archi in coazione che si alleano con la gravità per realizzare la cupola senza centina. Ma l’invenzione è di Brunelleschi, o i sardi l’hanno preceduta? Ma anche nei trulli è presente lo stesso artificio, così come negli antichi rifugi abruzzesi…Che senso ha la rivendicazione di risibili priorità?
Non è sufficiente dire che i costruttori nuragici hanno portato l’arte del costruire a secco al magistero più alto di questa tecnologia e che proprio anche in questa perizia, per i più incomprensibile, risiede la particolare cultura nuragica?
Proprio la comprensione dei sottili arcani costruttivi congelati nei nuraghi è stata la molla che mi ha spinto a scrivere “Accabadora, tecnologia delle costruzioni nuragiche”!
Povero quel popolo che ha bisogno di priorità inventive per legittimare le proprie radici culturali!
Si faccia un piccolo sforzo e si legga, anche se un po’ datato, l’illuminante libro di J. Diamond “Armi, acciaio e malattie” tascabili Einaudi, 1998 e forse si capirà meglio la questione della maglia rosa che spesso si vuol indossare per rivendicare priorità.
Il primo riferimento che mi viene in mente sulla risibilità delle rivendicazioni, è la priorità della statuaria di pietra rivendicata dai giganti di Monte Prama. Ma questo è un altro discorso!


venerdì 18 novembre 2016

Le radici della sorprendente flemma archeologica in Sardegna

di Franco Laner



                               


Il giorno 30 giugno 2014 si è rinvenuto un grande frammento di modello di nuraghe a terrazzo quadrato, noto in un altro esemplare nel Museo di Cabras




Amo la discussione. Ovviamente non leziosa o anacronistica, fine a se stessa e che mi lascia povero e sconfortato.
Fine ultimo di questa dichiarazione è un semplice fatto sul quale potrebbe essere stupido ritornare, se non fosse che esso è paradigma di questioni più generali, ostative ad una logica e rinnovata visione dell’archeologia nuragica.
Mi riferisco al ritrovamento, 2014, di un secondo capitello quadrangolare, inteso dagli archeologi isolani -da tutti gli archeologi isolani, perché nessuno ha mai smentito la definizione- come modello di nuraghe monotorre.
Non credo sia il caso di spiegare  cosa sia un modello. Perciò penso che scambiare un capitello per un modello di nuraghe presuma che ci siano nuraghi quadrati.
Così infatti si esprime l’archeologa Valentina Lionelli nel suo contributo nella summa del resoconto degli scavi di Monte Prama (Le sculture di Monte Prama, Gangemi editore, 2014):
Il tipo di coronamento quadrangolare è esclusivo del contesto di Monte Prama ed è presente con due esemplari, sebbene nel secondo si tratti solo di frammenti. L’attestazione di modelli con terrazzo quadrangolare ci spinge ad ipotizzare l’esistenza di nuraghi con terrazzi di questa forma.
In altre parole, se c’è il modello, certamente prima o poi verrà fuori un nuraghe quadrato!
Definire un capitello quadrangolare come un modello di nuraghe mi lascia basito! Impietrito, per restare in argomento!
Ancora non sono state rinvenute torri nuragiche quadrate e mai si troveranno, semplicemente perché impossibili da costruire con tecnologie murarie a secco. Con questa tecnologia costruttiva è già molto che si siano costruite torri circolari, dove appunto non ci sono angoli! E allora perché una tale strampalata definizione?
Non di meno mi lascia sbalordito chi, come il prof. Attilio Mastino (A. Mastino “Giganti. Simbolo della ricerca nell’Isola”, La Nuova Sardegna, 29 luglio 2014), storico ed ex Rettore dell’Univesità di Sassari, sia possibilista e scriva che non è da escludere che il modello possa avere una funzione architettonica come capitello. Insomma il modello di nuraghe potrebbe avere anche una funzione architettonica. Quale delicatezza diplomatica!
A fronte dunque di questa immane corbelleria forse val la pena chiedersi come sia possibile arrivare a tanto.
Perciò, in analogia con quanto si fa a fronte di casi sbalorditivi, si può tentare di ripercorrere a ritroso e trovare le radici che giustifichino la definizione  -ovvio solo in Sardegna- che un capitello sia un modello di nuraghe.
Accadimenti insoliti che ci lasciano increduli, come può essere leggere che un figlio ammazzi  i genitori -vedi Pietro Maso, criminale per aver così anticipata l’eredità-  o che qualcuno beva un intruglio con la speranza di guarire da un tumore o ancora pensare che il giorno e l’ora della nascita siano stati determinanti per la propria vita, possono essere ricondotti alla comprensione, non alla condivisione, se si ha la pazienza e capacità di ricomporre tutti i precedenti che hanno determinato l’atto inaudito e sorprendente. Sociologi e psicologi ci hanno abituato a trovare la giustificazione a ogni gesto insolito e spesso, forti di alcune condivisibili analisi, anche il giudizio viene sospeso.
Più vicino al nostro caso cito il ridicolo caso dell’ “agnello vegetale” della Tartaria.
Ancora nel 700 libri di botanica riproducevano –vedi voce molto ben documentata in Wikipedia-  la figura della “pecora-vegetale” per spiegare l’esistenza del cotone, che come tutti i filati, non poteva che avere origine animale. Questa creatura non faceva sorridere, né destare sospetto di bufala e illustri botanici, medici e letterati attestavano l’esistenza di tale balordaggine, sostenuta da narrazioni di viaggiatori e da prove.

    



Agnello-vegetale (da Wikipedia) della Tartaria. Molte altre immagini e descrizioni v. alla voce


Bisogna dunque fare un piccolo sforzo e ripercorrere a ritroso la questione dei modelli di nuraghe.
Prima del capitello quadrato, il capitello rotondo era stato definito sommità di un monotorre. Quindi se c’è un modello circolare, perché no quadrangolare?
A sua volta il modello di monotorre circolare era stato interpretato come tale visto che esistevano i modelli di nuraghe quadrilobati e i modelli dei quadrilobati assomigliavano a qualche nuraghe quadrilobato.
Perciò se c’è il modello di un quadrilobo, ci deve essere anche il modello del monotorre, oltrettutto assai più diffuso.
La definizione di modello di nuraghe di oggetti con quattro torri e una centrale, esempio S. Sperate (pietra), Ittireddu e Olmedo (bronzo), era stata coniata da Lilliu, in contrapposizione a Taramelli che li aveva collocati nell’ambito del sacro (modelli di tempio) a sua volta influenzato dagli studi di Frobenius che aveva visto nei modelli di tempio un modello cosmologico in tutte le antiche culture, orientali, africane, mediterranee.
In tutto il mondo la rappresentazione arcaica di quattro torri , divisione in quattro della terra, punti cardinali, con la torre centrale, axis mundi, è la raffigurazione cosmologica.
Gli esempi sono innumerevoli e una piccola antologia l’ho riproposta nel mio “Sa ‘ena” nel capitolo 4.3 “Nuraghe, imago mundi”.




Modello in pietra di nuraghe monotorre da Cheremule, loc. Sas Animas, Luisanna Usai


Pertanto, anche se non pretendo che il mio succinto viaggio a ritroso sia condiviso, si arriva in Sardegna a interpretare ogni oggetto colonnare, un basamento di colonna, un capitello, un qualsiasi cilindro, come modello di nuraghe. Ci sta dunque anche un capitello quadrato!
Ci sta anche la reazione difensiva dell’archeologo di turno che si meraviglia di essere criticato solo per aver proposto una estensione -pur lui coerente- dei modelli di nuraghe!
Parafrasando la favola di Oscar Wilde“L’amico fedele”, dove il perfido e ricco mugnaio Ugo, partendo da un perverso senso di sé e della sua generosità, riesce a sostenere la sua alterazione, infliggendo al povero contadino Hans ogni angheria e sopruso fino a farlo morire.
Insomma, assunto un preconcetto, si rischia di coniugarlo con altri preconcetti fino ad arrivare a conclusioni ridicole e insostenibili. Questo è quello che è successo nell’archeologia nuragica, impostata su una visione sbagliata di quella civiltà (nuraghe fortezza madre di ogni sciocchezza) ed è stata perseguita acriticamente, conformisticamente  e anche con meschini atti di servilismo accademico, fino ad arrivare a conclusioni insostenibili, ridicole ed inaudite, ma giustificabili dalla sommatoria di incoerenze successive, fino a chiedersi, sgomenti, come si possa ammazzare i genitori per godere subito dell’eredità.
Sostenere oggi che i cosiddetti modelli di nuraghe siano modelli cosmologici e che nulla hanno a che vedere coi nuraghi quadrilobati, se non dal punto di vista morfemico, è ritenuto una boutade alla Laner, assolutamente non condivisibile, proprio perché non si riesce a staccarsi dall’ ipse dixit di lilliana dottrina, nonostante che nessun archeologo al mondo -Sardegna ovviamente esclusa- non si ponga nemmeno il problema se un capitello quadrato possa essere qualcosa di diverso da un capitello e  tantomeno un modello di nuraghe monotorre.
A meno di non pensare che la Sardegna sia fuori dal Mediterraneo, culla di tutte le civiltà, e che la Sardegna non abbia contribuito a far crescere, recependo, elaborando, restituendo, il progresso culturale e civile, senza inutili preconcetti di risibili priorità.



mercoledì 31 agosto 2016

Dulcis in fundo. Le statue sopra le ciste sepolcrali

di Franco Laner

Non c’è prova che le statue siano state progettate per essere poste sopra i pozzetti di sepoltura.
Né ci sono prove che, ammesso che siano state realizzate, siano effettivamente state poste sopra le sepolture.
Mancando questa correlazione, anche la cronologia dell’avventura scultorea di MP è aleatoria, in quanto la stima prende come riferimento la data degli inumati.
Qualche indizio ha indotto gli archeologi a pensare che tombe e statue fossero coeve: le dimensioni della pietra di copertura simile al basamento delle statue, la  vicinanza fisica di pezzi di statue e ciste, schegge di statue nelle ciste (?) l’uso della stessa pietra, ossa di giovani e statue di giovani. Statua come segnacolo dell’eroe che sta sotto. Tutti indizi, non prove.
Ho calcolato che il peso di una statua, basamento compreso, sia attorno ai 9-10q, circa 1/3 del blocco da cui sono state ricavate.
Immaginiamo di porre una statua sopra la pseudo-cista n. 5 (pseudo forse perché la cista ha solo due  ortostati e non quattro). Mi riferisco al chiaro rilievo Bedini riportato in “Giganti di pietra” , ed. Fabula, Cagliari, 2012, pag.190 (fig. 1). 


fig. 1 Rilievo Bedini delle ciste di sepoltura nello scavo del ’75. Sulla sinistra del lastrone della tomba 5 si vede l’ortostato sottile della cista 4 e quello più spesso. Caricati si abbassano in maniera differenziata e non avrebbero potuto  essere caricati coll’ulteriore peso di una statua di 10q, sopportando già con difficoltà il lastrone di copertura

La descrizione dell’archeologo riporta le dimensioni del lastrone in opera che mi consentono di dare una scala al disegno e stimare in 400kg il suo peso (Vxps=2x8x11,5x2.2). Mica poco!


fig 2 Lastrone della tomba 5 sempre dello scavo Bedini. Nell’ombra si vede il sottile ortostato della cista 4. La qualità della superficie del lastrone non mi sembra adatta alla sovrapposizione del piedistallo della statua. La sovrapposizione di due lastre non sufficientemente levigate comporta la concentrazione di carico nei picchi di contatto, dove si scarica il peso e l’immediata rottura del lastrone della cista per trazione da flessione.

Aiutandomi anche con la foto dello scavo (fig. 2), vedo che l’ortostato della cista 4 è circa 5cm di spessore, su cui appoggiava il lastrone, mentre l’altro appoggio è il doppio. Questa diversità di spessore degli ortastati comporta, nel tempo, abbassamenti differenziati e fuori piombo che la sezione longitudinale delle 10 ciste puntualmente registra e soprattutto si nota la non planarità dei lastroni orizzontali di chiusura, condizione minima per funzionare da basamento delle statue.
In pratica la struttura della cista è di mera compartimentazione e protezione del morto e ha “fondazione” appena sufficiente per il lastrone di chiusura.
Gli ortostati non appoggiano sulla lastra fondale di deposizione, che è molto più piccola, ma direttamente nel terreno.
In pratica non ha proprio fondazione.
Facciamo il passo successivo.
Supponiamo di sovrapporre  ai lastroni le statue che col loro piedistallo pesano 1000kg (10q).
Penso che gli ortostati di cista non avrebbero facilmente retto il nuovo carico sovrapposto, considerato che sono già in crisi per il solo lastrone. Soprattutto non sarebbe stata garantita l’orizzontalità del basamento su un supporto con cedimenti differenziati. Nemmeno metterei la mano sul fuoco sulla resistenza dei lastroni di copertura alla sovrapposizione di un così grave carico, specie perché la superficie di contatto non è liscia e quindi il carico non si distribuisce, bensì si concentra pericolosamente nei punti di contatto e poi alcuni lastroni si sono fessurati senza carico sovrapposto. Insomma l’ipotesi delle statue sopra le ciste di sepoltura non ha molte chances, semplicemente perché non c’è segno di opera fondale o altra attenzione atta a sopportare i carichi delle statue.
Oppure c’era l’idea di rinforzare le ciste nel momento in cui le statue sarebbero state poste in opera: ipotesi che non faccio mia!
Faccio invece mia, come altre volte espresso, che per la datazione bisogna dar ascolto non alle biotatazioni degli inumati, che non sono in correlazione con le statue, bensì alle relazioni dei due esperti scultori e storici della materia, Mondazzi e Rockwell, che prendono a riferimento gli strumenti di scultura individuati nella lavorazione e l’epoca in cui la loro presenza è comprovata, ovvero fine VII secolo, inizio del VI.
E se così fosse, postilla finale, l’aver dato per scontato che inumati e statue fossero coevi  e non con tre secoli di differenza, fanno sorridere le trecce della ricostruzione in 3D degli antropologi, ispirati dalle statue. A meno che nel DNA ci sia l’indicazione sulla lunghezza dei capelli…
Ancora, per completare il rompimento di armonie che ho inflitto in agosto, non pensavo che dal teschio lungo e stretto dell’inumato venisse fuori un florido e tarchiato Sioux (rubo l’immagine a Francu Pilloni)!





fig 3 Ricostruzione dell’inumato di MP degli antropologi dell’Univ. di Sassari

domenica 28 agosto 2016

Nuove acquisizioni. Modelli di nuraghe trovati fuori dalla Sardegna

di Franco Laner

Con oggi, fine agosto, finiscono le mie vacanze. Sono rimasto a casa, complice l’estate non afosa, in ozio!
Fra le mie vacanze, è stata una delle migliori. Nel rispolverare temi nuragici, complice l’ospitalità nel blog di Mauro, non vorrei essere stato un tormentone. Comunque per ora basta.
Sicuramente non appare, ma ho una particolare affezione per la Sardegna. Tuttavia ciò che ho scritto è solo una tiratina d’orecchi anche se non ne sono legittimato. Ma come scrissi a Lilliu che rimproverava e non gradiva gruppetti di scellerati, autodefinitesi archeoastronomi, che pullano senza discernimento sui nostri nuraghi, (si capiva nell’articolo che si riferiva a Mauro Zedda, Mauro Maxia e sottoscritto) si consideri che come Venezia, anche la Sardegna è patrimonio dell’umanità  pertanto, né Venezia è dei veneti, né la Sardegna dei sardi. Di leghismo già bastava e avanzava quello veneto. Mi  arrogavo dunque  il diritto di cercare, in Sardegna meglio che altrove, le mie origini umane.
Per me la storia archeologica sarda andrebbe riscritta e non sarebbe difficile, basterebbe smetterla con nuraghe-fortezza, madre di ogni sciocchezza, ed assegnare il nuraghe alla sfera del sacro.


Fig. 1 Statuina dell’ arte Vinča, ritrovata presso Belgrado. La dea ha le sembianze dell’uccello. Simboli a V e chevron sono presenti nella bellissima statuina neolitica.

Il recente ritrovamento in Serbia di una singolare composizione della dea uccello (1) consente di ampliare l’area del simbolismo cosmico quadripartito
Già la presenza di modellini cosmologici era stata segnalata in diverse località africane dal grande etnologo Leo Frobenius nel suo libro sulle civiltà africane del 1950 (2).


Fig. 2 Da “Sa ‘ena”, Laner, 2011. Modello cosmologico africano.


Fig. 3 Da “Sa ‘ena”, Laner, 2011. Altari, troni ed altri oggetti ripetono l’immagine del mondo diffusa presso tutte le culture arcaiche, africane, orientali e mediterranee.

Anche nel Convegno Archeologico in Sardegna del 1926 il tema fu trattato diffusamente. Peccato che Lilliu non fosse stato ammesso, non tanto per la sua giovanissima età –a 12 anni ne sapeva quanto bastava– ma era ben nota la sua posizione di intransigenza sulla priorità mediterranea del modello di nuraghe.
Ora l’indagine è stata estesa all’Isola di Pasqua per l’intrigante presenza di un omphalos (axis mundi) molto simile all’omphalos di Monte d’Accodi, archetipo –secondo Mircea Eliade– delle rappresentazioni cosmologiche  in tutto il mondo, con probabile origine in Medio oriente (v. rappresentazione mandalica).


Fig. 4 Da “Sa ‘ena”, Laner, 2011. Omphalos di Monte d’Accodi e Isola di Pasqua. Stessa rappresentazione cosmologica. Considerati i luoghi e i tempi, e quindi l’impossibilità di contaminazione emulativa, è legittimo parlare di comune punto d’arrivo spirituale, puro frutto del cervello umano. O vogliamo discutere chi l’abbia fatto per primo? L’idea di maglia rosa lasciamola al valoroso Aru.

I modellini di nuraghe, come quelli di Monte Prama, confermano, qualora ci fosse bisogno, la capacità costruttiva nuragica di riuscire, sfidando la gravità, ad uscire a sbalzo in sommità della torre costruita a secco, quando già un abile costruttore è in difficoltà a costruire un paramento inclinato verso l’interno. È del tutto evidente che con conci non squadrati, appena sbozzati a cuneo non è facile andare in altezza seguendo la perpendicolare (equilibrio instabile). La prima condizione è quella di allontanarsi dalla perpendicolare e costruire il paramento inclinato verso l’interno, in modo che la struttura si “chiuda”. Basterebbe provare ad uscire a sbalzo e si capirebbe, se non si riesce ad intuire, l’improponibilità statica. I mensoloni proposti per uscire a sbalzo garantiscono si e no di resistere al peso proprio.
Un’osservazione sui modelli di nuraghe, come quelli di MP. Essi terminano col possente aggetto e con un cono centrale sul terrazzo. Quest’ultimo, secondo gli archeologi, rappresenta la copertura della scala, oggi non più presente nei nuraghi, perché probabilmente costruita di legno e quindi deperita. Forse la copertura serviva affinché la guarnigione militare non si bagnasse in caso di pioggia e a far la guardia riparati dal caldo estivo e dal freddo invernale.
Io non ho visto molti nuraghi, ma quelli in cui sono salito, la scala-rampa elicoidale usciva sul bordo del terrazzo e mai una usciva al centro.
Sento la facile critica: non puoi pretendere che un modello sia preciso, vedilo anche con la deformazione e stilizzazione artistica. È ovvio ad esempio che la torre centrale non ha le proporzioni della torre del nuraghe e anche l’aggetto è una visione enfatizzata, così come una copertura eccentrica avrebbe danneggiato la simmetria. Ok, meno convinto di prima!
Infine vorrei però capire cosa si intenda per modello di nuraghe:
a)      Modello come maquette che serve da riferimento per costruire un nuraghe. Per semplificare,  il progetto costruttivo del nuraghe quadrilobato, rappresentato non sul piano, es. con carta e matita, ma tridimensionale e in scala.
b)      Modello come ciondolo, ninnolo, ricordino per ingraziarsi i suoceri (come oggi la basilica di S. Pietro miniaturizzata nella sfera di vetro e, quando la capovolgi, nevica) desunto dal nuraghe quadrilobato con torrione centrale, appunto la sede principesca (Lilliu, 1981)
c)      Oggetto di culto della civiltà nuragica, simbolico e votivo.
Più probabile la terza, che lascia però scoperti altri interrogativi. Nella concezione di nuraghe-fortezza, maggiormente diffusa fra gli archeologi di ieri e oggi, con qualche concessione al pluriuso fino all’avanguardia vispa che concede il cambio  di destinazione (ovviamente dietro congrui oneri urbanistici) mi viene difficile la correlazione militare con la sfera del sacro e accettare che il modello di nuraghe sia modello di una fortezza. Nei modelli di nuraghe conosciuti, in bronzo o pietra, nessuno ha indicata la porta. Particolare insignificante? Non tanto visto che il nuraghe ne ha una sola e che particolari forometrici sono evidenti nelle facciate dei modelli. Ma nessuno ha giustamente indicato l’ingresso, perché non si entra, si è nel cosmo
Il modello è dunque un’ icona del cosmo, coi quattro pilastri posti ai punti cardinali, che sostengono il cielo, la volta stellata e al centro, l’axis mundi, collegamento fra cielo e terra, da cui scende la divinità o sale lo sciamano (M. Eliade).
Non è solo esplicativa dell’universo in cui l’uomo è inserito, ma è una immagine bellissima, poetica, sacra, che ha il potere di rassicurare l’uomo che cerca un ordine superiore e lo concretizza nei modelli universalmente raffigurati e condivisi.
Ma non dagli archeologi di Sardegna.
Una buona soluzione sarebbe quella di chiamarli modelli cosmologici e assegnarli alla sfera del sacro e non militare e così cominciare ad inserire la civiltà nuragica nel resto del mondo.
Altrimenti continuerò a pensare che, magari inconsciamente, si faccia il massimo sforzo nel tentativo di autoescludersi dal resto del mondo, dando la colpa agli altri.

venerdì 26 agosto 2016

Aborto naturale di una gestazione gemellare. Eziologia dell’insuccesso di due statue a Monte Prama*

 di Franco Laner



Uso il lessico medico per un caso di insuccesso. Pertanto la parola aborto sta a significare l’interruzione scultorea delle due statue gemelle venute alla luce durante la ripresa degli scavi nel sito di MP nel 2014. L’interruzione della gestazione è stata  probabilmente causata da una gravidanza patologica, quindi l’assegnerei ai parti naturali e non terapeutici, quelli, per intenderci, praticati artatamente.


La grave patologia,  che colpisce soprattutto i marmi di poco pregio scultoreo, come gran parte delle rocce calcaree, si manifesta non appena siano sollecitate a trazione. Resistono molto bene alla compressione, ma alla trazione, che si ingenera quando sono inflessi, la resistenza è minima. Tale resistenza si abbassa soprattutto se prima di essere sollecitato l’elemento è stato percosso iteratamene da colpi di subbia inferti durante la fase di sbozzatura, perché si creano microfessure che favoriscono l’innesco dell’energia di frattura.
In compenso sono facilmente lavorabili.


Le due creature sono state trovate per terra. Supine. Molti indizi fanno pensare che non siano mai state in piedi, anzi, proprio al tentativo di metterle in piedi per procedere alle finiture, ascrivo la causa del collasso delle parti più sottili e quindi deboli, perché si sono create sollecitazioni di trazione. Comunque, ma col senno di poi è facile da dire, poco male: sicuramente non sarebbero potute mai stare in piedi, a meno che non fossero state provviste di stampelle o altre protesi mimetiche**.
Anche l’eventuale trasporto o collocazione definitiva non sarebbe stata facile, a meno di non imbracare come un salame la creatura per evitare la flessione e quindi la trazione.
Non ho altro modo per spiegare la vulnerabilità che con la scheda allegata.
Con alcune semplificazioni e conteggi, lo schizzo serve per quantificare l’ordine di grandezza della vulnerabilità. Niente infatti, meglio dei numeri, consente di valutare e quantificare l’assunto, pur da tutti facilmente intuibile, visto lo sbilanciamento del bubbone. Ma non cambia molto nemmeno per gli arcieri, pugilatori e guerrieri. I problemi per queste tipologie sono diversi, perché arti e oggetti si discostano troppo dal tronco. I due gemelli invece, se non fosse stato per lo sbilanciamento abnorme dello scudo avvolto, potevano aver successo, perché sono colonnari, senza parti a sbalzo. Lo scudo avvolto è così definito perché i gemelli molto assomigliano al bronzetto di Vulci, trovato nella grotta di Cavalupo. Anche in questo caso penso che la terminologia serva per identificare subito di quale pugilatore si tratti, non quello dello scudo in testa, bensì quello con lo scudo avvolto.
Mi auguro che gli schizzi della scheda siano intelligibili e anche i fenomeni schematizzati e quantificati. La didascalia è un “romanzo”: serve anche a me per  ricordarmi i passaggi. Il tutto suppone che la statua sia stata ricavata da un unico blocco calcareo, piedistallo di base incluso. Si potrebbe pensare ad altri artefici per l’attacco a terra, visto che i gemelli non hanno piedi, ma anche gli altri altrettanto disgraziati fratelli hanno avuto le caviglie o le gambe traumatizzate all’attacco col piedistallo durante la gestazione e non vedo ragione per pensare che i gemelli non avessero lo stesso attacco a terra!
Si fa strada una facile ipotesi: se non potevano stare in piedi, o comunque sarebbe stato un equilibrio precario e instabile, non sono mai state abbattute perché non sono mai state messe in piedi. 
Di solito infatti non si fa il corredino all’aborto. Si prova caso mai a rifare la creatura. Ma se poi la maledizione si invera ed itera, il progetto di avere discendenza viene accantonato!
No, no. Qui di pezzi finiti ne sono stati trovati e molti! Scusa, pezzi? D’accordo. Ma una statua finita intera? Se sono un bravo scultore e ho bisogno di altri (direi bottega, che è un concetto moderno, ma rende) che mi aiutino a fare più di una statua di diversa tipologia devo insegnarlo. Per far ciò faccio vedere come deve venire scolpita una testa, la finitura di un torso, la mano che tiene l’arco e altri particolari. Forse c’era bisogno del consenso del/dei committenti e i particolari andavano mostrati.
Ci provo con un particolare difficile, un arco. Viene, ma cavoli, addio alle proporzioni, una corda sottile  me la sogno…e così la spada. Non parliamo dello scudo in testa. Togliere tutto quel pieno per lasciare il sottile scudo è impossibile. E se facessi lo scudo a parte e poi glielo attacco? Con cosa? Avessi almeno un trapano: bucherei il corpo e il braccio, caccerei poi un perno di bronzo nei buchi e bloccherei il tutto col piombo. Il piombo c’è, ma il trapano no!
Oppure? Senti, ne ho piene le scatole, o mi lasciate fare delle varianti ai modellini che mi mostrate, o ci rinuncio. E’ impossibile fare una statua uguale al bronzetto!
C’è un’altra questione, veramente carogna. Nemmeno Galileo ha fatto bella figura ragionando nei “Dialoghi…” di proporzionalità fra carichi e dimensioni strutturali! Il problema va sotto il nome di “cambio di scala” e fra bronzetti e statue non è facile passare da 1 a 10, mantenendo le proporzioni dirette, specie con un materiale come la pietra che ha proprietà assolutamente diverse dal metallo.
Un particolare per tutti: almeno un piede delle statue fosse stato messo più avanti all’altro, anziché entrambi in linea. Macché, piedi con o senza sandali, sono tutti in linea. Le masse, rispetto al baricentro, avrebbero avuto un pelo d’inerzia in più. Coi piedi in linea reggono meno ad eccentricità frontali o tergali. Mentre è più difficile ribaltare la statua con spinte laterali.
Il progetto, bellissimo progetto, di realizzare in grande scala le figure dei bronzetti, è stato anche la causa dell’insuccesso.
In tutto ciò c’è del male? Assolutamente no! Ogni progetto importante trova ostacoli. Spesso si superano, con la perseveranza e con nuove idee. Cos’è il progresso se non una storia di gradini sulla cui pedata qualche volta si è costretti a fermarsi?
Non si sono trovati, dopo l’insuccesso, altri tentativi per superare le difficoltà, invero insormontabili se si ci ostinava a non cambiar strada.
La storia della statuaria di MP non ha un precedente e nemmeno un conseguente. Manca una “scuola” che pure c’è per la bronzettistica
La batosta e lo spreco di risorse sono stati tali che nessuno ha voluto riprovarci. E magari sono cambiate anche le condizioni socio-politiche ed economiche.
Penso che non sarebbe stato comunque facile superare le difficoltà, nemmeno se avessi avuto il marmo pario, con cui sono stati realizzati i kouros, statue di giovani anche più grandi di MP (fino a 6m) per le necropoli greche più o meno coeve –VI-VII-VIII secolo a.C. con le statue di MP–  o l’abilità di Fidia o Prassitele. Nemmeno Canova avrebbe potuto col biocalcare gessoso di MP fare una copia in scala 1:10 dei bronzetti. Invece l’avrei potuta fare anch’io, ma di metallo! O con un bel sostegno in più e con sbalzi molto più contenuti.
Fuor di favola: le statue di MP sono state un episodio, senza un prima e senza un dopo storico in qualche modo documentato. Si possono rintracciare precedenti di statuaria in Sardegna, qualche testa taurina, una stele aniconica, ma lontanissimi parenti del nostro oggetto. Il progetto era ambizioso, convincente e pensare ad una necropoli, ma anche solo ad un tempio adornato con alcune statue di pietra, con la carica emotiva, storica, eroica che i bronzetti hanno in sé era non solo lecito, ma oserei dire doveroso, per l’epilogo del nuragico.
Viene allestito il cantiere, ci sono le maestranze arrivate da..?, si lavorano le pietre, per le colonne e capitelli, conci per basamenti e muri; i più bravi sbozzano le statue, alcuni si esercitano sulle parti più delicate e a sbalzo, ai lavori di ornato e finezza. Cominciano le difficoltà. Ogni piccolo successo fa i conti con disastri. I committenti mugugnano, sospendono  le provvigioni pattuite. Il cantiere è abbandonato.
Qualcuno si porta via i conci finiti e utili, qualcun altro fa pulizia e ammucchia in discarica l’inservibile, anzi rompendo i pezzi più grossi: pesano meno. I terreni vengono “spietati” e resi idonei alle semine…
Ed è lo stesso aratro che resuscita il già sepolto. E ogni simulacro, scheletro, rinvenuto, compiuto o feto, reclama spiegazioni che spesso sono impossibile da soddisfare***, perché il caso, grande romanziere, irrompe nello scorrere tranquillo del tempo, spezzando, con le statue, un sogno di rappresentazione di una epopea, quella della civiltà nuragica.

note
* Le ho viste solo in foto. E le foto fregano, perché e troppo facile vedere quello che vuoi vedere
** Ho sintetizzato,  giornalisticamente, il mio pensiero su MP frutto di una indagine che sto completando. Ognuna delle “sparate” sopraesposte hanno un corredo esplicativo dettagliato, logico e consequenziale con un metodo severo che mi sono proposto, proprio perché ho chiara la percezione della generale non condivisione del risultato. Partenza e arrivo in salita.
*** Ho necessità di rivedere le statue, sia del museo di Cagliari, sia di quello di Cabras. Non posso più ragionare sulle foto!

giovedì 25 agosto 2016

Dubbi non fugati

di Franco Laner

Dopo le perplessità sollevate dal confronto fra il reperto di scavo del ’79 e la sua collocazione nella ricomposizione ora esibita a Cagliari, alcune precisazioni dei blogger non permettono risposte certe.
Il contributo di R.S. -grazie!- mi pari confermi che manchi qualcosa rispetto al reperto, soprattutto fra lo scudo e la testa la distanza è minore.


Fig. 1 Si vede il moncone del braccio, ma il frammento di scudo è piccolo rispetto al frammento di scavo



Fig. 2 La foto mostra la rispondenza fra reperto e ricomposizione di fatto avvenuta, come mostra la fig.1. Rimangono perplessità forti che cercherò di fugare con un nuovo sopralluogo. Comunque questa documentazione sembra voler prevenire sciocche illazioni.


Mentre la gentile segnalazione di Orni Corda è più intrigante pur lasciando aperte domande, ancora sulla minore distanza fra testa e scudo e il pezzo di scudo della foto mi pare molto più corto di quello dello scavo, che oltrettutto poco assomiglia a quello sovrapposto.
Non rimane che un nuovo sopralluogo al museo di Cagliari.
Invece questo modo di indagare mi fa scoprire altre foto da verificare. Sempre sul pugilatore, a Cabras però, noto un brusco cambiamento di direzione nell’apposizione dello scudo, Nella foto di Li Punti il frammento di scudo del gomito porta ad un raggio di curvatura molto accentuato se si vuol far passare lo scudo sopra la testa. Mi sembra che riducendo l’angolo fra frammento e scudo si sia potuto ricostruire uno scudo con curvatura blanda.
Non è però questa l’indagine che sto conducendo, anche perché le foto spesso fanno vedere quel che vuoi vedere. Il tema di ricerca che mi sono dato è verificare se mai le statue siano state messe in piedi. Durante la gestazione c’è stato un aborto fisiologico. Il feto non è arrivato a compimento e la creatura non è mai stata distrutta, perché rotta prima. Bellissimo il progetto per la necropoli, coi bronzetti ingigantiti, ma un inghippo ne ha negato l’esito e il cantiere è stato abbandonato.
I dati di ricerca mi permettono di anticipare queste conclusioni.
In questo percorso di ricerca ogni tanto inciampo in qualche difficoltà, che supero non prestando che pochissima attenzione alla risibile ricostruzione delle varie tipologie di guerrieri e alle forzature messe gratuitamente in atto per offrire ai turisti di bocca buona qualcosa di verosimile e uguale ai bronzetti.
                                    



Fig. 3 Cabras. Ci sono due diverse direzioni di curvatura dello scudo. Nel pugilatore ricomposto -che male è venuto!- si vede, nel gomito come lo scudo di resina cambi di direzione rispetto al frammento di scudo ancora libero. Nella foto di Li Punti si intuisce che per passare sopra la testa lo scudo avrebbe dovuto avere un raggio di curvatura accentuato e non blando.

lunedì 22 agosto 2016

Chevron amari


di Franco Laner

-Cosa intendi per chevron?- mi chiede fra gli altri Giorgio Pala, egregio amico sardo (anche egregio meriterebbe spiegazione per capire bene perché uso questo aggettivo). - Hai presente il logo della Citroen? Quello!-
Ma con gli chevron della simbologia universale a partire dal paleolitico, non ha parentela. Il sig. Citroen lo usò per un suo brevetto di ruote dentate a V e rimase come logo per le auto che costruì col fratello.
La signora degli chevron è Marija Gimbutas, lituana, docente negli Usa, con l’altrettanto grande J. Cambell. Il suo libro “Linguaggio della dea”, Longanesi, 1992 credo che ci sia nella biblioteca di ogni archeologo, come io nella mia ho la copia anastatica di Palladio.


fig 1 Da Gimbutas. Simboli gemmati dall'archetipo V tipici della dea madre. La presenza del simbolo rielaborato nella cultura di Ozieri (3800 a.Cr.) da ceramiche di Monte d'Accodi e da Conca Illonis.

Il segno primigenio dello chevron è la V, segno pubico che poi si articola con varianti: si chiude a triangolo, si moltiplica a zig-zag, si sovrappone appunto a chevron, è il simbolo per eccellenza della dea uccello e dea madre. A questo segno il libro dedica i significati, nelle diverse civiltà primitive. La Gimbutas, con una visione davvero globale, riporta una figura della cultura di Ozieri 3800 a.Cr., dove due V simmetriche formano figure danzanti femminili (1).
Ho, non penso di sbagliarmi troppo, un punto fermo di approccio all’arte e all’architettura sarda, non solo del passato.
Sardegna, isola al centro  del lago mediterraneo e sulle cui rive si sono formate le grandi civiltà, è crocevia obbligato. La Sardegna è laboratorio: recepisce, rielabora e spesso esporta ciò che inevitabilmente le sbatte contro, con aggiunzioni e creatività, in continuità col  proprio genius loci.
Esempi di laboratorio, come le scene dipinte su ceramiche della cultura di Ozieri con la V protagonista e declinata con singolari interpretazioni, ce ne sono a iosa.
Accenno al tumulo di sepoltura diffuso, gonfiore della madre terra pregna, nel Mediterraneo, come le navetas delle Baleari, che in Sardegna diventa la Tomba di Giganti, con la straordinaria aggiunzione dell’esedra e della stele col simbolismo inferi-terra-cielo.
Ancora? Saccargia, splendida rielaborazione del Romanico toscano.
Torniamo agli chevron, simbolo di fertilità, di procrezione, di vita. La Gimbutas raccomanda di non intendere la V e combinazioni come decorazione: sarebbe riduttivo  e privo di inferenza archeologica. Il segno è intriso di sacro e raffigurato su tutto ciò che afferisce al sacro, ai riti e alle cerimonie.
Il segno, specie nella sua declinazione a zig-zag e chevron, è presente nei frammenti di Monte Prama e sui coronamenti delle cosmologiche torri dei cosiddetti modelli di nuraghe (2).


fig. 2. Da Monte Prama. Coronamento di torre centrale con iterazione della simbolica V.

Riuscirò prima o poi convincere gli archeologi sardi di non chiamare così questi simboli, altari, che sono modello del cosmo, icona, mandala, da sempre in tutto il mondo, come in Africa, medio ed estremo Oriente, ecc.?  Si potrà ogni tanto, uscire dal provincialismo che caratterizza la loro ricerca nuragica? Si leggano gli atti del convegno internazionele di archeologia in Sardegna del 1929 dove il modello appartiene al sacro anche per Taramelli (! sì quello del nuraghe fortezza, gran maestro di Lilliu sul nuraghe fortezza) dove i bronzetti (Ittireddu) sono interpretati come modello di  tempio, che si costruisce in armonia con la visione cosmologica.
E una volta per tutte. Se i nuraghi sono fortezze, perché farne un modello?
Arriviamo al dunque e vorrei che si condividesse, almeno per un istante, lo scoramento e il disappunto nel leggere la didascalia ad una immagine della sommità della torre con V ripetute in un libro collettaneo di archeologi sardi su Monte Prama, che recita, a commento dei segni sul coronamento: "La decorazione triangolare verosimilmente indica il parapetto in legno"
Ahimé! Amarezza e dolore, anche fisico, mi pervade e svuota.
Mi fermo qua. Potrei a lungo discutere se i nuraghi abbiano mai avuto parapetto, ma intuisco che non interessa a nessuno,  trasformare però un simbolo sacro in un parapetto, mi annichilisce. Nella decorazione della banda di un arciere, spero si veda nella fotocopia, le righe orizzontali parallele sono interrotte da V iterati.
Sono parapetti? Cosa si teme che caschi di sotto?


fig. 3. Egregia lavorazione della banda, stola, di un arciere con evidente l'iterazione del propiziatorio simbolo a V fra le righe orizzontali.


sabato 20 agosto 2016

Frammento, chiave di logica

di Franco Laner


Nell’articolo precedente Esercizio di Logica, a riguardo della fig. 4, lasciavo al lettore l’osservazione e il giudizio di due sequenze di foto degli scavi del ’79 di MP. Le risposte, non molte, sono tutte maligne e tendono in conclusione a proporre di scambiare la sequenza: il primo scatto è quello di destra e il secondo quello di sinistra.
Tutti però premettono che non è facile perché distanza e angolazione sono diverse…
Ipotizziamo che la sequenza sia quella proposta in fig. 4 del precedente post.
Nell’avanzamento dello scavo, le foto provano:
-         che la testa del pugilatore emersa sia quella tutt’ora esibita, intatta.
-         che sopra la testa ci sia lo scudo, come recita la dida (v. fig. 4 precedente post)
In sintesi le foto ci dicono che le illazioni, i sospetti, financo il ridicolo, sono cattiverie e stupidità.



fig. 1 La didascalia degli archeologi dello scavo del ’79 recita come sia ben visibile il frammento della scudo sopra la testa del pugilatore, emersa intatta, come mostra la foto a destra. Nemmeno del raccordo fra testa e scudo c’è traccia

Osserviamo bene il frammento di scudo della fig. 1 posto sopra la testa. Esso è leggermente curvato e all’estremità curva improvvisamente. È  un frammento piuttosto caratterizzato, difficilmente confondibile. È anche piuttosto grande, come la testa del pugilatore, ma non lo vedo inserito né nello scudo del pugilatore di Cagliari, sopra la sua naturale testa, né sopra quello di Cabras.
Dov’è andato a finire? Non c’è al suo logico posto come rinvenuto. Ho poche foto dello scudo da sotto o sopra, ma per quelle che ho trovato, es fig. 2, il frammento non è stato collocato.


fig. 2. In questa foto (prof. Mondazzi) non c’è il frammento dello scavo del’79. Nemmeno il frammento è stato messo nello scudo del pugilatore di Cabras

Le deduzioni  della sequenza di scavo sono:
  1. le due foto sono strumentali per dimostrare l’autenticità della testa appena scavata e della certezza dello scudo in testa al pugilatore.
  2. La testa è autentica e la dida dello scudo in testa è stato un errore
  3. La testa è stata messa “in posa” e il frammento dello scudo è andato perso, o dimenticato o si è appurato che non fosse un frammento di scudo
  4. è tutto autentico, sia foto, sia ricostruzione, secondo le ipotesi confermate di Lilliu e C.
Ognuno ovviamente può scegliere. Io propendo per la deduzione 1.
Mi riservo di verificare de visu i due scudi e se le foto non mi hanno fatto vedere il frammento effettivamente collocato, specie se i voli Treviso-Alghero saranno ripristinati. Certe cose sarde sono davvero incomprensibili. È lapalissiano che Ryanair per il turismo sardo conta mille volte più che l’assessorato al turismo della Regione, che ancora sta pensando come valorizzare il patrimonio archeologico dell’Isola


sabato 13 agosto 2016

Esercizio di logica


di Franco Laner

L'esercizio è un'applicazione della metodologia indicata nel racconto di F. Pessoa "Il furto della Villa delle Vigne" in cui il grande scrittore e poeta portoghese inaugura un metodo di indagine per individuare il ladro.

Domanda.
Come mai le teste di pugilatori esibite a Cagliari e a Cabras, dello stesso calcare, trovate nello stesso sito, si mostrano differenti nel grado di finitura e conservazione?

Il fatto.
Durante gli scavi dal ’74 al '79 vengono alla luce teste e altri numerose parti di statue. Più di 5.000 frammenti, in parte ricomposti a Li Punti ed ora sciaguratamente esposti in parte a Cagliari e in parte a Cabras. Eppure Salomone ci insegnò che la divisione in due del bimbo vivo non avrebbe giovato a nessuna delle due madri.
Due teste, una in particolare, si presentano molto definite, fresche e “levigate”, altre diversamente incerte con segni di degrado, corrosione, alterazione chimica e offese meccaniche dovute alla lama dell’aratro.
Non ci sono ragioni per pensare che siano disetanee. Ovvio, non parlo di anno, bensì di lustri o secoli.


fig. 1 Teste di Pugilatori. La prima è la più nota. La seconda anche è ben conservata, mentre le altre sono degradate.

Ipotesi.
L’ipotesi più  accreditata è che le due teste meglio conservate abbiano convissuto con un microambiente non aggressivo, mentre le altre si sono trovate in un ambiente particolarmente aggressivo.
E’ questa una conclusione, forse logica, forse inevitabile. Tuttavia non è un fatto. Non è certezza, pur possedendo un alto grado di probabilità. Chi oserebbe pensare che non sia così? Chi mai può dubitare che i reperti non siano autentici?
Ci sono altre ipotesi che possono spiegare il fatto anche se con minore probabilità?
Ne avanzo una con bassissime probabilità, contraria a quella accreditata, estrema.
Ci saranno allora ipotesi intermedie fra quella accreditata e quella contraria.
Due estremi presumono infatti posizioni intermedie.
Come ipotesi contraria assumo dunque che le due teste siano false, scolpite recentemente (40 anni fa circa) da uno scultore.
Molto vicina a questa ipotesi estrema e contraria, ci sta l’ipotesi che le due teste siano state semplicemente ritoccate e rimesse “in bella”. Quest’ultima ipotesi ha maggiori probabilità, perché ha un grado di estremità minore dell’ipotesi del falso.
Ovviamente se uno scultore portasse le prove di essere l’autore del falso, il ragionamento finirebbe.
Fra l’ipotesi accreditata e la contraria  ("ritocco") ci possono essere altre ipotesi intermedie, che prenderò in considerazione solo dopo aver rigettata la nuova ipotesi estrema.
La levigatura, che rende liscia porzioni delle teste se è stata eseguita recentemente, deve avere una certa profondità e per quanto “il restauratore” sia abile, cancellerà nella levigatura ogni elemento in rilievo, rendendo la superficie liscia come un biliardo.
Lo scultore e storico, prof. Mondazzi di Torino scrive -dic. 2015- nella sua perizia sulle statue di MP (vedi ad esempio il testo sul blog di Montalbano) che trova perlomeno strani i segni evidenti al posto delle trecce nella testa del pugilatore più esibita. Perché mentre in tutte le altre teste ci sono le trecce, qui ci sono solo le tracce? Si può dedurre che le trecce siano state levigate e che i segni strani siano la testimonianza delle preesistenti trecce, ora levigate. (fig. 2)


fig. 2. Delle trecce, presenti in tutte le teste dei pugilatori, sono rimaste solo le tracce perché cancellate dalla levigatura (Foto prof. R. Mondazzi. Torino)

La parte del volto meglio conservata, anzi la più nitida e meglio incisa, di un paio di dmq, su qualche centinaio di mq di superficie totale di tutti i reperti, è senza dubbio l'arcata sopraccigliare, gli occhi e il naso della ns testa di pugilatore. Una nicchia infinitesima e mirata si è salvata dall'universale e fisiologico degrado. Non temete, ho ben presenti anche altri sparutissimi particolari, come la mano e avambraccio che tiene l'arco…
Il tempo, grande scultore, ha fatto dunque dono -nella sua incommensurabile pietà- di preservazione di ciò che in nuce racchiude tutto MP. Un magico scrigno fatale ha protetto l’essenza.
Quando si dice della fortuna degli archeologi!
Il miracolo, ancora più grande, è per me la perfezione e freschezza dei doppi cerchi e l'incavo oculare e il taglio sopracciliare, soprattutto se si pensa che sono morfologicamente un ottimo ricettacolo di acqua e quindi di attacchi corrosivi e degrado chimico.
Trovo altresì eccezionale la conservazione dei buchi-fessura del naso. Due fessurine proprio nel naso, sporgenza vulnerabile e corrodibile. La conservazione di un tal particolare ha davvero del miracoloso. Ma il miracolo non è un fatto, è una congettura quando non si sa dare spiegazione.


Fig. 3 In un paio di dmq di superficie si può racchiudere tutta la vicenda di MP. Gli altri mq di reperti, insieme non valgono come questi che sono sopravvissuti intatti ad ogni avversità. Basta voler credere ai miracoli. A destra del volto si vede chiaramente il segno della treccia

Si guardi con occhio ingenuo (so che ora è difficile) il volto del pugilatore e si esprima a sè stessi un giudizio sincero e di buon senso comune, buon senso comune che è un nostro immenso patrimonio collettivo (v. La Capria, La mosca nella bottiglia) e si dica se il germe del dubbio di un ritocco non sia condivisibile!
Aggiungo, chiosando ancora il prof. Mondazzi, che all'epoca, anni settanta, un restauro anche pesante di un reperto non era un delitto di lesa maestà e ci stava, per tanti motivi, mediatici, di carriera, di ignoranza, di semplice vanità o amor isolano.
Spesso si è restaurato per amore: a statue mutile si sono aggiunti arti e teste a busti acefali.
Le Carte del Restauro non erano prescrittive, né ancora culturalmente condivise o conosciute.
Torno al ragionamento iniziale. Le probabilità dell'ipotesi concernente il ritocco, dopo queste osservazioni, sono percentualmente più alte dell'ipotesi accreditata inizialmente.
Per ora dunque, in mancanza di altri fatti, la probabilità di un ritocco, non so quanto pesante e profondo, su entrambe le teste, è alta e l'ipotesi più accreditata è soccombente.
Ad aiutare le quotazioni di chi non si sente di mettere in dubbio l'originalità delle due teste, metto ora sul piatto le testimonianze degli archeologi, Tronchetti in primis, che oltrettutto ha documentato le fasi di scavo e ritrovamento della testa in questione (fig.4).
La foto è una prova importante. Per dimostrare però che anche in questo caso è d'obbligo la sospensione del giudizio, introduco una ipotesi estrema, col metodo Pessoa sopraesposto, rimando però ad un prossimo post.
Nel frattempo, chi fosse interessato, può esercitare le sue virtù indagative confrontando, a mò del passatempo "trova le differenze" della Settimana Enigmistica, le due foto e rilevare qualche anomalia.
Un particolare, per me, in una delle due foto, è davvero intrigante e getta un forte sospetto sulla legittimità ricostruttiva del pugilatore, o viceversa, sulla foto.
Alla prossima!


fig. 4.  Scavo Tronchetti del 1979. La testa del pugilatore più gettonato, esposto a Cagliari. Nella foto a destra emerge dal terreno un frammento dello scudo che la statua regge sopra la testa (da AA.VV "Giganti di Pietra", Fabula, Cagliari, 2012)