martedì 31 agosto 2010

Il nuraghe come modello cosmico

di Franco Laner

Qualche tempo fa, navigando in internet, mi sono imbattuto in una citazione di Giuseppe Lampis che nel suo libro “Sa bia de sa palla”, ed. Mythos, Roma, 1993, testualmente riporta: Frobenius riferisce (1933) di un modellino di nuraghe con quattro sostegni e un axis mundi centrale, lungo il quale sale lo sciamano.
Il nuraghe -continua- è una rappresentazione del cosmo perché i sostegni sono quattro precisamente come quelli con cui la terra regge il cielo secondo la tradizione africana.
Di corsa allora a consultare il libro di Leo Frobenius Storia delle civiltà africane, Bollati Boringhieri, Milano, 1950, che avevo conservato ancora dai tempi di un esame universitario sull’evoluzione delle tipologie edilizie africane.
Leo Frobenius (1873-1938), tedesco, compì numerosi viaggi di ricerca in Africa. Pioniere dell’etnologia, fu appunto autore di una grandiosa sintesi storico-etnologica della civiltà africana.
Nel capitolo Mondo e Uomo si occupa della rappresentazione dell’universo presso gli antichi.
Riporta anche la raffigurazione di un modello di bronzo di un tempio, conservato nel Museo di Cagliari in Sardegna. A. B. Cook fa risalire il culto ivi espresso alla civiltà eneolitica e al suo massimo sviluppo nell’età del bronzo. La cima della grossa colonna centrale è spezzata. SecondoTaramelli, un tempo c’erano delle corna di bue e una colomba, simbolo del pennuto dio del cielo.
Fra le figure disegnate di modelli cosmici del libro di Frobenius, spicca dunque il modello di tempio sardo di bronzo.
Il luogo di provenienza, Mandas, anziché Ittireddu, è errato, così come lo schizzo porta tre colombe, anziché due, sulla capanna.
Da dove ha preso Frobenius questa immagine? Gliela ha data W. Von Bissing, autore di Die Sardinischen Bronzen del 1924 e che partecipò al famoso Convegno Archeologico in Sardegna del giugno 1926. Negli atti del Convegno, la figura del modellino è riportata dal Taramelli, nella sua relazione con la seguente didascalia: Fig.111. –Modello di santuario nuragico, offerto in voto.
Orbene, lo stesso Giovanni Lilliu ha curato la presentazione nel 1990 della ristampa degli Atti del Convegno del ’26 dell’Editore Delfino.
Due sono le questioni che a questo punto si pongono. Non credo innanzitutto che sia possibile che Lilliu non conoscesse il testo di Frobenius. Negli anni cinquanta non c’erano molti libri né di archeologia, né di storia delle religioni e di etnologia. Il libro di Frobenius ha avuto una larga diffusione –addirittura nel ’70 lo acquistai per i miei studi di architettura, argomento trattato a margine nel famoso libro- e per di più veniva citato e disegnato il bronzetto di Ittireddu.
E’ impossibile anche che Lilliu non sapesse che Taramelli, a cui successe, considerasse il modellino non di nuraghe, bensì di santuario!
Ciononostante per Lilliu i nuraghi complessi furono considerati regge fortificate ed i modellini, modellini di nuraghe e non modelli cosmici o di santuari.
Da questo punto di vista non mi sembra totalmente corretto citare sempre Taramelli e Lilliu come padri della teoria nuraghe-fortezza.
Il merito va ascritto soprattutto, quasi esclusivamente, a Lilliu!
Comunque la teoria dei modelli di nuraghe, sia di bronzo (Ittireddu, Olmedo), sia di pietra (S. Sperate, Palmavera), sta portando al ridicolo. I capitelli di Monte Prama sono interpretati come modello di nuraghe monotorre e i basamenti colonnari sono interpretati come modelli di nuraghe polilobato. E così ogni volta che un reperto, piccolo o grande, abbia un elemento colonnare, viene immediatamente classificato come modello di nuraghe, anche se è il sostegno di un braciere, un offertorio, un capitello!
Nell’anno accademico 2003-2004 fui relatore della tesi di laurea di Paola Zantedeschi “Modellini di nuraghi come rappresentazione cosmica”. La tesi è in gran parte incentrata sulla rappresentazioni cosmiche mandaliche e yantra, e sull’impianto dei templi orientali. Tutte hanno per base la torre, montagna centrale e le quattro torri agli angoli della terra, sempre raffigurata come un quadrato.
Ovviamente anche il nuraghe quadrilobato è compreso in questa rappresentazione cosmica.
Un capitolo della tesi è dedicato all’impianto dei bronzetti di navicella votiva dove è ripetuta la rappresentazione cosmica: albero centrale con quattro torricelle agli angoli.
Che il grande Frobenius abbia visto in questa rappresentazione la sintesi della visione cosmologica non può che confortarmi sulla bontà delle mie deduzioni. I cosiddetti modelli di nuraghe sono imago mundi, modelli universalmente diffusi nella preistoria ed ancora residuali in molte culture, fino a diventare archetipo inconscio. Guardavo le costruzioni di sabbia dei bambini -e dei grandi- in riva al mare. La più ricorrente è un quadrato, con quattro torri (secchiello rovesciato) agli angoli e una torre più grande centrale.
Il riferimento africano di Frobenius mi ha molto confortato –la Sardegna guarda poco all’Africa,ha origini sicuramente più nobili- e per quanto uno sia convinto dei suoi ragionamenti, c’è bisogno -un umano bisogno- del consenso dei “superiori”!
Il passaggio successivo che mi auguro, è che al Museo di Cagliari, una mano pietosa sostituisca il cartellino sotto il bronzetto e scriva: Modello di rappresentazione cosmica al posto di modello di nuraghe.
Il bronzetto è un modello cosmico.
Il nuraghe è un modello cosmico.
Ma il bronzetto non è un modello di nuraghe!
Se A è uguale a C e B è uguale a C, A non è uguale a B in questo caso!
La regola transitiva matematica mal si adatta alla simbologia cosmica!
Infine, e non so darmi risposta, che finalità ci può essere nel rappresentare una fortezza, così ancora è interpretato un nuraghe, con un modello?
Nuraghe fortezza, madre di ogni sciocchezza!
O ci vorrà un altro secolo per capirlo?

domenica 29 agosto 2010

Sulla funzione dei nuraghi: alcune obiezioni

di Alessandro Mannoni

Dal momento della sua apparizione la teoria del nuraghe/tempio, pur con tutte le sue diverse sfumature e varianti interpretative, è stata accolta e per decenni ignorata, avversata silenziosamente o liquidata sbrigativamente dalla quasi totalità degli esponenti dell’archeologia nostrana.
Una delle maniere più rapide e “definitive” per sbarazzarsi di essa è stata per lungo tempo sostenere semplicisticamente, come mi capitava frequentemente di leggere o di ascoltare, che i nuraghi non potevano avere una funzione templare perché i nuragici “i templi ce li avevano già: i pozzi sacri!”.
Fortunatamente ora che anche i più strenui difensori del modello militarista o civilista dedicano almeno qualche pagina dei loro lavori nel tentativo di confutare il modello del nuraghe/tempio tali ingenue affermazioni sono molto più difficili da trovare. Però spesso resta, non chiarita e risolta, la premessa interpretativa che dietro quella obiezione critica si nascondeva.
Gli inquadramenti cronologici attuali, anche quelli che restringono a pochi secoli l’attività di edificazione dei nuraghi, dimostrano infatti proprio il contrario di quel che l’osservazione dava per scontato: i pozzi sacri compaiono in Sardegna tardi, quando i nuraghi, a bastione e a torre perlomeno, esistevano già da alcuni secoli. Quindi per qualche centinaio d’anni, almeno sino a quando non hanno “inventato” il pozzo sacro, le popolazioni nuragiche avrebbero tranquillamente fatto a meno di costruire strutture religiose. Per citare Giovanni Ugas, nel suo lavoro “L’Alba dei nuraghi” egli ascrive con certezza al Bronzo Medio quali edifici di culto solamente il Tempietto di Malchittu ad Arzachena e il recinto a ferro di cavallo di Monte Baranta, che interpreta in funzione religiosa e non più difensiva. Anche la fonte di Su Runcu Mannu di Orroli, primo esempio vero e proprio di tempio delle acque – “se non è stata sottoposta a ristrutturazioni moderne” aggiunge Ugas prudentemente – viene attribuita a tale periodo, ma in maniera solo probabile perché l’attribuzione è fondata su basi unicamente formali e strutturali in quanto il sito non è stato ancora sottoposto a scavo. Le altre, rarissime, testimonianze di culto comprenderebbero solo luoghi naturali senza la presenza di edifici realizzati dall’uomo: le due fonti di Sos Malavidos di Orani e di Abini presso Teti, precedenti però l’edificazione dei templi a pozzo, la Grotta di Su Benatzu a Santadi e qualche altro anfratto dell’iglesiente.
Migliaia di edifici funerari, civili e militari frutto di un’ansia edificatoria tipica della civiltà nuragica, a fronte di ben.… tre templi, di cui uno molto incerto, due sorgenti sacre e qualche grotta: evidentemente la Sardegna viveva all’epoca un singolare periodo di “ateismo” diffuso! Che, però, inspiegabilmente non genera alcun interrogativo in buona parte degli studiosi che lo propongono! Anche Lilliu, che pure notava la stranezza: «nei tempi in cui si costruivano i nuraghi a unica torre, i monumenti di culto sembrano assai rari», non chiarisce l’anomalia se non rimandando ad una ricerca «lontana anni luce dall’essere compiuta» (La Civiltà dei Sardi, 1988, p.490), chiarendo però subito dopo di escludere il tentativo logico e consequenziale, viste queste premesse, di attribuire ai nuraghi la funzione di luogo di culto.
Ora un tal “vuoto” religioso potrebbe forse essere riempito o attribuendo ai nuragici di quell’epoca un tipo di religiosità del tutto priva di forme visibili, o ritenendo che la loro religiosità si esaurisse, tolte le pochissime eccezioni citate da Ugas, nel culto generale degli antenati svolto presso le tombe dei giganti, o attraverso il modello della polifunzionalità dei nuraghi, che farebbe di essi più o meno occasionalmente anche dei luoghi di culto.
Ora coloro che sostengono modelli alternativi a quello del nuraghe/tempio dovrebbero però chiarire come mai il percorso evolutivo della civiltà nuragica, alla fine del Secondo Millennio, proprio quando di nuraghi se ne costruiscono sempre meno per poi scomparire, conduce improvvisamente ed inaspettatamente i nuragici a decidere di rifarsi dei precedenti secoli di insensibilità religiosa attraverso una vera frenesia costruttiva templare, per cui si assiste in Sardegna a tutto un fiorire di edifici sacri di ogni genere: santuari, pozzi e fonti sacre, templi a megaron, capanne lustrali e cultuali, riutilizzo in senso sacrale dei nuraghi. Curiosamente l’obiezione prima inconfutabile - “se il tempio nuragico è rappresentato dal pozzo sacro a che serve l’inutile doppione del tempio/nuraghe?” - sembra a questo punto non essere più sensata: nella testa dell’archeologo ormai possono contemporaneamente convivere senza alcuna contraddizione, fatto prima improponibile, differenti forme di strutture architettoniche aventi tutte una funzione religiosa.
Ma avrebbe bisogno di un adeguato chiarimento anche il passaggio da una forme di struttura polifunzionale che divide la propria funzione tra il tempio, la casa, il magazzino, il fortino e via dicendo e l’improvviso moltiplicarsi sul suolo sardo di edifici specializzati per il culto religioso e per giunta particolarmente originali.
In effetti uno schema storico che vede la strana trasformazione di una civiltà nuragica guerriera, a questo punto di stampo quasi “laico”, tipica del Bronzo Antico e Medio, in una successiva civiltà addirittura “templare” (per usare un termine molto significativo adoperato se ricordo bene da Stiglitz nel corso di una visita guidata al Nuraghe S’Uraki di Uras) presenta elementi di contraddizione evidenti. In questo caso più che di “cambiamento nella continuità” all’interno della civiltà nuragica sarebbe meglio parlare di un vero e proprio capovolgimento rivoluzionario che si dovrebbe però spiegare e giustificare molto più estesamente ed approfonditamente di quanto finora non si sia fatto!

lunedì 23 agosto 2010

La società nuragica: elitaria o egualitaria?

di Mauro Peppino Zedda


La seconda parte dello scorso secolo l’interpretazione dei nuraghi e della società nuragica è stata dominata dal pensiero di Giovanni Lilliu che in questi termini si espresse: «Opere e giorni di piccoli popoli aggregati dal vincolo religioso e di sangue, che hanno superato lo stadio di società strettamente parentelare e hanno maturato quello tribale, con emergenza di un capo-eroe. Non ancora però una società con potere politico di stato, ma poteri diffusi nella comunità, centro del vero potere. Se il nuraghe suppone e pretende un leader, per così dire “amministrativo” e “tecnico” per la scelta del sito, la gestione della costruzione, la garanzia funzionale di controllo del territorio, la tomba megalitica continua a rivelare, in quanto tomba collettiva, il potere comunitario.» (Lilliu 1988).
Per Lilliu: «La storia della Sardegna (e quella in specie dei suoi popoli più remoti) non giunse al di là della storia del cantone, quando non si fermò alla storia del villaggio e dentro del villaggio, a quella del clan e, dentro del clan a quella del gruppo familiare. Le sue genti, come non riuscirono mai ad evadere egemonicamente dalla stretta dell’Isola, espandendosi verso altre terre, limitarono più spesso il loro mondo e le loro conoscenze alla minuta cerchia geografica d’un peripiano e d’un altipiano di poche miglia quadrate, vedendo nel rilievo tabulare fronteggiante a minima distanza quasi un regno lontano e diverso e nel solco vallivo interposto, percorso talvolta da un misero fiumiciattolo, una sorta di frontiera fra stato e stato.» (Lilliu 1988).
E conclude: «Il nuraghe è anche, e soprattutto, uno strumento potente e terribile di guerra, in cui i sardi esprimono le più sottili arti della loro intelligenza e del loro animo bellicoso. Le sezioni preistoriche dei musei sardi sono veri e propri arsenali di armi di ogni specie; e un enorme deposito segreto di armi sono gli strati archeologici non ancora dissepolti del sottosuolo nuragico della nostra terra.» (Lilliu 1988: 667).
Ma qualche pagina prima aveva detto: «Si coglie nel Bronzo finale, una forte impronta metallurgica alla quale concorrono modelli che arrivano da parti diverse del Mediterraneo e dell’Europa. Sono utensili e armi di bronzo di foggia caratteristica e di valore indicativo circa l’età che copre vari secoli. Anzi sono proprio questi oggetti che, per la prima volta consentono di riconoscere il vero tono del bronzo nella civiltà nuragica la quale, nei secoli precedenti al millennio, più che altro, a causa del raro apparire del bronzo ed anche del metallo in genere, era una civiltà della pietra in grande ritardo
Ben più profondi sono gli interrogativi che si è posto Ercole Contu sulla complessità del mondo nuragico: «Ma socialmente come era organizzata questa complessità? Come era in tal senso la divisione del lavoro? Chi provvedeva all’organizzazione? Chi raccoglieva i beni prodotti e si occupava della loro prima distribuzione entro l’ambito tribale o del clan? Chi si occupava degli scambi in ambito sardo insulare e fra la Sardegna ed il mondo mediterraneo? Come era la divisione del lavoro artigianale? Era l’artigiano (come sembra suggerire l’alta qualità di certi prodotti dell’architettura e della bronzistica) dedito a tempo pieno ad una sola specifica attività, mentre altri provvedeva al suo sostentamento? Erano liberi o schiavi tali artigiani ed in particolare gli operai dediti al pesante lavoro minerario? Infatti non per nulla, più tardi i Romani inviarono i loro nemici ad metalla proprio in Sardegna. Era una società governata da nobili e principi oppure da capi eletti temporaneamente fra gli anziani ed aventi ciascuno funzioni di primis inter pares? O si trattò comunque di caratteristiche che andarono modificandosi, col tempo, per propria interna evoluzione o per influssi esterni provenienti da Micenei, Fenici ed Etruschi? E quale era la posizione dei mercanti stranieri o –se c’erano- dei loro prospettori minerari in ambito isolano?
Di fatto - a parte quel che potrebbe essere indicato dal possesso, fonte e conseguenza di prestigio, di alcuni oggetti di importazione ai quali si è già accennato - non riesce agevole riconoscere, in ambito regionale, nel periodo in esame, altri elementi netti di chiara differenziazione sociale. Ci pare perciò che possa escludersi sia la presenza della schiavitù che quella di una nobiltà (àristoi), che pure altri studiosi hanno ipotizzato. Non appaiono tali elementi negli abitati né sono presenti nelle tombe. Quando una costruzione civile e militare o una costruzione funeraria presentano caratteri di maggiore monumentalità, ciò sembra solo da attribuirsi ad una funzione sociale collettiva. Il carattere generalmente austero ed egualitario di questa civiltà sembra confermato dagli oggetti, che sono di uguale semplicità ed uniformità in qualunque monumento o situazione archeologica si rinvengano.[…] L’assenza di nette divisioni sociali, specie se ereditarie, potrebbe essere legata anche al fatto, riscontrabile in ambito etnologico attuale, che ciascun gruppo umano, in cui l’insieme delle genti della regione era diviso, aveva una consistenza numerica piuttosto modesta; tale da non superare neanche i cinquecento individui e soprattutto da non raggiungere quel limite al di là dei quali in genere tali forme aristocratiche risulterebbero maggiormente ipotizzabili
.» (Contu 1997).
Proviamo a discuterne?

giovedì 19 agosto 2010

A che serve l’archeoastronomia?

di Mauro Peppino Zedda


L’archeoastronomia è una disciplina a cavallo tra l’archeologia e la storia dell’astronomia, unisce ed amplia il fascino di entrambe.
Attraverso l’archeoastronomia si studiano le conoscenze astronomiche delle società che non hanno lasciato testimonianze scritte.
Tra i molteplici aspetti che l’archeoastronomia indaga, vi è lo studio dell’orientamento delle antiche costruzioni, siano esse di carattere funerario, sacro o profano. Cercando di capire se l’orientamento possa essere figlio di motivazioni astronomiche.
Quando si studia l’orientamento di antiche costruzioni si deve tener presente che il target astronomico è una possibilità tra altre (una montagna sacra, un insediamento privilegiato, un luogo sacro speciale, ecc.).
Se nell’impianto urbanistico di una città romana, è facile riscontrare la razionalità degli assi viari che intersecano parallelamente e perpendicolarmente l’abitato, è altrettanto facile notare che il cardo e il decumano sono orientati secondo i punti cardinali. La città romana è incardinata col cosmo.
Stesso discorso per le piramidi egizie, i cui lati sono orientati lungo i punti cardinali.
E via di questo passo sino ad inglobare quasi la totalità dei monumenti realizzati nella preistoria. Ma non solo, anche le chiese romaniche sono orientate verso il punto ove sorge il sole il giorno della natività del santo a cui sono consacrate.
Viceversa le moschee sono orientate verso La Mecca, si tratta dunque di un orientamento rivolto verso il luogo più sacro del Islam.
Anche i nuraghi sono stati costruiti seguendo dei parametri astronomici.
L’impianto planimetrico dei nuraghi complessi è astronomicamente orientato verso il sorgere del sole o della luna ai solstizi e lunistizi.
L’ingresso dei monotorre è delle torri centrali dei complessi è orientato verso tre target (sorgere del sole al solstizio d’inverno, della luna al lunistizio maggiore meridionale, e della costellazione del Centauro/Croce del sud, specificando che il target stellare vale solo se i nuraghi sono stati costruiti nel II millennio a.C.), con una anomalia (che conferma le regola) presente nella metà meridionale dell’Isola, dove vi sono orientamenti anche verso il culminare e il tramontare della costellazione del Centauro/Croce.
Sulla disposizione astronomica dei nuraghi vi è il caso della valle di Brabaciera, dove la totalità dei nuraghi presenti risultano allineati lungo angolazioni coincidenti con le linee solstiziali e lunistiali. Il matematico Marco Sanna, ha dedotto che applicando il teorema di Bayes (o delle cause), il caso di Brabaciera dovrebbe essere la norma piuttosto che un caso isolato.
Nel libro S’Ena (che ho avuto modo di leggere in bozze), prossima pubblicazione di Franco Laner, si dimostra che vi sono allineamenti con significato astronomico anche nella piana di Ozieri; inoltre che la disposizione dei nuraghi seguisse delle regole geometriche lo aveva messo in luce anche Mauro Maxia (Un tesoro riscoperto, 1991) in Anglona.
Vogliamo iniziare a chiederci, in tanti, per quale motivo i nuraghi sono stati orientati secondo parametri astronomici?

martedì 17 agosto 2010

La Sardegna e l'Atlantide

di Massimo Pittau


Con grande strombazzamento della stampa è stata di recente prospettata la tesi, secondo cui la Sardegna antica si identificava con l'Atlantide di cui ha parlato il filosofo greco Platone. Io sono dell'avviso che questa tesi sia del tutto campata in aria, come ho scritto in Lingua e civiltà di Sardegna, 2004, ed. La Torre, Cagliari.

È abbastanza noto che Platone, anche per le sue doti di poeta, esemplificava e concretizzava le sue tesi filosofiche fondamentali con altrettanti miti o favole, che creava appositamente ex novo. Il mito platonico più noto è quello dalla caverna, la quale rappresenta la realtà sensibile o delle ombre, mentre la vera realtà, quella intelligibile o delle idee (Iperuranio) è quella fuori della caverna. E un altro famoso mito platonico è quello di Eros figlio dell'Ingegno e della Povertà. Ebbene il mito dell'Atlantide è stato creato da Platone per sostenere la sua famosa tesi dello "Stato Ideale".

C'è da premettere che Platone era un conservatore, il quale non sopportava il regime di democrazia che vigeva al suo tempo ad Atene. Ebbene - dice il filosofo nel dialogo «Timeo» - 9 mila anni prima ad Atene vigeva invece un regime politico simile a quello da lui idealizzato, nel quale governavano i filosofi, difendevano lo Stato i guerrieri e lavoravano in tranquillità gli operai. Proprio per merito di questo Stato Ideale vigente allora ad Atene, gli Ateniesi furono in grado di respingere un poderoso attacco effettuato dagli abitanti di Atlantide, che era una grande isola situata al di là delle Colonne d'Ercole, nell'oceano Atlantico.

In un altro dialogo, il «Crizia», Platone riprese il mito e lo perfezionò nel modo seguente. In origine anche in Atlantide vigeva uno Stato Ideale, con i filosofi-governanti, guerrieri-difensori, operai-lavoratori. E tutto procedeva alla perfezione, anche perché l'isola possedeva in abbondanza tutte le ricchezze e la sua città capitale era stata organizzata minutamente nel migliore dei modi (poco mancava che i cani vi fossero legati con le salsicce!); capitale che in seguito è servita ad altri filosofi per creare le linee di una loro perfetta "Città Ideale". Senonché gli abitanti di Atlantide pian piano tralignarono e di peggioramento in peggioramento divennero quel popolo che attaccò con tracotanza, ma anche con totale insuccesso, la gloriosa e perfetta Atene di 9 mila anni prima (salvo che purtroppo anche Atene finì col tralignare, dando luogo alla disordinata democrazia del tempo presente).

In questo mito platonico di Atlantide sono particolarmente da sottolineare questi punti: 1) Platone da buon conservatore e quindi da quel buon lodatore del bel tempo antico che era, si rifugiava nel lontanissimo passato sia per mostrare di rifiutare il presente regime democratico di Atene, sia per non avere l'onere della prova per le cose da lui affermate; 2) Il mitico attacco ad Atene proveniente dall'Atlantide, ossia dall'occidente, è chiaramente il corrispettivo di quello storico proveniente invece dall'oriente con le guerre persiane promosse da Dario e da Serse.

Ciò premesso, dico che, dato che l'Atlantide non è altro che un mito creato dalla fantasia di Platone, è semplicemente puerile connettere a questo mito, a questo parto della fantasia del filosofo-poeta, quella concreta realtà fisica, geografica, antropica e culturale che era la Sardegna antica. È come se un padre decidesse di maritare una sua figlia con un eroe dei romanzi a fumetti; come se gli Stati Uniti o la Russia lanciassero un'astronave per raggiungere l'Iperuranio; come se uno studioso di speleologia, nella serie delle grotte elencate e studiate, mettesse anche la platonica "caverna delle ombre"; come se un geografo, in una carta dell'emisfero antartico da lui nuovamente tracciata, mettesse anche la "montagna del Purgatorio", che secondo la fantasia di Dante esisteva agli antipodi di Gerusalemme...

D'altra parte, se si esamina la descrizione minuta che Platone fa sia dell'Atlantide come isola sia della civiltà che essa ospitava, ci si accorge facilmente che non c'è nessuna corrispondenza di nessun genere con la Sardegna come isola e con la civiltà nuragica che essa ospitava.

Inoltre è un fatto che Platone metteva l'Atlantide al di là delle Colonne d'Ercole, che al suo tempo erano indubitabilmente nell'attuale stretto di Gibilterra. Ed è pure un altro fatto che Platone metteva l'Atlantide nell'oceano Atlantico, che anche allora era indubitabilmente al di là delle Colonne d'Ercole. Ed un terzo fatto decisivo è che l'Atlantide è linguisticamente connessa con l'Atlantico, per cui è ancora puerile ipotizzare l'Atlandide in un mare differente. Ma allora la Sardegna non c'entra proprio nulla in questo discorso, perché essa non è un'isola dell'Atlantico o, viceversa, il mare in cui si trova la Sardegna non è stato mai chiamato Atlantico.

Per questa strettissima connessione linguistica fra l'Atlantico e l'Atlantide, è del tutto irrilevante sostenere che le Colonne d'Ercole potevano essere non nell'attuale stretto di Gibilterra, bensì altrove. Comunque c'è da rabbrividire di fronte all'affermazione che le Colonne d'Ercole fossero fra la Sicilia e l'Africa settentrionale, le quali in epoca geologiche lontanissime sembra che fossero molto più vicine di adesso. A distanza di centinaia e forse di migliaia di secoli, è assurdo ritenere che gli uomini - che forse neppure esistevano ancora nella faccia della terra - pensassero che le Colonne d'Ercole fossero tra la Sicilia e l'Africa e che la loro credenza potesse arrivare di millennio in millennio fino all'epoca di Platone.

Ma c'è un'ultima considerazione, la quale di certo non è la meno importante: Platone nel suo racconto dice che l'Atlantide era scomparsa inghiottita dall'Atlantico - sempre per evitare l'onere della prova ed anche eventuali controlli da parte di altri -, mentre non risulta affatto che la Sardegna abbia subìto la medesima sorte...

giovedì 12 agosto 2010

Come superare la crisi del paradigma lilliano

di Dedalonur

Inevitabilmente il modello sociale da noi attribuito ai nuragici si riflette sulla natura e sulla funzione dei nuraghi, in un continuo gioco di sponda tra immagine mentale del nuraghe e le istanze sociali che produssero il nuraghe.
Così Lilliu, osservando i bronzetti, fece dei polilobati delle rege fortezze e dei monotorre fortini; Contu, considerando dell’uso e del commercio di rame sardo, parlò di funzione di controllo. Per Santoni il nuraghe fu un edificio di natura civile, simbolo di una società che gestiva in modo collettivo beni e risorse, modello poi superato dalla creazione dei “santuari federali”(come per Ugas e in contraddizione col Lilliu). Il Trump è sostenitore di una società egualitaria ma fa del nuraghe la sommatoria delle tre istanze della difesa del territorio, status, proprietà. Per la Balmuth invece il nuraghe è espressione ed esibizione di prestigio. Usai parla del nuraghe come simbolo di un potere non istituzionalizzato dn una società contraddittoria nella quale, se da un lato gli scambi commerciali marittimi presuppongono l’esistenza di una aristocrazia, dall’altro lato non emergono differenziazioni sociali ne nelle abitazioni civili ne nelle tombe. Ugas, vede già nella dislocazione dei proto nuraghi uno strumento di protezione delle risorse minerarie ed agropastorali; nel bronzo recente l’aumento degli scambi con l’esterno determinerebbe la più forte gerarchizzazione del territorio con i nuraghi polilobati. Per Perra, il nuraghe, il villaggio, la tomba dei giganti sono l’espressione più visibile dell’ineguaglianza di una società nuragica contraddittoria, divisa com’è, tra la spinta alla gestione comunitaria delle risorse e quella della aristocrazia emergente la quale tende ad impiegare il surplus economico per consentire la realizzazione dei Nuraghi e degli altri monumenti.
A tutte queste posizioni fa da sfondo il crollo della teoria Lilliana. La fine della regia fortezza, lasciò un vuoto incolmabile soprattutto a motivo del modo in cui rovinò. Essa infatti cadde su se stessa, la teoria militare implose sulle più elementari constatazioni che si possano fare intorno ad una fortezza; ma proprio per questo, essa non fu sostituita e superata da una valida teoria alternativa. Manca dunque anche una disamina organica che stabilisca ciò che della teoria del Lilliu và mantenuto e ciò che andrebbe rigettato; in questa situazione confusa, tuttavia, le reliquie della regia fortezza continuano ad influenzare gli studiosi. Non credo che il pensiero del grande Lilliu sia da rigettare in toto. Ma tra gli aspetti dell’eredità lilliana (per me) più deleteri ed ancora operanti, vi è quella della netta separazione tra le sfere del civile e del sacro, di cui più o meno tutti gli autori risentono. Questa dicotomia è visibilmente all’opera nel pensiero del Santoni e dell’Ugas. In questi studiosi la distinzione tra il civile ed il sacro viene addirittura utilizzato come la cartina di tornasole della decadenza politica. Nella trasformazione dei nuraghi in templi essi intravedono il tramonto della vecchia élite nuragica e del nuraghe. Tronchetti, applica tale criterio anche ai Giganti di Monte Prama per i quali, la rappresentazione di pugili più che di guerrieri dotati della specialistica panoplia è a sua volta segno di decadenza politica. Questo criterio e prospettiva mi pare opinabile potendo comportare varie storture nella ricostruzione della società nuragica. Soffermandoci momentaneamente sui Giganti di Monte Prama, oltre a rilevare la presenza di guerrieri si potrebbe comunque supporre che i pugili siano membri della stessa aristocrazia. Soprattutto, le statue sono associate ai modellini di nuraghi in un chiaro moto d’identificazione (reiterato in vari altri reperti), per cui è dubbio che si possa parlare di una decadenza del nuraghe. In realtà, questi autori coerentemente applicando la dicotomia tra civile e sacro, non possono leggere ed indagare il rapporto ideologico sussistente tra il pozzo sacro magari inserito nel santuario, ed il nuraghe polilobato. Di conseguenza, il riscontro della presunta decadenza politica trova conforto solo nel mantenere aprioristicamente valida la natura civile dei nuraghi. Altri ancora cercano di districarsi tra la contraddizione creata dalla coesistenza di tombe collettive (sinonimo di una società tribale e collettiva) ed il nuraghe frutto (per lo più) di una volontà aristocratica auto celebrativa. Sono soprattutto questi autori ad accennare alla funzione simbolica del nuraghe, ma qui si fermano, giacchè anche per loro continua ad esser valido il significato esclusivamente civile del nuraghe. È evidente per tanto, quali siano le storture consegnateci dall’invalicabile solco tra il civile e il sacro. Esso impedì ed impedisce tutt’ora d’indagare e magari riconoscere un solido legante ideologico tra i vari monumenti del kosmos nuragico. Privi di questa indagine gli studiosi subiscono passivamente, le contraddizioni (apparenti o reali) determinate dalla monumentalità nuragica. Una volta venuta meno la giustificazione militare per l’imponenza ed il numero delle opere nuragiche, la prorompente irrazionalità del nuraghe esplode sprigionando un generico simbolismo che credo debba essere considerato il più formidabile ostacolo alla ricostruzione della società nuragica e del nuraghe stesso. Il simbolismo del nuraghe è la cifra della nostra ignoranza intorno al nuraghe e alla società che lo produsse.
Se in qualche modo avessi ragione, la mancata esplicazione di un ideologia nuragica coinvolgente il nuraghe porta inoltre alla perenne confusione tra aspetti meramente ideologici e i reali fenomeni socioeconomici della società nuragica. Per esempio: la povertà e al contempo la imponente monumentalità delle tombe dei giganti sono fenomeni in contraddizione apparente o reale? La scelta di impiegare risorse per erigere tali monumenti, tuttavia presentando corredi funebri poveri, deriva da una ripartizione delle risorse in cui la torre, assume la priorità rispetto al corredo? Se la povertà dei corredi collettivi è reale, allora come spiegarsi la profusione di risorse nei Nuraghi? D’altro canto, se la povertà è apparente (come accade in numerose altre culture in cui l’aristocratico si mimetizza da povero) ed il nuraghe è il vero simbolo di ricchezza, qual'è il nesso (che a questo punto può esser solo ideologico) tra la tomba dei giganti ed il nuraghe?
A scanso di equivoci so bene come gli archeologi questi interrogativi se li siano posti prima e meglio di me. La Lo Schiavo, ha per esempio parlato più volte della tomba dei giganti come monumento di èlite. Altri hanno proposto indagini sulla ritualità delle stesse tombe, e dunque sulle istanze sociali che le presupporrebbero.
Ciò che a me preme sottolineare è che relegare il nuraghe in una sfera esclusivamente civile, od in una oscura nube simbolica, impedisce la valutazione del rapporto ideologico tra i due monumenti e quindi probabilmente, di capire sia gli uni che gli altri. Non mi pare sia un caso se si tenti di sciogliere i nodi gordiani della civiltà nuragica con analisi interessantissime ma di volta in volta, ponendo l’accento su di un singolo aspetto del nuragico e del nuraghe (commercio esterno, grandi polilobati, protezione delle risorse, attività edile impetuosa, presunta gestione collettiva risorse ecc.).
Non posso sottrarmi dal far presente gli imponenti problemi di ordine cronologico che bisognerebbe risolvere al fine di fornire una lettura ideologica del rapporto tra i monumenti nuragici. Una qualsiasi interpretazione elaborata risentirà dela collocazione dei pozzi sacri nel bronzo recente piuttosto che nel ferro. Analogo discorso per tutti gli altri monumenti. Ma su questo punto non v’è che da affidarsi agli archeologi: onore e onere loro è determinare le stratigrafie. Un altro problema pregiudiziale riguarda l’origine del nuragico. L’ipotesi più quotata del momento è la cultura Bonnannaro. Però su di essa gravano a sua volta, gravi problemi cronologici e al di sopra di tutto, la rarità dei contesti archeologici integri. Tra questi vi è per luminosità l’ipogeo di Iroxi, il quale ci parla di una società agropastorale e guerriera, dotata di buone conoscenze metallurgiche con alcuni contatti extrainsulari e già, in qualche modo, gerarchizzata (Ugas, Bernardini). Ma è ancora troppo poco per poter ricavarne una immagine sociale compiuta, e dunque stabilire il livello sociale, l'imprinting dell'identità nuragica. Si può invece tentar di approfondire un problema che riguarda più da vicino la questione della funzionalità del nuragico: l’uso delle ceramiche. A porre il problema è stato a più riprese il Campus. Questo autore lamenta l’assenza di una classificazione funzionale delle ceramiche nuragiche. Esiste ormai, una buona classificazione tipologica e una classificazione cronologica (con problemi vari). Manca invece una nomenclatura indicante quali attività i nuragici svolgessero con un coccio piuttosto che con un altro. Sempre il Campus propone varie soluzioni, ma i problemi, che io sappia, rimangono aperti. La questione è cruciale: se non sappiamo come i nuragici utilizzavano le loro ceramiche, com’è possibile stabilire come venissero utilizzate entro il nuraghe, e dunque l’utilizzo stesso del monumento? Soprattutto, credo esista un problema di livello diverso ed ulteriore. Il significato del coccio varierà a seconda che si trovi entro il nuraghe piuttosto che nella singola capanna o rimarrà inalterato, in quanto sempre e comunque d’uso civile? In altri termini, tale opera classificatoria sarà un lavoro di mera ripulitura (Kuhn) in quanto manterrà inalterata la distinzione tra civile e sacro? Se la mia domanda dovesse apparire poco chiara è perché, non ho ancora fatto notare in modo esplicito, come la funzione civile del nuraghe mascheri la funzione pubblica. Questo intendevo quando parlavo di legante ideologico nel kosmos nuragico. La dimensione pubblica del nuraghe (il che non vuol dire già e di per sé, edificio collettivo) è evidente. Essa fin qui è stata appiattita nella dimensione civile. Poniamo ancor più esplicitamente il problema: il ritrovamento e l’uso di un coccio potrebbe variare di significato a seconda che lo si trovi in un luogo pubblico (nuraghe) od in una capanna (cvile-privato)?
Credo che il problema vada posto. Sacrum profanum, publicum privatum habent; in questa frase di Plauto è visibile la fusione delle due sfere, quella pubblica e quella religiosa. Ciò che appartiene alla divinità (Sacrum) è altresì pertinenza del pubblico, mentre il profanum non avendo alcuna parte nel divino, è privato. A dimostrazione di quanto detto, basti ricordare l'istituto giuridico della consecratio (publicatio) bonorum. A seguito di un delitto (in origine un tabù religioso) per ripristinare la pax deorum, un bene privato doveva esser ceduto alla sfera divina tramite un elaborata cerimonia la quale a sua volta, attesta l'arcaicità dell'istituto (Francesco Salerno). Tramite la consecratio il bene abbandonava la sfera privatum-profanum diventando sacer-pubblicum, al fine del ristabilimento dell'amicitia tra dei e uomini. Potrei fare altri esempi, ma spero basti questo. Con questo non si vuol certo pretendere che le categorie romane siano di per sé applicabili alla cultura nuragica. Basti richiamare tra i tanti, Durkheim: “due fatti derivanti da due società diverse non possono essere comparati in modo utile solo perché sembrino somigliarsi; occorre che queste società stesse si somiglino cioè che costituiscano varietà della medesima specie”. Certo la società romana è di diversa specie da quella nuragica. Ma nelle varie società del bronzo solo le culture più avanzate possono vantare luoghi “esclusivamente” preposti alla divinità e luoghi esclusivamente dediti all’esercizio del potere pubblico: penso agli egizi e agli ittiti. Un parallelo che si potrebbe proporre è quello del mondo miceneo, dove la probabile assenza di un ceto sacerdotale portò al mantenimento del Wanax come pontefice e re coadiuvato dai nobili in funzione di sacerdoti, e del megaron come principale luogo cultuale e di decisione politica. Credo non sia balzano immaginare anche per il nuragico, una più o meno perfetta simbiosi del Sacer-pubblicum. Un esempio di come questa prospettiva modificherebbe le interpretazioni attuali sul nuragico si può già scorgere nella sua applicazione ai concetti espressi dal Santoni, Ugas, Tronchetti. La maggiore religiosità espressa dai nuragici con il sorgere dei santuari già nel 1200 a.C. di per sé non comporterebbe l’esautorazione del nuraghe dalle sue funzioni originarie (comprovando la decadenza politica), ché infatti continua ad esser venerato quale totem di quella società. Comporterebbe soltanto una maggiore articolazione della funzione pubblica e dunque (eventualmente) della ritualità e del culto, che a sua volta rimanda ad una maggiore articolazione della società nuragica. Va ovviamente sottolineato con forza come la dimensione pubblica a sua volta, non dimostri di per sé il culto e la ritualità entro il nuraghe. Non di meno, poiché la dimensione pubblica è condizione necessaria anche se non sufficiente per parlare di Nuraghi come “templi”, è davvero possibile escludere dal nuraghe pubblicum il sacer? In una società come quella nuragica che almeno sino alla produzione degli askos, non ebbe una produzione vascolare esclusivamente dedicata alle funzioni liturgiche, inquadrare un determinato vaso nel suo utilizzo pubblico potre dischiudere nuovi sentieri. A queste domande non si può rispondere se non analizzando l’ideologia sottesa ai nuraghi, pozzi sacri, megaron, tombe dei giganti, rotonde e quant’altro, nel tentativo d’inquadrare lo sfondo religioso e individuare i segni di rito e culto. Il danno prodotto dal modo con cui la teoria delle rege fortezze crollò, lasciando del tutto in vigore la dicotomia civile-sacro, è che tale domanda non risulta ancora posta e affrontata per il, Nuraghe.
Da qui, credo, la palude.

lunedì 9 agosto 2010

Il significato simbolico del nuraghe quadrilobato

di Fabrizio Sarigu


Il tema che vorrei trattare con voi in questo post riguarda il possibile significato simbolico dei nuraghe, soffermandomi però su una tipologia particolare, quella dei nuraghi composti quadrilobati, come tipica rappresentazione dell’universo.
Il nuraghe quadrilobato si caratterizza per la presenza di quattro torri poste agli angoli di una sorta di quadrato ed una quinta, molto più grande, posta al centro. Questa rappresentazione iconica è diffusa in tutto il mondo, in ogni luogo rappresentante sempre lo stesso significato, il kosmos nell’unione cielo e terra.
Il discorso però potrebbe essere più complesso e anche racchiudere conoscenze che non tutti sarebbero disposti a riconoscere agli antichi, raffinate conoscenze di carattere astronomico. Il nuraghe quadrilobato sarebbe la rappresentazione del piano dell’eclittica, che il mito antico nominava con termini “tecnici” diversi, pur indicando sempre lo stesso oggetto. Il mito si riferisce all’eclittica con varie allegorie simboliche, come le mura di una città, oppure il labirinto, ma per quanto riguarda i nomi solitamente si usavano termini quali: terra “piatta”, “vera”, ”quadra”, “di mezzo”(si, quest’ultimo caso ricorda il signore degli anelli, che è un sunto del mito nordico, quindi di cosa volete che parli se non di astronomia?).
Questa nomenclatura ha infatti favorito una confusione di significati, per cui i più sostengono che l’idea che la terra è una sfera sia un’acquisizione relativamente recente e che questa idea fosse invece sconosciuta agli antichi. Dall’analisi comparata del mito di numerosissime civiltà nel mondo (grazie al contributo del grande De Santillana), benché lontane nello spazio e nel tempo, è però possibile individuare un linguaggio tecnico mediante il quale gli antichi astronomi tramandavano, sotto forma di memotecniche, le loro conoscenze in modalità “segreta e iniziatica”. L’analisi di questi miti può aiutare a comprendere questo linguaggio.
Anzitutto sfatiamo vecchie concezioni, come sottolineava già Aristotele, tutte le popolazioni (ivi compresa quella nuragica) che avevano interesse scientifico/religioso verso il cielo ed il nostro satellite in particolare, non potevano non notare che l’ombra del nostro pianeta sulla superficie lunare è curva (la famosa mezza falce) in oltre osservando l’orizzonte, una nave appare alla vista prima grazie all’albero, poi allo scafo. Gli esempi potrebbero moltiplicarsi ma è evidente che questi aspetti non potevano non essere notati. Forse il popolo poteva anche essere tenuto all’oscuro di certi particolari, ma chi faceva dell’osservazione una professione sacrale non poteva non notarli.
Quindi cosa intendevano gli antichi quando parlavano di terra piatta?. La terra “piatta”, era il termine con cui si indicava il piano dell’eclittica, terra perché “abitata” dalle potenze divine planetarie (cani di Persefone come gli chiamava Pitagora), che svolgevano le loro evoluzioni avendo in sottofondo le 12 costellazioni. Da una posizione e concezione geocentrica dell’universo, l’eclittica appariva come una tavola (la tavola che Zeus rovesciò nel mito di Deucalione, scatenando il diluvio, poi vedremo cosa significa), nella quale come detto si muovevano le divinità planetarie, sole, luna ( i nodi draconici) e inoltre era un mondo/dimensione abitato dagli esseri dello zodiaco (il nome è indice della concezione “vivente” sottostante).
La dea madre, Demetra (letteralmente madre terra), sicuramente è una sorta di rappresentazione allegorica del nostro pianeta come madre che partorisce la natura, ma la stessa immagine è, al contempo, sovrapposta anche all’altra terra, quella piatta. Due esempi possono aiutare a capire. Il primo è il mito di Uranos e Gaia, dove Uranos (la parte maschile del cielo indicata dal piano dell’equatore, le stelle fisse) mediante il suo pene (asse della terra) era unito a Gaia ( la parte femminile, il nostro pianeta, ma anche il piano del’eclittica). Tuttavia, Saturno con la sua falce evirò il padre. Il mito ha lo scopo di dare ragione dell’obliquità dell’eclittica, inclinata di circa 23,27 gradi rispetto all’equatore celeste, attraverso l’allegoria dell’evirazione dell’asse terrestre. La terra e l’eclittica sono rappresentate entrambe dalla figura della dea madre, perché se l’eclittica non fosse inclinata sarebbe sovrapposta al piano dell’orizzonte/ equatore celeste, quindi le due terre coinciderebbero, la nostra e quella degli dei. Fra l’altro quest’inclinazione è causa della precessione degli equinozi e quindi (anche per Platone) dell’origine del tempo. L’altro esempio, forse meno nobile, ci è dato da una favola comune, ma che da l’idea del limite oltre il quale riesce a spingersi il messaggio del mito. Anche Biancaneve è una dea madre, chi o che credete che sia il principe AZZURRO???, che però non ci si riferisca proprio al piano terrestre, alla semplice natura, ce lo indica un dettaglio, il fatto che i nani siano 7. Infatti i numeri 5 (i cinque pianeti visibili), 7 (cinque pianeti visibili, più sole e luna) e 9 (cinque pianeti visibili più sole e luna più i due punti draconici) sono numeri associati all’eclittica, e non può essere finito la per caso quel riferimento. Biancaneve è accompagnata da 7 nani/pianeti.
Premesso questo, l’eclittica è sempre stata considerata avente 4 punti fondamentali, i due solstizi e i due equinozi, dai quali partono rispettivamente il coluro solstiziale (cerchio massimo passante dai solstizi e dai due poli dell’eclittica) e il coluro equinoziale (cerchio massimo passante per gli equinozi e i due poli dell’eclittica). Osservando il tutto come dire dall’alto in modo che l’eclittica appaia come un cerchio, i due coluri appaiono come linee che si intersecano nel punto del polo nord (o sud) formando la croce e dividendo il piano in quatto spicchi di 90° ciascuno.
A sua volta, l’asse dell’eclittica è l’asse cosmico, giacchè identifica due punti, (il polo sud e nord dell’eclittica) che sono gli unici punti FERMI (sempre secondo la prospettiva geocentrica) dell’universo, attorno ai quali tutto ruota, compreso l’asse della terra (propriamente l’asse del piano dell’equatore celeste) poiché lo spostarsi del polo nord terrestre rispetto alla polare è uno degli effetti della precessione.
Questo piano veniva spesso rappresentato con quattro torri/pilastri (terra quadra) posti ai vertici di un quadrato raffiguranti i coluri, mentre il pilastro/torre centrale rappresenta l’asse centrale, il perno intorno a cui tutto ruota.
In tal senso il nuraghe quadrilobato sarebbe del tutto simile per simbologia rappresentata ad altri edifici come ad esempio Santa Sofia ad Istambul, per tanto si configurerebbe come una simbologia della concezione che le genti nuragiche avevano dell’universo. Sempre per questo motivo sarebbe possibile ipotizzare che questa tipologia di monumento nuragico fosse oggetto esso stesso di culto, come può esserlo una rappresentazione della divinità, in quanto in un certo senso proprio di rappresentazione divina si tratta.

Sul nome Sardigna

di Massimo Pittau

Sardigna, denominazione sarda che deriva, attraverso una forma toscana ant., da quella lat. Sardinia. In greco si diceva Sardó, forse con l’accento sardiano, che ritroviamo in Buddusò e Gonnosnò (vedi).- In un anonimo commento del «Timeo» di Platone viene riportata la notizia secondo cui, attraverso il nome di una leggendaria donna Sardō, l'isola di Sardegna avrebbe derivato la propria denominazione da Sárdeis, capitale della Lidia. Questa regione era situata nella riva occidentale ed egea dell'Asia Minore e da essa erano emigrati non soltanto gli Etruschi nell'Italia centrale (secondo il famoso racconto di Erodoto, I 94), ma anche e prima i Sardi in Sardegna. Ed infatti i Greci chiamavano Sardianói sia gli abitanti di Sárdeis, capitale della Lidia, sia quelli della Sardegna; esattam. come in seguito fecero i Romani con l'etnico Sardi (OPSE §§ 12, 13, 55). Cfr. Sardara, Serdiana.- Giovanni Lorenzo Lidio (sec. VI d. C.) riporta la notizia, appresa da Xanthos Lidio (sec. VI-V a. C.), secondo cui il topon. Sárdeis significava «anno» o «solstizio», e ciò in onore del dio Sole adorato dai Lidi. La notizia, riferita da autori nati entrambi nella Lidia, sia pure a notevole distanza l'uno dall'altro, è degna della massima considerazione. Io infatti ho ampiamente dimostrato, nella mia opera La Sardegna Nuragica, che la divinità principale dei Protosardi era per l'appunto il Sole, il quale veniva identificato e simboleggiato col Toro, come mostrano anche monete sarde del periodo punico, che portano nel verso la rosella solare ed il toro (vedi Samassi, Tharros, Usellus) (OPSE § 30).



Caro Mauro, ti ho già dato ragione nel riconoscere che la denominazione corrente di "Prenuragici" non è estta, mentre sarebbe meglio sostituirla con l'altra "Presardiani"

sabato 7 agosto 2010

I Nuraghi sono costruzioni polifunzionali?

Di Dedalonur

È difficile, se non impossibile, individuare punti di forza e di debolezza in una teoria priva di veste formale. I corollari della polifunzionalità sono estesi indistintamente a tutte le categorie di nuraghi. Si equiparano dunque in un certo senso, nuraghe a corridoio, a tholoi e polilobato, non tanto nella loro tecnica ma piuttosto come espressione di una società tribale dalle attività produttive non specializzate: a tale società confà un edificio a carattere civile in cui possano essere svolte più attività. Pertanto punto di partenza e suo punto di arrivo, è all'incirca: “il nuraghe è ciò che vi si trova all'interno”. Questo criterio viene applicato sia nella prospettiva sincronica che diacronica. In questa piccola riflessione l'immagine del mondo nuragico che ho tenuto in mente è quella del periodo in cui si affermano i grandi polilobati, pertanto il mio discorso, almeno in teoria non coinvolge il primo periodo dei nuraghi (a corridoio?).
Se grazie al suo approccio empirico la polifunzionalità sventa il pericolo di costruire ipotesi sul ghiaccio sottile, risvolto della medaglia, è che essa non sia ancora giunta alla formulazione di una teoria nuragica del tutto alternativa. L'accentuato empirismo che la contraddistingue sembra l'attuazione della rivoluzione scientifica permanente voluta da Popper: una costante e feroce ridiscussione, messa in crisi, delle teorie acquisite in precedenza. Ma poiché la teoria precedente è quella Lilliana dei nuraghi fortezza, è facile riscontrare come il nucleo e la prospettiva centrali di quest'ultima non sia stato ne intaccato ne aggredito, ma gelosamente custodito e preservato proprio nella teoria polifunzionale.
Infatti, nella teoria polifunzionale si mantiene il carattere esclusivamente “civile” del nuraghe. Come nel castello medievale a cui Lilliu si ispirò, nel nuraghe multifunzione possono esser svolte tutte le attività quotidiane ed economiche senza spiegazione ulteriore. Sempre come in Lilliu le torri, servono al controllo. Solo, si sono eliminati i guerrieri, le lotte perenni tra clan, la veste di fortificazione dal nuraghe è stata strappata (ma non dai polifunzionalisti..e su questo si ritornerà) via. Ma questa, più che una rimessa in discussione radicale della funzione dei nuraghi sembra più un escamotage, una mano di pittura fresca, per far apparire che qualcosa sia cambiato, mentre nulla è sostanzialmente mutato. Lo dimostra un fatto negletto ma sotto gli occhi di tutti. Sottratta la ratio militare qual'è la spiegazione polifunzionale ed empirica di torri alte sino a trenta metri (se fossero meno è lo stesso)? Qual'è la risposta funzionale ad edifici che per la loro ardita altezza si espongono al rischio più o meno costante di crollo, nella evidente consapevolezza dei loro artefici che infatti fan di tutto, con ristrutturazioni, accorgimenti, rifasci, per evitare il crollo? Nietzsche spiegava la Mole Antonelliana con la volontà di potenza dell'architetto, sensazione di forza elargita dalla vittoria sulla gravità. Qui si deve trovare spiegazione all'irrazionale volontà di un intero popolo vissuto millenni fa. Ma questa spiegazione del quid irrazionale nuragico, proprio perchè afferente ad una intera cultura più che al singolo architetto, deve essere sistemica, quindi coerente, veridica, falsificabile. Come, il polifunzionalismo iper-empirico, spiega quelle altezze, quella voluttà tutta nuragica a sfidare il pericolo? Il secondo problema irrazionale è il numero. Come la funzionalità del controllo può spiegare migliaia di torri monumentali? Il controllo infatti spiega il presidio di un punto con un manufatto qualsiasi. Ma non spiega perchè quel presidio e marcatura del territorio abbia assunto la forma di 8.000 monumenti. Sembra che queste domande non abbiano ancora fatto ingresso entro il paradigma della polifunzionalità. Il problema che pongo è che la teoria polifunzionale, soltanto in apparenza è una teoria diversa da quella di Lilliu, per cui, non mettendo realmente in crisi quest'ultima, e non abbracciando una prospettiva davvero alternativa, finisce col lasciarci appiattiti su ricerche e soprattutto su prospettive di 50 anni fa. Ergo, non si passa ad un livello di conoscenza più profondo e superiore, ad una spiegazione più coerente e stringente del mondo nuragico rispetto a quella gloriosa del Lilliu. Oltre a quanto appena detto sul problema dell'altezza e dell'elevata monumentalità, Cartina di Tornasole di quanto osservo non è solo il fatto che non si giunga mai ad elaborare una sua teoria del tutto originale, ma che essa significativamente ostacoli l'elaborazione di siffatta alternativa. Ben'inteso, quest'ultima teoria che s'immagina potrebbe essere pure peggiore.
Ma il vero problema è proprio l'assenza in sé, il fatto che una tale alternativa non giunga mai ad un serio livello di proposta. Questo fatto vuol per lo meno significare, che il già detto non viene rimesso in discussione da alcuno nel suo nucleo centrale. Magari sbaglio ma a questo punto, per coerenza, non rimane che da collocare la “teoria” (o meglio la prospettiva che veste teorica autonoma da Lilliu non ha) polifunzionale nella, scienza normale così come la intendeva Kuhn.
Non è il caso di addentrarsi troppo nella dottrina di Kuhn e nella polemica con Popper, ma poiché il secondo è senza dubbio più famoso del primo, mi sembra necessario citare la definizione di scienza normale data da Kuhn. Chi poi volesse approfondire, potrà leggersi la struttura delle rivoluzioni scientifiche (un bel mattone..) e trovare nel web infinito materiale. Quindi cos'è la scienza normale secondo Kuhn? È quando una comunità scientifica si riconosce in un paradigma teorico che non viene messo in discussione e dove i ricercatori che vi operano fanno un incessante lavoro di ripulitura.. Così definito perchè suo precipuo compito non è quello di scoprire fenomeni nuovi; anzi tra questi sfuggono anche quelli che potrebbero adattarsi all'incasellamento nel vecchio paradigma (dice sempre Kuhn). Il suo compito sta nel garantire alle nuove leve di ricercatori una “promessa di successo che si può intravedere in alcuni esempi scelti e non ancora completi, estendendo la conoscenza di quei fatti che il paradigma come particolarmente rivelatori”. Il successo è garantito pertanto se il nuovo ricercatore opera entro il vecchio paradigma (nel nostro caso quello polifunzionale Lilliano), ripulendolo, cioè ovviando con aggiustamenti vari alle imperfezioni ed estendendone i fatti rivelatori ai dati a non ancora ricondotti entro il paradigma. Quando la teoria della fortezza nuragica era in pieno vigore, qualsiasi elemento strutturale del nuraghe veniva inteso come fatto rivelatore della sua natura militare (ricordate le garitte, i ballatoi, i nuraghi corridoi trappole ecc. ?) . Così adesso, tutto nel nuraghe, è rivelatore della sua natura civile ed economica. Il fatto è che, la teoria dell'impiego meramente civile è una teoria talmente generica ed onnicomprensiva (la fortezza è civile, il tempio è civile, il palazzo è civile) da poter esser estesa all'infinito dai successivi lavori di ripulitura. Inoltre essa, al contrario del nuraghe fortezza non ha veste teorica. Lilliu prese una cantonata, ma elaborò una teoria coerente ed elegante, con presupposti ed ipotesi ben definiti. L'identificazione di questi assiomi permisero d'individuarne le incongruenze, e dunque, la teoria lilliana si rese disponibile alla falsificazione. Mancando invece di veste teoretica, la prospettiva polifunzionale, manca di confini. La polifunzionalità almeno così come adesso viene presentata è un Proteo inafferrabile e non falsificabile. Qualsiasi fatto, dato, può esser sussunto alla norma astratta, basta che tutto ricada nel civile, nell'economico, nel controllo delle risorse e del territorio, cosa che è scontata. In questo senso, la prospettiva della polifunzionalità, garantendo un così alto grado di successo, cioè di approvazione scientifica accademica, scoraggia ed è d'ostacolo (come tutte le scienze normali) all'elaborazione di una teoria alternativa. Quest'ultima, giacchè ogni cosa può rientrare a buon diritto nel civile, verrebbe evirata della sua pars destruens. La prospettiva polifunzionale, cioè, non può esser criticata (è inutile) ne confutata (è impossibile) perchè in definitiva è vero, ovvio, certe volte anche tautologico, ciò che dice. Proprio perchè priva di confini teorici netti non si presenterà l'evento, scoperta, che collocandosi al di là del suo paradigma inizi a costituire punto di leva per scalzarla dalle fondamenta (chè non ne ha..).
D'altra parte, si può confrontare una “prospettiva” con una teoria alternativa vera e propria?
Se la pars destruens è evirata, la pars costruens di qualsiasi nuova teoria sarà probabilmente soffocata. Anzitutto la nuova teoria con veste formale e sintesi coerente (com'è scontato attendersi da tutte le teorie) sarebbe assai più vulnerabile di una prospettiva ipergeneralista, meramente empirica, proteica come l'attuale. Senza dubbio se si collocassero al nastro di partenza la prospettiva funzionalista ed una altra teoria non vi sarebbe partita. La genericità del polifunzionalismo, la sua adattabilità a qualsiasi dato, finirebbe col concedere un grande vantaggio nell'applicazione del criterio di verosimiglianza. Ma non solo. Quand'anche la teoria alternativa nella sua pars costruens non sfigurasse troppo, la promessa di successo sposterebbe inconsapevolmente consenso vero il lavoro di ripulitura del paradigma.
Uno stallo dell'innovazione causato dalla scienza normale è fisiologico. Ma qui la sensazione è di trovarsi dinanzi ad un “di più” di scienza normale, ad una forma di conservatorismo parossistico. C'è una sorta d'imbarazzo di fronte a questo Proteo a cui non soltanto non riusciamo a strappar risposte, ma con cui si fatica a individuare e porre persino delle domande sulle contraddizioni.
Se questi pensieri riflettono la realtà è spontaneo ritenere che il tempo sarà galantuomo promuovendo da solo le condizioni del rinnovo. Ma poiché non si danno cambiamenti senza qualcuno che s'impegni per essi, occorre riflettere sulle condizioni che tutt'ora sostengono la sopravivenza del polifunzionalismo. Quindi, perchè ci troviamo in questa palude?

mercoledì 4 agosto 2010

A che servivano i nuraghi?

di Fabrizio Sarigu


Il paradigma di riferimento della scienza accademica nell’interpretazione della funzione dei nuraghi vuole che queste incredibili strutture siano sostanzialmente delle fortezze (con poco spazio per altre idee) deputate alla difese delle comunità che risiedevano nelle sue prossimità.
Eppure, da un’analisi anche superficiale degli stessi, appare evidente che non sia possibile asserire, per le caratteristiche che lo contraddistinguono, una funzione di quel tipo. Certo il nuraghe è imponente e ha, di prima impressione, la forma della classica torre difensiva medioevale, eppure gli spazzi interni sono troppo angusti per poter pensare che possa aiutare a resistere ad un assedio o ospitare una guarnigione. Tutta la struttura ha una razionalità che sembra agli antipodi rispetto quanto richiesto da una fortezza, salvo possibili rimaneggiamenti successivi in situazioni disperate.
Se dunque partiamo da questo presupposto è possibile asserire che il nuraghe avesse altre funzioni e soprattutto di carattere simbolico-religioso? Probabilmente la risposta può essere positiva se consideriamo alcuni aspetti.
Anzitutto in questa analisi bisogna partire dal dato apparentemente più banale, ma comunque l’elemento di partenza di qualsiasi speculazione interessi il nuraghe. Il nuraghe è, c’è ed esiste, è la “forma” con cui l’abitante della Sardegna di allora antropicizzava il territorio, lo rendeva “umano”, conosciuto, sotto controllo e quindi sicuro. L’atto dell’antropicizzare, l’atto del “fondare” un territorio è però un atto religioso, un atto che ha proprio lo scopo di sacralizzare l’ambiente circostante. La funzione psicologica sottostante è facilmente coglibile e rientra sempre nel bisogno intimo di controllo e sicurezza dell’ambiente in cui si vive. Così come i nostri simboli religiosi posti nei valichi più improbabili delle montagne, i quali rincuorano poiché veicolano il messaggio del passaggio dell’uomo in quel luogo, luogo che per tanto non è più “selvaggio”, ma è strappato alla natura e antropicizzato appunto.
Questa è la prima funzione del nuraghe, da un punto di vista psicologico è anche la più importante.
Dietro questo fatto, ripeto, c’è un pensiero religioso che non può non riflettersi sul nuraghe stesso. Come sottolinea Mircea Eliade, il territorio non è “qualitativamente” uguale da un punto di vista religioso e simbolico, ma si presenta al contrario qualitativamente diverso per l’uomo che vi abita. Lo spazio sacro va solitamente “fondato” e messo in risonanza con le armonie celesti, cosa che sovente si raggiungeva attraverso allineamenti di carattere astronomico al fine di realizzare il principio del così in cielo e cosi in terra. Quando il cielo veniva sovrapposto in quel modo alla terra (tramite il monumento), ecco che quello spazio diveniva fondato, sacro e quindi qualitativamente diverso. Anche l’incredibile numero dei nuraghi in Sardegna rappresenta un indizio di non poco conto sulla sua funzione “fondante” il territorio, si tratta di una vera e propria ossessione (e compulsione) costruttiva, che benché interressi diversi secoli è comunque un dato incredibile, che solitamente si riscontra solo nei fenomeni a carattere religioso. Probabilmente la Sardegna è il luogo sulla terrà che è stato più “sacralizzato”, gia Mircea Eliade la teneva per questo in grande considerazione. Viceversa come dare ragione di 7000 ( in realtà dalle 8000 alle 10000 probabilmente) fortezze nell’isola? Da chi dovevano difendersi, quando mai nella storia si è avuta un simile accanimento costruttivo militare?. In quelle epoche, la densità della popolazione era talmente bassa che vincere una battaglia consentiva il controllo di un vastissimo territorio, ecco perché le legioni non erano numerosissime ma l’impero romano era vastissimo. Considerando la grandezza del territorio sardo questo numero è più che spropositato. L’idea che l’isola si sia dedicata ad un simile sforzo militare senza che dagli scavi sia mai emerso nulla di una simile, devastante, attività militare, penso sia sufficiente a far cadere ipotesi di quel tipo.
Il nuraghe fonda quindi il territorio circostante, lo difende spiritualmente (se proprio dobbiamo salvare in qualche modo la funzione difensiva) per tanto è in relazione col cielo (come ormai testimoniano gli studi di Zedda et Alii). A riguardo non penso siamo ancora in grado di dire se questa sovrapposizione celeste fosse necessaria come dire ante hoc, per l’atto di fondare e poi il nuraghe svolgesse funzioni diverse o varie, oppure se fosse anche post hoc e quindi legata alla specifica funzione religioso-simbolica che il monumento andava da quel momento in poi a svolgere, anche se forse è più probabile la seconda. Lo stesso Zedda evidenzia come molti nuraghi siano in relazione con la costellazione del centauro (e croce del sud ancora all’epoca un tutto), che sparì dall’orizzonte sardo intorno al 1000 prima dell’era volgare, casualmente in concomitanza (approssimativamente) con l’abbandono dei nuraghi. Gli studi ad oggi non hanno ancora fornito una ragione valida per spiegare il perché del loro a tutti gli effetti abbandono, poiché mancano dei segni stratigrafici che aiutino a capire.
Ma a questo punto, se il nuraghe ha una funzione simbolico-religiosa, fondante il territorio e in relazione col cielo e con particolari costellazioni, logicamente quando queste costellazioni “tramontarono” ( definitivamente, ma in realtà torneranno quando il cielo riassumerà la configurazione che aveva tra il 2000 e il 1000 p.e.V., ossia tra un po’ meno di 22000-21000 anni), come nel caso del centauro, venne meno la funzione del sistema dei simboli legati ai nuraghi, il quale sistema simbolico non era più in sintonia col cielo e quindi, magari per questo, venne abbandonato senza colpo ferire.
Quando la macchina del cielo cambia faticosamente marcia, le stelle che trans-grediscono non possono più ricondursi indietro.

martedì 3 agosto 2010

Origine di Sardara e del suo nome

di Massimo Pittau

Sardara (Sárdara) (villaggio del Medio Campidano). L’abitante Sardaresu.- Questo villaggio quasi certamente costituisce uno dei primi insediamenti che i Sardi fecero nell'Isola al loro arrivo dalla Lidia (nell'Asia Minore), come dimostra chiaramente il fatto che il toponimo si collega col nome dei Sardi e della Sardegna (vedi).
Attorno alla metà del sec. XIII avanti Cristo i Lidi o Sardiani sbarcarono in primo luogo nel golfo di Cagliari e si insediarono ad Assemini ed a Serdiana (vedi); poco più tardi si insediarono appunto a Sardara, probabilmene raggiungendola dopo aver circumnavigato la Sardegna meridionale ed essere poi sbarcati nel golfo di Oristano. La denominazione sia di Serdiana che di Sardara serviva ad indicare la diversità dei nuovi arrivati rispetto ai gruppi umani precedenti che vivevano ancora in quelle zone (vedi M.Pittau, Storia dei Sardi Nuragici, Libreria Koinè, Sassari, passim).
L'antichità di Sardara è pure dimostrata dal fatto che nel suo abitato si trova un pozzo sacro nuragico, sul quale in seguito si è inserito in maniera sincretistica il culto di santa Anastasía (vedi M.Pittau, La Sardegna Nuragica, I ediz, pg. 136).-
È molto probabile che il toponimo Sardara sia da distinguere in Sard-ar(a) con la vocale finale paragogica e sia un plurale sardiano, per cui propriamente significherebbe «(i) Sardi» (UNS num. 3).-
Il nostro villaggio compare tra le parrocchie della diocesi di Terralba che nella metà del sec. XIV versavano le decime alla curia romana (RDS 435, 986, 1396, 2432). Inoltre è tra i villaggi che sottoscrissero la pace fra Eleonora d'Arborea e Giovanni d'Aragona del 1388 (CDS I 832/2, 833/2). Ed è pure citato nella Chorographia Sardiniae (122.14; 200.34) di G. F. Fara (anni 1580-1589) come oppidum Sardarae.

Poscritto: Rispondo ad un mio lettore.
I) Sono convinto che il nome dei Prenuragici, ossia del popolo o dei popoli che abitavano la Sardegna prima dell’arrivo dei Sardiani dalla Lidia verso la metà del XIII a. C., si trovi in qualcuno dei numerosi toponimi prelatini che restano tuttora nell’Isola, ma io non sono ancora riuscito a individuarlo.
II) Invece della loro lingua sono riuscito a individuare numerosi nomi di piante o fitonimi, i quali sono di origine “mediterranea”, ossia preindoeuropea: ad es. antunna, túnniu, tuntunnu «fungo», arrideli «fillirea», colóstri «agrifoglio», tiría «ginestra spinosa», ecc. (vedi M. Pittau, La Lingua Sardiana o dei Protosardi, Cagliari 2001; Libreria Koinè Sassari).

lunedì 2 agosto 2010

Mito antico (e moderno) e conoscenza astronomica (I parte)

di Fabrizio Sarigu

Esiste una pubblicazione, fondamentale, conosciuta veramente da poche persone ma citata a sproposito da molti che rappresenta una pietra miliare nella storia dell’interpretazione del mito, un testo che ha il potere, pochi altri libri lo hanno, di cambiare definitivamente una visione, una rappresentazione su un argomento. Crea una vera RIVOLUZIONE (termine come vedrete più che appropriato) concettuale, una volta letto l’idea della storia dell’uomo non sarà più la stessa, andando ad allargarsi in una sorta di effetto alone anche ad altri argomenti.
Il testo di cui voglio parlarvi è il Mulino di Amleto di Giorgio De Santillana e Hertha Von Dechend, si tratta di un’opera in cui ogni parola trasuda conoscenza, per tanto difficilissimo da riassumere. Inevitabilmente al presente articolo dovranno seguirne altri, tuttavia è mia intenzione riportare almeno lo schema di base nell’analisi del mito come riportata nel libro.
Il tema è dunque il mito, a partire da quello verso cui abbiamo più familiarità ossia quello greco-romano, ma anche il mito nordico, egiziano, assiro-babilonese, cinese, maori e delle popolazioni sud e nord americane. Quindi un’ analisi comparata del mito di popoli diversi nel tempo e nello spazio, eppure accomunata da un’unica struttura di base. Cambiano gli arredi scenici, i protagonisti e alcuni particolari (il contenitore) eppure la struttura (il contenuto) è sempre quella. Ovunque nel globo l’uomo ha raccontato sempre le stesse storie cercando di realizzare quello che pare essere sempre stato l’unico vero comandamento mai seguito dall’uomo, il quale recita (ed è famigliare anche per noi): sic in coelo et sic in terra.
Il mito.
Molti autori hanno cercato di trovare la chiave di volta che possa spiegare, dipanare, la grande matassa che imprigiona i significati e i segreti nascosti nel mito, una su tutti la psicoanalisi che ha cercato nell’inconscio la chiave per dare ragione dei suoi significati. Eppure il mito pare nascondere sempre una chiave oscura e queste interpretazioni paiono non soddisfare, non placare il dubbio.
Improvvisamente però i concetti dei miti, che presentano sempre e comunque una logica interna stretta, emergono chiaramente se gli si interpreta per quello che in realtà sono, ossia il linguaggio tecnico-scientifico a disposizione degli antichi per tramandare la SCIENZA SACRA, ossia l’astronomia (anche nella sua sfumatura astrologica, scienza sacra, scienza e religione come un tutt’uno), e la poesia fu il mezzo. Così ad esempio, acquistano significato i geroglifici del libro dei morti, che gli egittologi consideravano poco più che lo sclero di qualche pazzo sacerdote e usavano dotte parole per descrivere pseudo formule magiche e religiose, parole dotte che nascondevano ignoranza grande (non ci capivano un tubo insomma) e salvavano la faccia parlando di sproloqui religiosi appunto. Analizzando i testi astronomicamente invece emergono numerosissimi termini astronomici appunto e il testo non è altro che una mappa stellare (descritta allegoricamente) che dovrà guidare l’anima del re verso il regno dei morti in sicurezza (scienza sacra, conoscenza scientifica e religione si fondono in un unicum inseparabile).
Come si può fare scienza con la poesia? Apparentemente per noi è impossibile, eppure fu proprio la poesia la prima modalità con cui la scienza fu tramandata (l’altra sono i monumenti di pietra, prima vera forma di scrittura dell’umanità). Certo gli antichi avevano una visione elitaria della scienza, pochi la dovevano capire, ma tutti dovevano saperla (la comprensione seguiva nell’iniziazione la conoscenza). Così un greco antico conosceva a memoria l’iliade e la descrizione delle alte mura di Troia, era la loro cultura d’altronde, ma pochi dovevano sapere che le mura di troia erano l’allegoria dell’eclittica e che tutta l’opera è la descrizione allegorica delle “crisi” che segnano il succedersi delle ere astronomiche (una crisi terribile per l’uomo che studiava/adorava il cielo, tutti i riferimenti saltavano, i coluri erano da ricalcolare, le stelle tutte trasgredivano) e la guerra (fra uomini, fra dei, fra animali) era il linguaggio tecnico per esprimere una realtà scientifica studiata come tale, la lotta fra le forze della staticità (i Deva) e le forze del movimento (gli Asura) che davano vita al fenomeno della precessione degli equinozi. Si parlava esplicitamente di una cosa (essoterismo) ma chi aveva le chiavi sapeva quale fosse il significato nascosto per i pochi (esoterismo). Questa è la visione della scienza per gli antichi, non c’era spazio per la democrazia, era tesoro (il TESORO) di pochi e così doveva essere. Ancora vi sembra strano fare scienza col linguaggio della poesia? Eppure Parmenide tramandò la sua filosofia sotto forma di poema filosofico, Platone si serviva dei miti (nobili menzogne) e ancora Lucrezio scrisse il de rerum natura. Il poeta allora era sommo non perché tecnico nella sua arte, ma perché i suoi temi erano LA SCIENZA SACRA ( espressa in allegoria esoterica) che doveva saper maneggiare per poter fare DOTTA POESIA. E Dante dove lo vogliamo lasciare? Ci sarà tempo anche per analizzare la divina commedia nel suo significato esoterico (livello nascosto di lettura).
La tesi di De Santilana (epistemologo, professore di storia della scienza presso il MIT ) è semplicemente questa, il mito come linguaggio con cui gli antichi tradussero le loro conoscenze del cielo e le tramandarono ai posteri in modo che le stesse arrivassero solo a chi era “destinato” a riceverle, ma allo stesso tempo patrimonio inconsapevole di tutti.
Precisato questo, prossimamente cercheremo di evidenziare il sistema delle conoscenze astronomiche degli antichi e come questo sistema sia stato incastonato nel mito.

domenica 1 agosto 2010

Origine di SERDIANA e del suo nome

di Massimo Pittau

Serdiana (villaggio del Campidano di Cagliari). L’abitante Serdianesu.
Anche il nome di questo villaggio è carico di importanti notazioni storiche relative alla Sardegna antica, anzi antichissima. Intanto è evidente che esso è corradicale con gli altri toponimi Sardara, Sardegna, Sardòri (2: Teulada, Villacidro); la prima vocale di Serdiana è differente da quella degli altri toponimi citati, perché è finita col trovarsi in posizione pretonica.
Ciò premesso dico che il nostro toponimo corrisponde in maniera sorprendente al nome della Sardiane, regione che traeva la sua denominazione dalla città di Sárdeis, capitale della Lidia, nell'Asia Minore, terra di origine dei Sardi, oltreché degli Etruschi (cfr. Sardegna). Come abbiamo già detto per Sardara (vedi), anche la denominazione di Serdiana serviva ad indicare la diversità dei nuovi arrivati rispetto ai gruppi umani precedenti che vivevano ancora in quelle zone.
Ma c'è di più: premesso che la grande dea Artemide, conosciuta in epoca antica in tutto il mondo mediterraneo, era quasi certamente originaria della Lidia, come dimostra anche il fatto che essa era venerata sia ad Efeso (Artemide Efesia) sia a Sárdeis (Artemide Sardiana), è molto probabile che i Sardiani o Protosardi, subito dopo il loro arrivo dalla Lidia in Sardegna, abbiano fondato un centro denominato Arsemine/Assémini (vedi) in onore di Artemide Efesia ed un centro denominato Serdiana in onore di Artemide Sardiana (cfr. M. Pittau, Storia dei Sardi Nuragici, Domus de Janas edit., passim).
È dunque evidente e certo che Serdiana è uno dei primi centri fondati dai Sardi dopo il loro arrivo in Sardegna ed è probabile che essi lo abbiano chiamato in tale modo in onore della grande dea Artemide Sardiana.
Non sono riuscito a rintracciare una attestazione del nostro villaggio precedente a quella che ne dà G. F. Fara, Chorographia Sardiniae, 216.20 (anni 1580-1589) come oppidum Serdianae. Ma questo silenzio sul nostro villaggio si spiega non col fatto che esso fosse andato distrutto, bensì col fatto che, vicinissimo al capoluogo della diocesi di Dolia, la sua storia religiosa ed amministrativa era confusa con quella di Dolianova appunto (vedi). In un documento del 1655 il toponimo viene citato come Sardiana («Archivio Sardo del Movimento Operaio», 14/16, 1981, pag. 299).