lunedì 27 settembre 2010

Sul linguaggio dei nuragici

di Mauro Peppino Zedda

Nel 1987 Colin Renfrew nel saggio Archeologia e Linguaggio, dimostrò che l’idea di un’invasione di popolazioni indoeuropee nell’età del Rame fosse priva di riscontri archeologici, ma Renfrew non è stato altrettanto esemplare nella formulazione di una proposta alternativa. Alla romantica idea di un’invasione a dorso di cavallo, Renfrew antepone uno scenario basato su una lenta (millenaria) invasione agganciata all’adozione dell’agricoltura.
La sua proposta è senz’altro più verosimile delle precedenti ipotesi. Ma più convincente mi appare la Teoria della Continuità proposta da Mario Alinei (Origini delle lingue d’Europa, 1996), che vede le lingue indoeuropee presenti in Europa già da tempi antichissimi.
Alinei nella sua analisi mette in luce come la distribuzione delle lingue flessive, isolanti e agglutinanti, trova un singolare parallelo con le modalità di scheggiatura degli utensili in pietra che hanno accompagnato e caratterizzato la più lontana preistoria umana. Propone una Teoria della Continuità lunga e una breve, lasciando a studi futuri il compito di valutare quale sia più pertinente.
Mario Alinei propende per quella lunga (che condivido), ma non è questo l’essenziale, a lui interessa dimostrare che sul finire del Paleolitico Superiore i gruppi linguistici europei erano già nettamente separati e insediati nelle loro sedi storiche.
Per Alinei nella Sardegna pre-romana si parlava una lingua italide affine al latino. Ecco come spiega i caratteri della lingua nuragica: «Come abbiamo visto, i sardi che si rifugiano sulle montagne per difendere la loro libertà, sono spesso invocati per spiegare la maggiore “sardità” linguistica dell’area montana: è qui, infatti che si sono mantenute la /k/ e /g/ velari latine (cioè italidi), è qui che si parla il Sardo più vicino al Latino (leggi: Italide) in tanti aspetti, formali e semantici. Tuttavia, vi è un “piccolo” problema in questa visione. Nella teoria tradizionale, accettata da Lilliu, la lingua che i sardi del Centro montano continuano a parlare, non è - né può essere – quella latina o sua affine. Lilliu, che attinge alla linguistica degli anni Cinquanta (in mancanza di meglio, come lui stesso ci ha detto), afferma infatti che la lingua dei Sardi della montagna doveva avere «un fondamento comune libio-ibero-ligure (o mediterraneo occidentale)». Ora, è curioso che nessuno studioso abbia finora notato la stridente contraddizione inerente a questa tesi. Se i Sardi nuragici non erano italidi, ma di ceppo etnico e linguistico anIE, quelli fra loro che si erano rifugiati sulle montagne avrebbero dovuto conservare meglio le caratteristiche linguistiche originarie del loro sostrato, e quindi avrebbero dovuto allontanarsi maggiormente dal latino o da una lingua affine. Proprio perché la conservatività del Sardo montano e l’innovatività del Sardo della pianura risultano da un confronto fatto rispetto al latino, esse sono inconciliabili con la tesi tradizionale. Diventano al contrario del tutto comprensibili e prevedibili se la lingua dei Sardi nuragici, all’epoca della ritirata sulle montagne, fosse stata italide, cioè una variante del Latino! In altri termini è l’Italide dei Sardi fuggiti in montagna che si è conservato meglio, così come è l’Italide dei Sardi “mescidati” delle pianure, che ha subito l’influsso di lingue non italidi e ha innovato. Occorre rovesciare completamente l’assunto tradizionale per dargli un senso e una logica.
Le prove di continuità culturale, così evidenti nell’isola anche nel periodo di decadenza e di fine della civiltà dei nuraghi (500-238), portano gli studiosi che assumono l’assunto tradizionale a una conclusione obbligatoria, che Lilliu esprime così: «la romanizzazione delle genti del centro «fu […] un fatto di lingua e non di cultura». Ora nell’ambito di una visione antropologica della linguistica, questo sviluppo sarebbe un unicum assolutamente sbalorditivo. Lingua e cultura non possono essere separati in questa misura. Non sono la stessa cosa, ovviamente, ma sono avviluppati in un reticolo di rapporti talmente complesso da rendere impossibile un cambiamento dell’una senza conseguenze per l’altra. […] La lingua dei Sardi non sarebbe mai rimasta quella che è, in tanti dettagli che la avvicinano a un tipo italide arcaico, e la differenziano da tutte le altre parlate neolatine, se la continuità culturale e materiale così tipica dei Sardi tradizionali non fosse sempre stata associata, dal neolitico all’epoca nuragica, e da questa fino all’occupazione romana e alla cristianizzazione a una stessa etnia.
Scopo di questa illustrazione era di mostrare come lo sviluppo culturale della Sardegna preistorica, dalla Ceramica Impressa/Cardiale fino alla civiltà nuragica, possa essere interpretato come affermazione originalissima da parte di un gruppo italide, parallelo ma indipendente sia da quello appenninico italico, che da quello medio-italiano latino e da quello franco-iberico. Il problema di fondo per la Sardegna, forse più ancora che per la Corsica, resta quello degli apporti anIE e di altri gruppi IE, da quello di eventuali adstrati peri-IE risalenti al Mesolitico se non a prima, al superstrato “orientale” dei coltivatori immigrati dalla mezzaluna Fertile, a quello celtico introdotto dal Megalitismo e dal Campaniforme, a quello greco e fenicio
» (Alinei 2000).
Quanto affermato da Alinei sarebbe valido anche adottando lo schema di Renfrew. In Sardegna si parla indoeuropeo perlomeno dal Neolitico Antico.
Per chi non conosce le opere di Alinei e Renfrew specifico che per loro il cosiddetto IE italide abbracciava oltre alla penisola italiana, la Sicilia, la Sardegna e la Corsica, anche le coste mediterranee della Francia e dell’Iberia.

martedì 21 settembre 2010

Quella nuragica è un'architettura irrazionale?

di Mauro Peppino Zedda

Per quanto paradossale possa sembrare, lo spazio interno dei nuraghi rappresenta una questione assai trascurata dagli studi. Tra le poche analisi concernenti l’argomento, Lilliu afferma: «Nel rapporto massa costruttiva-vuoto, si osserva la tendenza continua, anche se lenta e prudente, all’ampliamento dello spazio. Tuttavia, in nessun caso il vuoto giunge a valorizzare il senso e l’effetto massiccio che domina, rude e sovrano, l’essenziale semplicità primitiva del nuraghe. Da un calcolo fatto su 25 torri che presentano diametri medi di m 11,24 di volume e m 4,08 di vano, con proporzione approssimata tra le due dimensioni di 2,75, si ricava un indice medio di massa-spazio di 1,76. Ossia la somma dello spessore dei muri, misurati nella base della sezione diametrale, è di 1,76 volte maggiore rispetto al vuoto della camera a falsa volta» (Lilliu 1988).
Che nel costruito nuragico vi sia una lenta e prudente tendenza all’ampliamento dello spazio è una idea totalmente infondata. Non si riscontra nessun interesse ad ampliare lo spazio calpestabile in proporzione alla massa muraria.
Viceversa si può oggettivamente affermare che nella plurisecolare tradizione costruttiva nuragica vi sia un miglioramento delle modalità costruttive, che si esplicano nel riuscire a costruire nuraghi dove la messa in opera dei massi raggiunge degli alti livelli di raffinatezza.
Immutato rimane anche il modello architettonico. Una immutabilità che per Lilliu è figlia di una speciale vocazione militare, mentre per altri testimonia e attesta una valenza sacrale-simbolica della torre nuragica (Pittau 1977; Zedda 1992, 2004, 2009; Laner 1999).
All’analisi degli spazi interni Lilliu ha dedicato poche righe che comunque pare siano risultate assai convincenti per i suoi successori.
Nell’esame degli spazi della torre nuragica Lilliu si limita ad analizzare il rapporto di proporzioni che vi è tra i diametri della torre e di camera, trascurando quello più interessante e cioè il rapporto tra il vuoto e il pieno in termini di superficie e di volume. Nella misura media da lui proposta, cioè una torre avente una pianta con un diametro di 11,24 m e un diametro di camera di 4,08 m, possiamo calcolare che la torre occupa una superficie pari a 99,17 m², mentre la camera ne occupa soli 13,06 m². Dunque una torre nuragica mostra uno spazio fortemente sbilanciato a favore delle masse murarie, che occupano più del 86% della superficie totale, pari a 7,61 volte l’area calpestabile.
L’analisi degli spazi dei monotorre e torri centrali dei nuraghi complessi su un largo campione è stata recentemente eseguita dall’architetto Danilo Scintu (2003). Sulla base delle sue misure pare che il diametro medio di torre possa identificarsi in 12 m mentre quello di camera in 4,2 m.
Dunque un nuraghe monotorre di 12 m di diametro occupa una superficie di 113 m²; mentre la camera occupa solo 13,84 m² (420 cm di diametro); con un’altezza di 10 m il volume è pari a 1000 m³; di cui di 900 m³ di massi ciclopici del peso di 20 quintali a m³.
I nuraghi complessi hanno un rapporto ancora più sbilanciato a favore degli spazi pieni. Prendiamo per esempio Su Nuraxi di Barumini: con 620 m² di ingombro totale, presenta 60 m² di cortile, 70 m² di spazio coperto calpestabile nelle cinque camere voltate a cupola e 490 m² occupati dalla muratura. I 60 m² di cortile hanno la funzione di raccordare le quattro tholos delle torri periferiche, dunque lo spazio “utile” si riferisce a 70 m² su 620 m² di ingombro (muratura e cortile). Lo spazio occupato dalle murature è pari all’80%, quello delle camere 11,2% e quello del cortile il 9,8%.
Ho virgolettato la parola utile perché non è esatto pensare che l’utilità riguardi soltanto i 70 m² coperti, l’utilità riguarda l’intero edificio.
Ancor maggiore è lo sbilanciamento tra spazi vuoti e pieni che caratterizza i nuraghi a corridoio.
Come vediamo le dimensioni dei nuraghi sono tutt’altro che mastodontiche, ciò che li rende possenti e monumentali sono le caratteristiche dei conci con cui sono stati costruiti, conci ciclopici che nelle parti basali superano i 2 m³ di volume e ci fanno interrogare sul valore delle tecniche di spostamento e sollevamento utilizzate.
Riguardo alla dimensione degli spazi interni rispetto allo sforzo costruttivo generale, ecco come si è recentemente espressa Marisa Ruiz-Galvez (2005: 31): «... comprender la densidad de este tipo de costrucción ciclópea che son las nuraghi, caracterizadas por elevata altura de sus torres y la, en aparencia al menos, gran inversion de trabajo en relació con el escaso espacio habitable interior de muchas de ellas. Algo aparentemente tan ilógico desde nuestros paràmetros modernos, que ha llevado a algùn autor a hablar de arquitectura irracional». Provo una grande amarezza nel constatare che l’irrazionale interpretazione di Taramelli e Lilliu del nuraghe la si stia trasferendo allo spirito costruttivo dei nuragici.
Le irrazionali conclusioni di Lilliu e dei suoi pedissequi discepoli si stanno scaricando sulle spalle dei nuragici che vengono etichettati come dei poveri Sisifo impegnati in sforzi enormi per costruire degli edifici mastodontici con risibili spazi abitabili.
Inviterei a frequentare un corso di filosofia della scienza coloro che per spiegare la funzione del nuraghe vanno a postulare una presunta irrazionalità del gesto costruttivo in quanto non aderente alla funzione che gli hanno aprioristicamente attribuito.
É triste assistere ad una situazione in cui vengono interpretate come irrazionali le scelte costruttive invece di prendere atto che è l’interpretazione del nuraghe nella sfera del profano ad essere irrimediabilmente irrazionale.

giovedì 16 settembre 2010

Gli oggetti di culto nei nuraghi

di Alessandro Mannoni


Una obiezione alla tesi della possibile funzione templare assunta fin dall’origine dai nuraghi consiste nella mancanza di oggetti di culto e votivi al loro interno attribuibili ad un periodo precedente all’Età del Ferro, nel corso della quale invece essi compaiono e sono stati ritrovati in maniera evidente.
Le premesse di una tale obiezione sono solo apparentemente condivisibili.
Sostenere che se all’interno delle strutture adibite o utilizzate in funzione templare sono presenti oggetti che in un dato periodo identifichiamo come religiosi allora le strutture sono classificabili come templi, mentre in caso contrario la funzione templare non è dimostrata o è addirittura indimostrabile non mi pare corretto.
Non capisco infatti perché si debba attribuire ad un edificio la funzione di tempio soltanto se in esso sono presenti degli oggetti o dei materiali di uso cultuale, soprattutto se questo uso cultuale è frutto della interpretazione a posteriori dello studioso: alcuni oggetti interpretati come d’uso quotidiano potevano avere una funzione cultuale o essere usati indifferentemente anche con una funzione cultuale. Basta riflettere ad esempio a come alcuni oggetti interpretati in funzione militare o civile siano stati da altri assegnati alla funzione religiosa: ricordo ad esempio le famose palle in pietra perfettamente tonde destinate al lancio delle mitiche catapulte che agli occhi di Massimo Pittau diventano più semplicemente degli ex-voto solari, o le fusaiole e i pesi da telaio che vengono assegnati da alcuni alle funzioni domestiche, da altri all’attività tessile di sacerdotesse e vergini adibite al tempio/monastero, o le abbondanti tracce di vasellame spesso in cocci o frammenti presente in molti sacelli all’interno dei nuraghi, lette come un’evidente testimonianza di ceramica sacra.
In alcune tipologie di tempio, poi, per il genere di rituale o di culto svolto in quelle particolari strutture potevano anche non essere presenti oggetti specifici; d’altronde i materiali ritrovati nei pochissimi siti religiosi del Bronzo Medio elencati da Ugas, rappresentati da ollette ansate, bicchieri, tazzine e coppette, sono tutti interpretabili non in maniera esclusiva come oggetti di culto generici, ma come funzionali soltanto alle specifiche forme di rituale officiate in quei siti: offerte di liquidi e libagioni da depositare e versare nel terreno nel caso di culti ctonii come quelli officiati nelle grotte o la raccolta di acque sacre, per le sorgenti o, come ipotizza lo stesso Ugas nel caso di Monte Baranta, per offrire ai vecchi genitori la bevanda che provocava il “riso sardonico” prima di gettarli dall’alta rupe su cui è costruito il sito. Solo i materiali fittili ritrovati presso le poche fonti citate potevano rappresentare per l’epoca del Bronzo Medio degli oggetti votivi, ma probabilmente funzionali solo a quella tipologia di culto avente finalità terapeutiche.
O, infine, potrebbe anche darsi la situazione generale che in ogni tempio, magari per la particolare ideologia religiosa e simbolica di quella cultura, potessero non essere presenti oggetti specifici di culto. E la prima civiltà nuragica, fortemente aniconica e astratta, geometrica e asciutta nella sua linearità, poteva ben rappresentare una cultura religiosa di tal genere, come sostiene anche Mauro Zedda.
Pensare infine che, data la frequentissima deposizione all’interno delle strutture adibite o utilizzate in funzione templare degli oggetti votivi nel corso dell’Età del Ferro, altrettanto dovessero fare nei secoli precedenti è sensato ma non probante, poiché al fondo c’è ancora l’assunto, non dimostrato, che nel tempio debbano sempre essere presenti oggetti votivi o riconoscibili come tali, o che se tali oggetti sono tipici di una fase tarda di una civiltà debbano esserlo anche di una fase precedente.
Ma penso che la cesura all’interno della civiltà nuragica tra la prima fase (quella propriamente nuragica perché solo ad essa appartiene la realizzazione degli edifici da cui essa prende il nome) e la fase tarda o finale o post sia probabilmente molto più netta di quanto molti studiosi attualmente ammettano, e tale quindi da non consentire questa estensione automatica delle modalità del culto diffuse in Sardegna nell’Età del Ferro alla fase storica precedente.

martedì 14 settembre 2010

Lilliu che si arrampica sugli specchi

di Mauro Peppino Zedda

Quando nel 1977 Massimo Pittau presentò i risultati di uno studio che confutava la teoria del nuraghe fortezza, Lilliu non prestò la giusta attenzione agli argomenti del Pittau, limitandosi ad epurare le parti più controverse e continuò a considerare il nuraghe come una fortezza.
Per Lilliu la questione della possibile sacralità dei nuraghi era una specie di tabù, un argomento di cui non valeva la pena discutere, sentiamolo in uno dei rari scritti in cui disquisisce sulla possibile valenza sacrale dei nuraghi: «Orbene la concomitanza con le torri semplici di numerose tombe megalitiche (specialmente tombe di giganti), porta a negarne la destinazione funeraria che un tempo era in gran voga tra gli “analogisti” e gli “etimologisti”. Invece, nei tempi in cui si costruivano i nuraghi a unica torre, i monumenti di culto sembrano assai rari (dico sembrano perciò lontana anni luce da essere compiuta). Perciò si può capire che tuttora, come in passato, vi sia chi caldeggi, se non per tutti, per una parte di tali nuraghi, l’utilizzazione cultuale, precisandone (per la verità con un trasporto che rasenta il mistico), punti e modalità di manifestazioni.
Sennonché quest’ultima ipotesi, alla quale peraltro potrebbero far inclinare la forma monumentale e il volume a cono, quasi simbolico, delle torri che si elevano come un altare e la collocazione spesso in luoghi dominanti e attrattivi come quella di chiese e di santuari montani, trova molte e serie difficoltà per essere accettata; (ovviamente il proporla acriticamente è viceversa assai semplice e non priva di fascino per chi non è uso a ragionare). Ostano all’interpretazione templare il grande numero, la proliferazione sul terreno, l’organizzazione in un sistema territoriale degli edifizi monoturriti. Se questi si dovessero connettere col fenomeno religioso pur profondamente sentito dai sardi nuragici, figurerebbero l’immagine irreale e mitica d’un “isola sacra” e di un popolo di “lotofagi” e non di contadini, pastori e anche di guerrieri quale fu effettivamente. Intervengono poi i dati strutturali, contrari all’interpretazione templare. Lo spazio è angusto, difficile la circolazione interna voluta dal presunto rituale. All’alto delle torri, ove vi si immaginassero cerimonie, dall’esterno si può accedere solo con mezzi retrattili, e dall’interno si sale attraverso il sistema complesso delle scale intermurarie intergrate con le posticce di legno e di corda. Un bell’esercizio di ginnastica per vecchi venerandi sacerdoti e i loro paludati accoliti! Infine il dispositivo dei vani, scarsamente illuminati, è concepito con una sorta di gusto labirintico, quasi impeditivo e introverso, e, comunque, pienamente fruibile soltanto da chi conosceva l’intrico e la singola funzionalità dei suoi ambienti sin nel più segreto recesso.
Si aggiunga che all’immagine di luogo sacro poco o nulla rispondono la postura prevalente delle torri in posti elevati di largo dominio, il loro collegamento visuale e l’inserimento in complessi reciprocamente funzionali
.». (Lilliu 1988).
Lo scritto di Lilliu fu una risposta, senza citarlo, a Pittau. Si potrebbero fare molte considerazioni, ci vogliamo provare o avete timore di essere irriverenti?

venerdì 10 settembre 2010

I nuragici: guerrieri o lotofagi?

di Alessandro Mannoni

Il dibattito sul dilemma se la civiltà nuragica fosse o no una civiltà di guerrieri o di “lotofagi” (cfr Lilliu 1988) mi pare sia del tutto mal posto.
Non è risolvendo tale quesito che si dimostrerà o meno la reale funzione dei nuraghi.
Innanzitutto bisognerebbe definire meglio il quadro generale che ci permette di definire una civiltà come guerriera.
Definiamo una civiltà guerriera se i suoi membri passano il tempo a combattersi tra loro o a combattere nemici esterni? Oppure solo se esprime un impulso espansionistico? O ancora, se manifesta, all’interno e/o all’esterno tendenze di dominio e controllo su terre, beni, membri della società, popoli? Oppure se è caratterizzata da una tendenza grandiosa alla costruzione di opere fortificate e castelli? O ancora se specializzata nella realizzazione ed uso di armi e tecniche militari? Oppure se fonda la sua cultura su una ideologia, una morale, una religione dove prevalgono miti e divinità eroiche, valori fondati sul coraggio e lo sprezzo del pericolo, e sistemi educativi orientati a trasmettere tale cultura?
E’ importante definire questo quadro, perché, storicamente, numerose sono state le culture e civiltà che sono state definite “guerriere”, ma che spesso presentavano caratteri anche molto distanti tra loro.
Penso ai pellerossa americani, agli Aztechi, ai Giapponesi, ai Romani, al medioevo feudale, ai Micenei, a Sparta, ai Germani, ai Mongoli e … l’elenco potrebbe continuare.
Come si vede ciascuna di esse ha declinato il suo essere “guerriera” in maniera almeno in parte differente dalle altre. E’ evidente però come nessuna di esse, e in genere nessuna società, si sia talmente focalizzata su una sola funzione tanto da escludere altri aspetti. Se nel medioevo costruivano castelli, riempivano anche l’Europa di cattedrali; i Romani più che costruire forti pensavano a costruire strade, acquedotti e città, oltre a basare tutta la loro civiltà su una scrupolosa osservanza delle regole della pietas religiosa; gli Aztechi edificavano splendide città e grandi piramidi sacre e per timori religiosi sono scomparsi; i Samurai Giapponesi basavano il loro codice etico, il Bushido, sui valori del buddismo zen e dello shintoismo tradizionale.
Trovare una civiltà che escluda del tutto la funzione guerriera o quella sacerdotale e religiosa penso sia difficile. Così come trovare una civiltà guerriera che si esprime in una guerra continua di tutti contro tutti o passi il tempo ad edificare sistemi difensivi.
Tradizionalmente molte culture guerriere hanno fatto a meno, per ragioni ideologiche o strategiche, dei sistemi difensivi. La miglior difesa è sempre l’attacco! O il terrore imposto con la forza delle armi o degli eserciti ben organizzati ed addestrati: Sparta docet.
Non c’è bisogno di edificare migliaia di castelli per mantenere un ordine sociale ed un equilibrio pacifico in una società a sfondo guerriero: i pellerossa e i Mongoli c’è lo ricordano. Basta spesso un codice etico guerriero da tutti riconosciuto e accettato (il codice barbaricino vi ricorda qualcosa?)
Mentre una società guerriera, quale poteva essere, perché no, quella nuragica e post-nuragica, poteva ben edificare un sistema di migliaia di strutture sul territorio aventi un valore e/o una funzione sacrale.
Perché migliaia di castelli avrebbero più senso di migliaia di edifici sacri? Perché una costante guerra interna, che conduce solo ad una iperframmentazione sociale e politica e, alla lunga, all’implosione, sarebbe più logica di uno sforzo costruttivo collettivo durato centinaia d’anni e diretto verso il Cielo. Se ci pensiamo l’Egitto o le popolazioni megalitiche europee lo hanno fatto per millenni! E nessuno se ne meraviglia.

giovedì 9 settembre 2010

Gli Eroi del piccone

di Massimo Pittau

Due storici di rilievo, Ettore Pais e Raimondo Bachisio Motzo, avevano invitato Antonio Taramelli a dare una delineazione della civiltà nuragica non dall’unico angolo visuale dell’archeologia, ma anche da quello di altre discipline dell’antichistica. Ma il Taramelli non se l’era data per intesa, tanto è vero che in due differenti occasioni, in implicita polemica coi due storici, aveva scritto testualmente: «L’archeologia preistorica è oggi matura nei suoi metodi e nelle sue ricerche; non è più la modesta ancella sussidiaria, ma raggiunge le sue proprie conclusioni in base alle osservazioni proprie ed ai suoi propri metodi. Se queste si accordano con quelle raggiunte dalle scienze affini, tanto meglio; se no tanto peggio per quelle» (anno 1929). «Con tutto il rispetto alle fonti ed ai loro sagaci commenti, sia permesso a me archeologo, di avere fede, speranza ed amore principalmente nell’indagine archeologica. Nell’indagine del passato tenebroso, lontano ed incerto la mia luce è quella della punta luminosa del mio piccone» (anno 1934).
Probabilmente anche in polemica implicita col Taramelli, ecco cosa ha scritto più tardi Sabatino Moscati, studioso di larga fama nazionale e internazionale: «Se mai vi dedicherete all’archeologia, ricordate una massima: il piccone è l’ultima cosa. E cioè, per spiegarci meglio, il successo di un’impresa archeologica dipende in misura decisiva dalla conoscenza delle antiche fonti, dallo studio della geografia storica, in una parola dalla ricostruzione della vita del passato in cui la nuova ricerca si inserisce; quanto al fatto materiale dello scavo, esso è solo il coronamento di un’opera in cui la dottrina e l’intuizione hanno parte essenziale» (S. Moscati, Archeologia mediterranea, Milano 1966, pag. 138).
A distanza di circa 80 anni da quando il Taramelli scriveva i suoi citati inequivocabili convincimenti personali, c’è da osservare che «la fede, la speranza e l’amore principalmente nell’indagine archeologica», nonché attenuarsi negli archeologi successivi, forse si sono ulteriormente accentuati. Nulli o quasi nulli sono i loro richiami alle antiche fonti scritte, soprattutto quelle greche. Sia sufficiente citare un esempio solo, ma molto significativo: a cominciare dal Taramelli fino ai giorni nostri nessun archeologo ha mai citato la testimonianza dello storico greco Diodoro Siculo (Biblioteca historica, V 15, 2), il quale, parlando dei nuraghi della Sardegna li definisce «templi degli dèi» (cfr. M. Pittau, La Sardegna Nuragica, II ediz., Cagliari 2006, Edizioni della Torre, pagg. 25-26. 112).

martedì 7 settembre 2010

Sulla presunta “garitta” del corridoio d’ingresso

di Mauro Peppino Zedda

Nel 1977 Massimo Pittau in Sardegna Nuragica ha scritto:

Quasi tutti i nuraghi presentano nel breve corridoio d’ingresso una nicchia,posta quasi sempre a destra di chi entra. Gli studiosi militaristi hanno interpretato questa “nicchia” con la garitta nella quale avrebbe preso posto la sentinella di guardia al nuraghe.
Innanzi tutto si deve escludere che in tempo di pace la presenza di una sentinella situata nella celletta del corridoio d’ingresso dei nuraghi potesse avere una qualsiasi ragion d’essere. Non vale per nulla, infatti, il riferimento all’uso, seguito attualmente nelle caserme, di una sentinella che stanzia all’ingresso, vicina alla sua “garitta”: nelle caserme moderne la sentinella da una parte deve svolgere un’opera di controllo per le varie centinaia di uomini che entrano ed escono durante tutta la giornata, dall’altra assolve compiti di decoro militare, quali il saluto con l’arma da restituire ai militari di truppa e da fare ai sottufficiali alle personalità politiche e civili e alla bandiera; mansioni tutte della sentinella moderna, che sono assolutamente da escludersi per il nuraghe, dato il numero ridottissimo di militari che vi avrebbero potuto entrare ed uscire.
Ma a maggior ragione si deve escludere che la nicchia dell’ingresso dei nuraghi potesse costituire la “garitta” per la sentinella in servizio di guardia in tempo di guerra. In tale circostanza, infatti , evidentemente la sentinella sarebbe stata assai più funzionale sulla terrazza del nuraghe che non nel suo ingresso; tanto più che la porta della presunta “fortezza” nuragica sarebbe risultata chiusa in qualche modo, per cui non avrebbe avuto alcun senso la presenza di una sentinella dietro la porta sbarrata.
Vero è che gli studiosi militaristi pensano ad un’altra soluzione del problema costituito da questa presunta “garitta”, e si tratta di un’altra spiegazione che entra appieno nei termini del ridicolo: in occasione di operazioni belliche la sentinella, nascosta nella sua “garitta” situata dietro la porta lasciata aperta, attendeva l’entrata in fila indiana dei nemici ignari; ed essa lui avrebbe colpiti ed uccisi uno dopo l’altro, attaccandoli dalla destra, ossia dalla parte non protetta dallo scudo. Senonché una tattica bellica di questo tipo è concepibile solamente ad un patto: che quelli attaccanti non fossero stati uomini, cioè esseri ragionevoli, ma fossero stati semplicemente bestioni, sia pure in forma umana, che con tutta ingenuità si addentravano nel corridoio della morte, per farsi ammazzare uno dopo l’altro da una sola sentinella
…”

Le fantasie di Taramelli sull’efficacia bellica della nicchia d’andito fu condivisa dal Lilliu, che sulla sua scia teorizzò i fantasmagorici nuraghi trappola.
Non credo che quella nicchia fosse usata come “garitta” o come riparo per la sentinella che annientava gli ignari invasori, ritengo che la sua funzione la si debba cercare nella sfera del sacro.
Ovviamente con il nuraghe inteso come edificio aperto, il che non vuol dire che l’accesso fosse consentito a chiunque.

lunedì 6 settembre 2010

Mito antico (e moderno) e conoscenza astronomica (II parte)

di Fabrizio Sarigu

I diapason a fiato rientrano nella sfera di dominio dello Yin, ma regolano i processi dello Yang. Il calendario viene dalla sfera dello Yang, ma regola i processi dello Yin. I diapason a fiato e il calendario si impartiscono reciprocamente un ordine così rigoroso che non sarebbe possibile inserire tra essi un solo capello.” (Proverbio cinese)
Comprendere il significato nascosto dei miti è qualcosa di estremamente complesso, De Santillana individua questa difficoltà nell’assenza di un “sistema” come noi oggi lo intendiamo. Tale assenza è dovuta semplicemente al fatto che il mito nacque quando l’uomo non aveva ancora iniziato a strutturare in maniera sistemica il suo pensiero, quindi non è corretto cercare di individuarne uno.
Cosa è dunque il mito?
Il mito è una “fuga musicale pitagorica”, che nacque quando l’uomo cominciò a concepire il mondo come numero e misura (data di nascita della scienza). Infatti è proprio la musica l’allegoria che meglio può descrivere i contenuti astronomici nascosti nel mito, poiché l’astronomia degli antichi si basava proprio sul concetto di “ritmo” che evidentemente condivide con la musica appunto. Un brano musicale non è solo un insieme di note, ma è un insieme di note legate fra loro da un preciso ritmo. Se il ritmo cambia, nonostante le note possano restare le stesse, tutta la composizione cambia. Gli antichi osservavano il cielo con senso del ritmo (armonia delle sfere). Per esempio sappiamo che Venere sorge eliacamente cinque volte in un ciclo di otto anni formando un pentagono apparente. Questo significa che gli antichi astronomi, si accorsero prima, e tennero in gran conto con continue osservazioni poi, una lucetta nel cielo che cinque volte in otto anni (otto anni) sorgeva poco prima del sorgere del sole stesso. Solo in quei giorni il fenomeno si manifestava. Ecco cosa è il “ritmo” che intendiamo. Questo esempio, uno fra migliaia, ci dà l’idea dello sforzo intellettuale di cui furono capaci i nostri “primitivi” antenati. Saranno poi i greci ad interessarsi in senso geometrico all’astronomia, il problema principale dell’astronomia greca era infatti quello di ricondurre ad orbite circolari gli assolutamente incomprensibili movimenti planetari, qui nacque probabilmente la filosofia platonica. La dicotomia tra mondo delle idee e mondo dell’apparenza trae origini in prima istanza dalla dicotomia per eccellenza (ricordiamoci che l’astronomia era la scienza sacra) tra orbite planetarie circolari (idee) e moto apparente planetario (apparenza). Prima dei greci l’interesse era per il numero e per la misura.
Il contenuto astronomico del mito è dunque espresso come una fuga di idee non organizzate in maniera sistemica. Tuttavia è possibile cogliere alcuni aspetti che ci aiutano a costruirne uno (perché a noi serve visto che ormai è il nostro modo di ragionare).
L’analisi comparata dei miti condotta da De Santillana restituiscono una visione particolare del cosmo, che è insieme religiosa e scientifica.
Tale immagine è quella di una sorta di sfera armillare, con la terra (il nostro globo, sferica) al centro attraversata dal suo asse e dove la struttura/croce dei coluri avvolge (come l’armatura della sfera armillare appunto) le stelle fisse ed in particolare il piano dell’eclittica, inclinato di 23°26’ (attualmente, ma oscilla tra 23° e 25° in un ciclo 41.000 anni) rispetto al piano equatoriale. Rispetto all’eclittica la croce dei coluri individua quattro punti, due solstizi e due equinozi, che individuano a loro volta i quattro segni pilastro di una data era. A questo punto è necessario precisare la differenza tra segno dello zodiaco e costellazione dello zodiaco. L’eclittica, essendo una circonferenza, può essere divisa in molti modi, 360 spicchi di 1 grado, fino a due metà di 180°, con vari passaggi intermedi, 4, 8, 12, 16, 24 etc… sennonché gli antichi si resero conto che era facile dividere l’eclittica soprattutto in 12 parti da trenta gradi ciascuna, perchè casualmente entro questi trenta gradi (più o meno) rientrava una costellazione. Ecco che l’eclittica è quindi preferibilmente divisa in 12 spicchi, detti segni dello zodiaco, di trenta gradi ciascuno riferiti ad una delle dodici costellazioni. Le quali ovviamente possono essere più grandi o più piccole dello spazio di 30° loro assegnato e in alcune “ere”, come la nostra, possono essere anche 13 (ad esempio oggi la balena rientra nel piano dell’eclittica), ma quando si parla di segni, questi sono sempre 12 di 30° ciascuno, questo per evidenti aspetti matematici(30 per 12 uguale 360).
A causa della precessione degli equinozi i quattro punti individuati dai coluri, precedono, ossia si spostano di moto retrogrado rispetto al normale scorrere annuale dei segni, di 1° ogni 72 anni, di modo che dopo 2200 anni circa vengono ad essere individuati nuovi segni nei quattro punti, entrando così in una nuova era (solitamente il segno di riferimento è quello che sorge all’equinozio di primavera). L’altro macro effetto della precessione è il movimento circolare del polo nord (polo nord celeste) rispetto ad un punto fermo (polo nord dell’eclittica), così da marcare nei secoli diverse stelle polari, oppure addirittura nessuna in particolare. Molti indizi fanno invece ritenere che il polo sud fosse considerato coincidente col polo sud dell’eclittica e quindi non soggetto a mutamento (quindi non l’immagine di due coni sovrapposti come è oggi la nostra, bensì un unico cono con un vertice sul polo sud, indicato dalla stella remo/timone della nave argo, canopo). Questo grandissimo meccanismo era immaginato come una sorta di mulino che ruotando sul suo asse (l’asse della terra, che alla fine di ogni era si sgangherava.. ricordiamo che la stella polare cambia nelle ere) macina il tempo. Tale mulino, nel mito nordico, era in possesso di un tale Amleto, che diventerà poi proprio il principe di Danimarca che conosciamo. In realtà dietro Amleto si nasconde una precisa forza “planetaria” che tuttavia dovremo affrontare in un altro momento.
Esiste però, una più antica immagine di questo meccanismo, codificata in miti molto famosi e racchiusa entro una parola tecnica molto precisa ma per noi difficile da afferrare: l’idea del FUOCO e della sua accensione. Molti miti parlano di rubare il fuoco o accendere il fuoco, ma di che fuoco si parla? La difficoltà sta proprio nell’abbandonare l’idea che noi associamo alla parola fuoco (del caminetto magari) e ragionare come gli antichi. L’idea del cielo/mulino è evidentemente un’idea/allegoria che poteva nascere solo in un contesto agricolo, per ovvi motivi, tuttavia queste idee sono molto antiche, molto, forse risalenti a prima che l’uomo scoprisse/inventasse l’agricoltura. Come dare ragione allegoricamente allora del moto dei cieli? Ricordate come gli indigeni accendono un fuoco?
Con un bastoncino che fatto ruotare nel palmo delle mani sfrega su della paglietta, posta su una tavoletta piatta.
Questa divenne l’allegoria per eccellenza grazie alla quale spiegare il meccanismo di rotazione dei cieli, rubare o accendere un FUOCO divenne il termine per indicare la nascita di una nuova era, poiché l’asse della terra/bastoncino da fuoco doveva riprendere a ruotare su una nuova marcia stabilita dai coluri e quindi il “FUOCO” doveva essere riacceso. Ecco spiegato il mito di Prometeo, il cui termine non deriva tanto dal greco “vedo oltre” quanto dal sanscrito PRAMANTHA, che è appunto il nome del bastoncino “maschio” da fuoco (da cui deriva il latino mentula, ricordiamoci il mito di Uranos e Gaia, dove il pene asse della terra di Uranos univa cielo e terra, per cui l’idea che una “mentula” possa assurgere ad asse della terra non ci deve scandalizzare). Prometeo (asse della terra) rubando il fuoco agli dei non fece altro che accendere una nuova era del mondo.

domenica 5 settembre 2010

Ancora sul problema della chiusura dei nuraghi

di Alessandro Mannoni


Noto che il tema delle porte ha generato un dibattito molto acceso! Con proposte più o meno valide da entrambe le parti, finalmente si discute ed almeno si tiene conto del problema, che tradizionalmente nei testi classici dei nostri archeologi veniva ignorato o dato per scontato come risolto a priori, con una facilità che rasentava l’ingenuità.
A quanto pare la soluzione di chiusura prospettata nel caso di una funzione militare pare essere la pietra perché, se usate, le porte in legno potevano essere al massimo provvisorie e semplicemente poggiate, in quanto non in grado di reggere ad assalti nemici (risparmiamoci naturalmente i rovi della Tanda!!). Altro non appare al momento capace di assolvere alla funzione di chiusura solida.
Prima di discutere di tale proposta vorrei però si concordasse prima su un fattore: alcune soluzioni tecniche valide elaborate dai nuragici dovevano avere una diffusione generale, o almeno su grandi porzioni di territorio. Pertanto escludere la porta in legno e promuovere la chiusura in pietra significa potenzialmente estendere la tecnica a tutti i nuraghi intesi come fortezza. Ecco perché eventuali eccezioni che si possano riscontrare … non fanno testo! Aver trovato in alcuni nuraghi degli stipiti o degli incassi per eventuali porte o travi di blocco non dimostra che quello fosse il sistema di chiusura generalmente utilizzato: quali e quanti sono i nuraghi dove compaiono tali elementi? Poche eccezioni su migliaia non dimostrano certo la funzione militare del nuraghe. E siamo poi sicuri che tali elementi non siano frutto di rimaneggiamenti e riutilizzi successivi, di epoca romana ad esempio, o più recente?
A questo punto esaminiamo la pietra o le pietre di chiusura:
Un pietrone di grandi dimensioni e peso o un grande lastrone presentano elementi di scarsa praticità di utilizzo molto evidenti, ed inoltre nessun archeologo, a differenza dei chiusini di alcune domus de janas o delle tombe puniche, ne ha mai ritrovato uno in sito (altrimenti ritengo che l’avrebbe evidenziato e pubblicizzato adeguatamente!).
Quanto avanzato da Pisineke sembra più logico e probabilmente meritevole, oltre che di una analisi dettagliata, anche di una prova …sul campo!
Vediamo la fattibilità pratica di tale sistema. Per farlo credo si debba differenziare dapprima la tipologia di ingresso da proteggere, che per gli edifici nuragici penso si possa tripartire:
1) ingresso alla torre isolata o alle singole torri dei nuraghi complessi
2) ingresso al bastione del nuraghe complesso
3) ingresso/i alla cortina dell’antemurale
Distinguo i diversi ingressi perché ognuno di essi ha una sua specificità, formale e funzionale tale a mio parere da non consentire l’estensione del sistema di chiusura valido per uno di essi a tutti gli altri.
Se consideriamo la 1° tipologia di ingressi, quella senz’altro numericamente più ampia, la soluzione di Pisineke presenta a mio parere alcune difficoltà pratiche:

Supponendo che l’ingresso di un nuraghe abbia la misura di 1,15 x 1,70, e supponendo di utilizzare il granito come pietra , possiamo facilmente calcolare il peso dei blocchi necessari ( 9 ) ognuno delle dimensioni di 1,20m x 0,20m x 0,20m.
Il valore della densità in Kg/m3 del granito è di 2,500 (dato facilmente riscontrabile). Un blocco di granito di tali dimensioni (1,20m x 0,20m x 0,20m) ha un volume di 0,048m3; moltiplicando 0,048 m3 x 2500 (valore della densità del granito kg/m3) si hanno 120 Kg.
Due persone giovani sono in grado di sollevare tale peso anche ad una altezza di 1,60/1,70m. Otto blocchi di tale peso, preventivamente sistemati verticalmente vicino agli stipiti, 4 da una parte e 4 dall’altra, sono perciò facilmente sovrapponibili uno sull’altro (un blocco poteva essere sistemato permanentemente a formare un gradino). Sarebbe stato sufficiente poi sistemare verticalmente dietro tali blocchi 2 assi in legno puntellate con dei tronchi tagliati ad hoc...e di sicuro l’ingresso al nuraghe sarebbe stato assai difficoltoso
.”

Le torri con ingresso scala sul corridoio (e quindi una grande percentuale delle torri dell’isola, del centro nord come dimostrato da Mauro Peppino Zedda), avevano la necessità che la chiusura fosse impostata nella prima parte del corridoio che precede l’accesso alla scala, che doveva essere assolutamente difeso. Il blocco esclusivo della sala centrale, disponendo le pietre a ridosso dell’innesto del corridoio alla camera, oltre ad essere complicato dall’ampiezza e altezza di molte di queste luci (come nel caso dei nuraghi con l’innesto a forma di carena rovesciata - vedi il Piscu di Suelli) esponeva gli assediati ad una fine orribile poiché i nemici saliti al piano superiore o al terrazzo grazie alle scale non protette potevano, semplicemente sollevando le poche pietre di copertura del foro apicale della tholos, far piovere su di essi di tutto o affumicarli col fuoco.
Ora, la chiusura col sistema Pisineke della luce esterna di accesso al corridoio doveva essere realizzata con blocchi il più possibile squadrati e regolari, onde evitare spazi di gioco o di inserimento di legni o altri attrezzi di forzatura da parte del nemico. Questi blocchi poi, data l’abituale mancanza di riseghe o di stipiti nel vano porta dovevano anche essere delle esatte dimensioni, in larghezza, di tale vano. Il problema che si poneva ai “portieri” nuragici era quindi logistico: manovrare all’interno del ridotto corridoio per sollevare e trasportare, oppure trascinare, o spingere, tali blocchi e posizionarli uno sull’altro. Immagino che per porsi ai lati del blocco in due e sollevarlo avrebbero dovuto disporlo non nel senso della larghezza, perché sarebbero rimasti incastrati, ma nel senso della lunghezza del blocco, che una volta poggiato avrebbe dovuto essere ruotato in posizione (se possibile, visto le dimensioni esatte del blocco rispetto alla larghezza del vano). Per impedire però che anche i nemici, dall’esterno, spingessero tali blocchi facendoli ruotare e cadere, era necessaria la seconda parte del sistema di chiusura ipotizzata da Pisineke: i due assi verticali in legno per compattare la colonna di blocchi e impedire che venissero spinti singolarmente o fatti ruotare e i lunghi tronchi posti diagonalmente a puntello delle assi stesse per impedire che le assi cascassero facilmente (non sono visibili infatti incassi per il blocco delle assi sul soffitto). Forse al posto di assi e tronchi si sarebbe potuto utilizzare un secondo sistema di blocchi da appoggiare al primo, che avrebbe reso il sistema più solido. In tal caso però il rischio poteva essere quello di ….restare murati vivi! Sarebbe stato molto complicato infatti sfilare all’indietro i massi una volta incastrati senza poterli far ruotare su se stessi, a meno che non fossero di dimensioni più strette rispetto al corridoio. Questo sistema di chiusura avrebbe avuto un ulteriore vantaggio difensivo: se anche si fosse riusciti dall’esterno a scalzare e far cadere i due o tre blocchi più alti essi si sarebbero collocati immediatamente dietro gli altri rimasti rinforzandoli e lasciando quindi solo uno spazio di accesso ristretto a metà luce. La soluzione più praticabile dagli assalitori era allora tentare di farli ruotare e poi sfilarli dall’esterno.
Molto più complesso appare questo sistema di chiusura se applicato non alle torri classiche ma ai protonuraghi (secondo la terminologia adottata da Ugas) senza camera voltata. Nei lunghi corridoi di accesso del piano base gli spazi e di conseguenza i movimenti con tali blocchi, sarebbero stati quasi impraticabili. Dove collocare poi, i blocchi “ a riposo”, quando cioè inutilizzati per la chiusura, nei protonuraghi a corridoio passante che non disponevano solitamente di vani vicini all’ingresso di dimensioni tali da favorire il collocamento e la manovra di tali pietre? Negli altri nuraghi si potevano perlomeno collocare nella camera o, se abbastanza larga, nella famosa garitta; meno praticabile credo la collocazione verticale a ridosso degli stipiti nell’andito perché avrebbe portato via troppo spazio nel già angusto corridoio.
Il sistema, se ristretto a certe condizioni e ad una parte dei casi, pare ad ogni modo fattibile, benché non dovesse essere così rapido come descritto da Pisinike.
Ma a questo punto mi chiedo: se la funzione delle torri isolate era quella di sistemi di controllo ed avvistamento dall’alto perché non complicarne l’accesso al nemico ponendo l’ingresso ad una certa altezza, come nelle torri costiere spagnole? Ciò avrebbe evitato timori di sfondamento di qualsiasi genere senza bisogno di ricorrere a sistemi di chiusura complessi. Invece tale soluzione parrebbe una limitatissima eccezione nel panorama dei nuraghi sardi.
Resta comunque valida l’obiezione che un tale sistema di chiusura che rinchiudeva gli assediati come topi in un luogo angusto senza grandi mezzi di sopravvivenza (i pozzi interni alle torri sono pochissimi), poteva servire solo per breve tempo e sempre in attesa di rinforzi esterni.
Più semplice invece l’applicazione di tale sistema agli ingressi del bastione dei nuraghi complessi o dell’antemurale: qui l’appoggio dei blocchi poteva avvenire dall’interno del cortile sulla seconda luce di accesso, senza alcun bisogno di incastro e quindi utilizzando blocchi più larghi del vano, ed anche una doppia cortina di blocchi. Non c’erano motivi logistici di particolare impedimento.
Rimane a questo punto l’obiezione della mancanza di ritrovamenti, da parte degli archeologi, di tali blocchi di chiusura accanto alle porte, risolvibile, credo, solo ipotizzando che “evidentemente” siano stati tutti portati via nel corso dei secoli quale materiale edilizio già pronto o perché nel corso dello scavo scambiati sistematicamente per materiale di crollo e quindi scartati e accantonati dagli archeologi che ne ignoravano naturalmente la funzione! Che bel …. colpo di “fortuna” (per i militaristi naturalmente)!

giovedì 2 settembre 2010

Scienza e Irriverenza

di Mauro Peppino Zedda


I nuraghi a corridoio vennero da Giovanni Lilliu considerati dei nuraghi trappola, sentiamo cosa ha scritto:

Il nemico veniva attratto nella profondità di questi lunghi e lunghissimi corridoi, tenuti volutamente in uno stato di semioscurità, e, una volta addentratosi nel tranello di quegli angusti passaggi, veniva repentinamente assalito dai gruppi di armati annidati nelle garette dell’andito. L’incauto assalitore era preso in mezzo, aggredito di fianco e di spalle di garetta in garetta e veniva abbattuto a colpi di pugnale in una stretta colluttazione. Che se, poi, ad eliminare il pericolo dell’incursione nemica non fosse bastato il nerbo di uomini di guardia nel corridoio inferiore, accorrevano in soccorso, per le scale, i soldati di scolta appostati nel piano superiore o nel terrazzo, e annientavano l’ultima disperata resistenza con lo sterminio totale…..
Riconosciamo per lo più in questo tipo di nuraghe una costruzione di carattere militare, nel quale le cellette e i corridoi servivano per attrarre il nemico ed abbatterlo nell’angustia e nella semioscurità dei vani. Sono una sorta di nuraghi-trappola
….”

Insomma delle due l’una o erano cretini i nuragici o è cretina l’interpretazione del Lilliu.
Mi si dirà che sono Irriverente! La scienza pretende d’esser Irriverente!!

Richard Feynman (Il piacere di scoprire, Adelphi 2007), famoso scienziato americano (premio Nobel nel 1965) ebbe a scrivere: «la ricerca scientifica creativa richiede irriverenza» «La scienza sta nel credere nell’ignoranza degli esperti» «Di tutte le materie, solo la scienza contiene in sé l’insegnamento che è pericoloso credere nell’infallibilità dei più grandi maestri della precedente generazione. Impara dalla scienza che bisogna dubitare degli esperti».

Insomma è doveroso mettere in dubbio l’infallibilità dei Maestri, altrimenti la scienza diventa dogma.

Ora più che mai nel mondo archeologico sardo c’è un indispensabile bisogno di Irriverenza!

mercoledì 1 settembre 2010

Sugli ingressi dei nuraghi

di Alessandro Mannoni

Vorrei porre una questione ai sostenitori ad oltranza della funzione militarista, anche nella sua recente versione “annacquata taramel-lilliana”, (come la definisce M.P. Zedda in Archeologia del Paesaggio Nuragico).

Come mai gli abilissimi costruttori nuragici nel realizzare le loro poderose fortezze frutto di “un’arte militare molto evoluta” - nelle parole di Lilliu del 1988 - in cui confluivano formule e soluzioni costruttive interne e conoscenze e insegnamenti dell’arte fortificatoria di popoli esterni, tenevano però in così scarsa considerazione quello che tradizionalmente viene ritenuto il punto debole per eccellenza di un sistema difensivo murario chiuso, cioè l’ingresso?

Dove sono le tracce certe (non quelle derivanti da riutilizzo posteriore) di solidi portoni, grate, cardini; dove le ridotte, le mura angolari, i fossati e tutti gli altri stratagemmi che storicamente sono stati utilizzati dagli architetti militari per proteggere gli ingressi delle fortezze dal “prolungato attacco di eserciti invasori, forse in possesso di congegni militari tra i più efficaci, come arieti e altre macchine di attacco e tiro”(Lilliu cit. pp. 505 e seg.)?

Possibile che questo “sistema di massima sicurezza” si basasse esclusivamente sulle ridotte dimensioni degli ingressi (comprensibili peraltro sulla base di esigenze statiche di molte delle strutture) e sulle torri tangenti alle mura poste (e non sempre) a protezione dei varchi?