giovedì 3 dicembre 2020

e/o, analisi critica ad un articolo di A. Stiglitz

di Franco Laner


 

Oh, che bel castello! La fotocopia non è venuta male, è proprio l’immagine originale poco definita (Archeologia Viva 204). Le torri sono circolari e/o quadrate.

La teoria del nuraghe fortezza trova nell’attivista di condivisione sociale delle conoscenze, l’archeologo Alfonso Stigliz, un modo nuovo di proporsi senza mai sostenere la teoria, madre di ogni sciocchezza. Tempo fa, dovendo scegliere un piatto in un ristorante gettonato, notai la seguente proposta: pesce veloce del Baltico su letto di crema di mais. Ne chiesi la descrizione: polenta e baccalà! Questo mi venne in mente quando mi informai sull’autore di un articolo su Archeologia Viva, n. 204, “C’era una volta un nuraghe dove…”, Alfonso Stigliz, che nella sua autobiografia si definisce come scritto sopra. Forse aspira a fare il giornalista, mi sono detto, oppure il professore o il pubblicista, boh! Sapevo che fosse archeologo. 

Sinceramente preferisco spazzino piuttosto che operatore ecologico o domestica a collaboratrice familiare. Altrove si definisce archeologo con gli scarponi. Come dire: scarpe grosse e cervello fine? E/o archeologo che si contamina con gli scavi.

Comunque sia l’articolo tratta dell’armoniosa convivenza fra nuragici e fenici, sostenuta dai reperti di scavo del nuraghe S’Urachi di San Vero di Milis.

Si meraviglia l’Autore che il nuraghe sia stato realizzato sul piano, acquitrinoso per giunta. Ma come?

I nuraghi devono essere a vista, in alto, come un castello che si rispetti. Si consoli Stigliz. Il nuraghe Funtana di Ittireddu è nel posto più basso della valle. Piuttosto pensi che il nuraghe può essere in cima ad un cocuzzolo e/o in pianura.

Voglio soffermarmi però sulla questione che mi sta a cuore, quella del nuraghe fortezza, madre di ogni sciocchezza. Fin che potrò non smetterò di ripetere alla nausea questo slogan, convinto forse che repetita iuvant!

La sua ricostruzione è molto birichina. Mai si dice che il nuraghe abbia destinazione militare. Anzi è possibilista. C’è un fosso di qualche metro davanti all’antimurale. Cosa potrebbe essere? Il letto di un vecchio torrente, un sistema di drenaggio e/o un fossato difensivo. Se cerca bene forse trova i segni del ponte levatoio… 

Ci sono tre soldati, uno di ronda, uno a guardia dell’entrata, portale con profilo gotico (ovvio, nella Sardegna nuragica c’erano i prolegomeni gotici), uno, pacifista che si intrattiene col nuovo arrivato fenicio. 

L’innovativa sorpresa è però il coronamento delle torri: i merli, anch’essi con profili gotici. Ma perdio, come è possibile realizzare un coronamento a sbalzo su muratura a secco? Nel disegno i nuraghi non hanno pianta circolare, sono stondati, anzi sono quasi quadrati. Sono circolari e/o quadrati.

In fin dei conti il nuraghe è a un tiro di schioppo dai modelli di nuraghe quadrati di Monte Prama.

Il disegno è un capolavoro: non è nitido, ma scontornato, evanescente, è un sogno.

Vero e/o fantastico al contempo.

Difficile star seduti su due sedie, anche perché gli umani hanno solo un culo.

Venezia, 03/12/2020

 

giovedì 19 novembre 2020

A proposito de Nel Segno di Orione

 

di Mauro Peppino Zedda


Nei giorni scorsi mi è arrivata una lettera dell'orientalista Federico Mazza, contenente una critica al mio libro Nel Segno di Orione.

Nel 1988, lo studioso in questione si cimentò nella interpretazione della iscrizione Adon Sid Addir B'by presente nel tempio di Antas a Fluminimaggiore propose che il termine B'by potesse riferirsi ad ambito egizio: «è ormai generalmente acquisito che il Bábys di Ellanico e il Bébon di Plutarco indicano il medesimo personaggio divino e che esso si identifica con il demone egiziano noto, in epoca arcaica nei testi delle piramidi e dei sarcofagi, con i nomi di Bȝby, Bȝbȝwy o Bȝbwy e, più tardi, a partire dal Nuovo Regno, anche col nome di Bȝbȝ.

Tale divinità, rappresentata solitamente come un vecchio babbuino o, più tardi, come una figura umana cinocefala, mostra una personalità particolarmente complessa, con caratteri ed attribuzioni che variano dalla natura di genio potente contro le forze del male invocato nei riti di magia, a quella di demone ctonio, a quella di essere dotato di straordinaria attività sessuale, che dona magicamente all'uomo virilità ed inesauribile fertilità, a quella inoltre di divinità connessa con il potere regale» (Mazza 1988: 55).

L'interpretazione di Mazza si è rivelata straordinariamente in sintonia con l'orientamento (rivolto al sorgere di Orione) del tempio e della necropoli di Antas, e non solo, al Bȝby egizio ovvero al demone con sembianze da babbuino protettore della barca solare, paiono richiamarsi le navicelle con babbuino del periodo tardo-nuragico trovate a Baunei e a Villagrande Strisaili.

La presenza in Sardegna di due navicelle tardo-nuragiche che mostrano elementi culturali affini al Bȝby, Bȝbȝwy o Bȝbwy, Bȝbȝ, di tradizione egizia, mi pare un fatto di straordinaria importanza.

Sulla scorta dell'interpretazione di Federico Mazza (1988) e con la datazione al XI-X della navicella di Baunei proposta da Fulvia Lo Schiavo, si potrebbe concludere che B'by corrisponda ad un «personaggio divino e che esso si identifica con il demone egiziano noto, in epoca arcaica nei testi delle piramidi e dei sarcofagi, con i nomi di Bȝby, Bȝbȝwy o Bȝbwy e, più tardi, a partire dal Nuovo Regno, anche col nome di Bȝbȝ», arrivato in Sardegna per il tramite di popolazioni levantine da identificarsi con gli Shardana.

Di seguito vi riporto la critica che di Federico Mazza a Nel Segno di Orione:

 

ho letto con attenzione e molto piacere il suo libro “Nel segno di Orione”, del quale – da un punto di vista generale – ho apprezzato l’originalità di una serie di tesi proposte, insieme alla ricchezza e all’articolazione delle argomentazioni a sostegno.

Più nel merito, il primo capitolo del volume ha rinnovato il mio interesse per uno dei temi più affascinanti della storia mediterranea del II millennio a.C., quale quello del rapporto tra Sardegna e Shardana, nel quadro più generale e articolato delle vicende dei cosiddetti “Popoli del mare”. Il suo esame dei contesti storici e archeologici al riguardo mi è parso molto approfondito e documentato e mi trova concorde con le sue conclusioni, che, dal punto di vista orientalistico, sono in armonia anche con quanto sostenuto in Italia da studiosi come Piero Bartoloni e i compianti Giovanni Garbini e Sebastiano Tusa.

Il secondo capitolo ha ovviamente catturato in modo particolare la mia attenzione e mi fa molto piacere constatare come una mia antica proposta circa l’appellativo B’by riferito al dio Sid abbia potuto trovare ulteriore luce e una rinnovata prospettiva nella sua originale rilettura del rapporto Sid/Osiride/Orione – Sardus Pater. Oltre a ciò, pur non essendo addentro alle questioni di archeoastronomia, mi è sembrato assai significativo quanto da lei evidenziato circa l’orientamento del tempio di Antas rispetto ai riferimenti della volta celeste, ancor più se si aggiungono alle suggestive considerazioni sull’orientamento delle necropoli e dell’altare tardo-nuragico. Sono considerazioni certamente pertinenti e che fanno intravedere come lo sviluppo della conoscenza si possa giovare utilmente del concorso complementare tra tradizionali campi di studio e approcci scientifici innovativi.

Infine, ho trovato parimenti molto interessante la sua valutazione delle statue di Monti Prama come rappresentazione di una sorta di Atlanti che sostengono la volta celeste, resa simbolicamente come uno scudo. Anche a questo proposito le sue argomentazioni mi sono apparse particolarmente plausibili e circostanziate, anche alla luce dell’efficace confronto finale con la raffigurazione di Atlante sulla coppa del VI secolo da Sparta.

Complimenti dunque per questo libro suggestivo e denso di spunti sul piano storico, archeologico e culturale.

 

Federico Mazza

 

 

mercoledì 11 novembre 2020

In ricordo di Antonietta Boninu

Franco Laner

Omaggio alla Signora dell’archeologia sarda


Non ci si abitua alle brutte notizie, nemmeno in tempo di Covid.

E questa, dell’improvvisa morte dell’archeologa Antonietta Boninu, mi ha davvero colto di sorpresa e profondamente rattristato.

In un attimo sono scorse nella mia mente le immagini di alcuni episodi della mia esperienza da dilettante archeologo che ritengo per me costruttivi: quelli in cui ho avuto l’archeologa sarda come interlocutrice.

Ho conosciuto Antonietta – nell’ultimo incontro alcuni anni fa a Paulilatino ci siamo dati del tu – il 4 aprile del 1998 a Ferrara, in occasione del Salone dell’arte del restauro e della conservazione dei Beni culturali e ambientali.

Questa data non è frutto di memoria – ahimè, questa capacità è per me ormai fievole – bensì è dovuta al mio diario sardo, che tutt’ora compilo, anche se sempre più di rado, in cui annoto cose significative sull’archeologia isolana. Per la verità, negli ultimi anni più che un diario di mie esperienze dirette con esperienze sul campo, ipotesi e verifiche – vado sempre più di rado in Sardegna – o registrazioni di nuovi ritrovamenti o memorie di ricercatori, è una cronaca di banalità ripetute, sempre meno rotto da focolai di contributi decenti.

Tornando al Salone di Ferrara, nel padiglione n.5, la Soprintendenza per i Beni archeologici per le provincie di Sassari e Nuoro esponeva restauri di nuraghi, di pitture di età neolitica, come quelle di Anghelu Ruju, di Monte d’Accodi e S. Andrea Priu. Commentai ad alta voce, con dissenso, l’insana operazione di rimettere in loco, sui nuraghi, pietre cadute e in particolare, poiché lo conoscevo bene, la posa in opera di conci caduti e rifacimenti arbitrari del nuraghe Sa mandra ‘e sa Jua di San Nicola ad Ozieri. Ovviamente si avvicinò la Boninu, curatrice della mostra e litigammo ferocemente, tant’è che dopo dieci minuti il padiglione era pieno di visitatori attirati dallo scambio fin troppo vivace del dibattito.

Qualche mese prima, anche con articoli sulla Nuova, avevo giudicato il restauro come un’eutanasia del monumento, poi lasciai perdere per la debolezza dell’archeologa che seguiva il rifacimento del nuraghe di Ozieri, ma con Antonietta avevo pane salato per i miei denti.

L’attaccai ancora in occasione del consolidamento, grazie al cemento armato, del pericolante e straordinario per locazione in cima ad uno sperone di roccia, del nuraghe Majore di Cheremule, che lei imperterrita, smontava e rimontava, come ebbi a scrivere in un articolo.

Altre occasioni di lite furono un paio di convegni, fino all’episodio di Li Punti durante la ricomposizione dei frammenti di Monte Prama, di cui fu la coordinatrice, quando, assieme al compianto prof. Pittau, ci mise alla porta. Sicuramente aveva una fetta di ragione, visto che rompavamo…le armonie!

Eppure ho avuto ed ho, per la Bonino, la massima stima e considerazione. Ha perseguito con tenacità e determinazione le sue convinzioni sulla civiltà nuragica, ma sapeva, e in qualche occasione me lo ha dimostrato, tener conto delle opinioni altrui e anche farle proprie e mai ha rifiutato il confronto.

Quando mi sono rivolto a lei, per consigli e problemi, mi ha trattato signorilmente e aiutato.

L’ultima cosa che le chiesi, essendo lei la responsabile del restauro dei guerrieri di Monte Prama, dove avrei potuto trovare i risultati delle prove di caratterizzazione del biocalcare delle statue previste nei fondi ministeriali per il restauro assegnati al Centro di LI Punti, mi indirizzò a chi di dovere. Sapeva che non erano mai state eseguite e voleva che la questione venisse chiarita.

Dura, inflessibile, determinata. Bellissima figura di studiosa. Questo pensavo durante il suo straordinariamente puntuale intervento a Paulilatino, il 22 giugno del 2016 in occasione di un convegno su Monte Prama che organizzai. Ci fece rivivere l’avventura della ricostruzione dei giganti, le difficoltà e le soluzioni.

Preferisco, mi confidò a Paulilatino, per i miei restauri, gli architetti ai geometri e agli ingegneri.

Grazie per la mia categoria anche se in cuor mio so che non è proprio così!

Pranzammo assieme. Non riuscii nemmeno ad offrire la pastasciutta a lei e a due sue giovani collaboratrici, che la portarono da Sassari. Ovviamente non volle nemmeno un minimo di rimborso spese!

In sintesi. Sarda e archeologa. Inflessibile con sé prima che con gli altri. Cocciuta? No assolutamente, bensì intelligentemente determinata.


Franco Laner

Venezia, 11 nov. 2020

martedì 6 ottobre 2020

E dagli col nuraghe = castello-fortezza, madre di ogni sciocchezza

 

 

di Franco Laner

 

Archeologia Viva n.203, sett-ott 2020

Articolo di Giorgio Murru, coordinatore Scientifico Fondazione Barumini. direttore Polo museale Sanluri, direttore Museo Laconi.

Vetrina per il pluridirettore Murru dove si evocano “Spiriti e dei nella Sardegna preistorica”, (titolo articolo) con aggiunzioni poetiche che fan venire il latte alle ginocchia. Non sono riuscito a finir di leggere il testo, perché mi sono bastate e avanzate le didascalie, delle invero molto belle foto di Nicola Castangia

Apprendo, intanto, che nella domus S’incantu di Putifigari si rimane sbalorditi difronte a tanta meraviglia. Lontani germi del Rinascimento sembrano manifestarsi nella fusione armonica di religione e arte… mentre -più avanti – il portello della domus di Tracucu è incorniciato in una centina (centina = struttura provvisoria di legno che serve per sostenere gli archi e le volte durante la costruzione, v. Vocabolario Treccani) che esprime la scelta dell’artista di inserire un elemento di novità. Che genio quest’uomo! È consapevole di violare la sacralità del luogo

Ma ha mai pensato il direttore che quella chiama centina - che volgare definizione! – non sia la volta del cielo?

E’ sui nuraghi però che il Nostro dà sfogo all’accumulo culturale finalmente liberato:

essi sono la più alta espressione architettonica del megalitismo nel Mediterraneo occidentale

Direttore, non è megalitismo, bensì opera ciclopica. I betili appartengono al megalitismo, anche i dolmen, ma non i nuraghi.

La distinzione è fondamentale per gli archeologi mondiali (v. Le Scienze, n. 145, 1980, art. di Glyn Daniel “I monumenti megalitici”). Col megalitismo si dà definizione e funzione ad un’opera con pochissimi elementi lapidei, mentre con molti elementi l’opera è ciclopica. Entrambi fanno comunque uso di grandi pietre.

L’aggettivo architettonico lo userei per qualche nuraghe, esempio Is Paras, ma per Barumini basta e avanza l’aggettivo tettonico. Altrimenti dovrei dire che tutte le case sono architettura, mentre la totalità è solo edilizia, costruzione, e non appartengono alla creazione dello spirito. Altrimenti si confonde architettura con costruzione, arte con tecnologia.

Ma ciò che davvero mi rinnova profondo rammarico, sempre sui nuraghi, è il riferimento al fortissimo Giovanni Lilliu, padre della moderna (finalmente d’accordo: moderna, non contemporanea) archeologia che all’ombra delle mura ciclopiche di quel che possiamo definire il primo castello del mondo occidentale...

Il nostro direttore, anche lui moderno, non si è accorto che i nuraghi non appartengono al profano, ma al sacro. Vogliamo fare una prova: alzino la mano gli archeologi che pensano oggi che i nuraghi siano fortezze, castelli, o giù di lì!

Qualcuno ha alzato la mano? Sono quelle degli aspiranti accademici o soprintendenti.

Quando affermo che una tale visione provoca distorsioni a catena, lo dimostro semplicemente riportando una frase di un’altra didascalia dell’articolo. Scrive il Nostro a proposito delle statue-menhir a fronte della tomba-menhir di Aiodda: entrambe armate con pugnale sono il corpo di guardia a protezione dei defunti.

Immediatamente il pugnale è legato ad un’arma. Mentre più spesso è solo un oggetto sacrificale o un oggetto d’uso. Ma chi ha in mente il bellicoso e guerrafondaio nuragico non può che rimanere prigioniero del nuraghe-fortezza o dei castelli feudali medioevali. Questa visione è stata (e lo è tutt’ora) il più serio ostacolo alla ricerca sulla civiltà nuragica.

Infine, scopro, dopo i modelli di nuraghe con terrazzo quadrato di Monte Prama, che i giganti hanno il volto coperto da una maschera aderente, forse in cuoio…

 

 

Azzardo: lontani germi – per usare l’espressione enfatica del direttore – dei mamuthones!

O, se vogliamo, precursori del covid 19.

Non c’è dunque soluzione di continuità.

Mi verrebbe da dire, pensando a Lilliu: magari fossimo ancora intrappolati nei risibili

paradigmi taramelliliani: c’è di peggio: i gamberi, purtroppo, sono fra noi.

Franco Laner

Venezia 6 ottobre 2020

domenica 4 ottobre 2020

Suggestione da “Nel segno di Orione” di M.P. Zedda

di Franco Laner
Ho letto l’ultimo libro di Mauro. Con poco interesse, confesso, i capitoli sui Shardana e sul Sardus Pater, ma con attenzione e convinzione quello sull’originalissima interpretazione del “pugilatore con scudo in testa” di Monte Prama. Perché mi convince? Perché è una diversa raffigurazione della perdurante visione cosmologica: inferi-terra-cielo, presso – esagero! – tutte le antiche civiltà con residuali contemporanei. Forse che la Madonna, con la corona di stelle, incastonata in un capitello, caratterizzato da un arco superiore e basamento, non appartiene alla stessa interpretazione cosmologica?
Nel capitolo 5 del mio “Sa ‘ena” (2011) dedicato alla stele delle Tombe dei Giganti, confortato da raffigurazioni simili, in particolare le incisioni rupestri della Val Camonica e dalla stele di Assuan, ho sostenuto la coincidenza semantica della stessa visione cosmica congelata nella stele sarda.
L’interpretazione di Mauro, con questi miei precedenti, non può che trovarmi entusiasta: il cielo è sostenuto da un gigante. La terra ha il suo alter ego nell’uomo, forte, grande, gigante appunto fuori dal normale. La terra ha ormai il suo padrone, il Sapiens! Forse è anche un piccolo aiuto ad interpretare l’orribile e sproporzionato guerriero di Monte Prama, schiacciato dal peso del cielo e affaticato dall’incessante sforzo. Se avrò voglia e tempo ritornerò sull’argomento, per ora faccio parlare le immagini e chiudo con la frase di chiusura del libro di Mauro: assolutamente stupefacente! Franco Venezia, 04/10/2020

lunedì 7 settembre 2020

A su Romanzesu la scena è nel fascino della magia

di Bachisio Bandinu

La scena è avvolta in una dimensione magica: nel silenzio della notte, sotto un antico firmamento, donne e uomini del nostro tempo stanno seduti sui gradoni della grande vasca del pozzo sacro nel santuario di Romanzesu, altri stanno in piedi come le pietre conficcate sul terreno, come le sughere della tanca.

Si avverte il sentimento del sacro, una sensazione di estraniamento e allo stesso tempo di familiarità: si sta in attesa che qualcosa avvenga, come se un mistero si svelasse. Ed ecco rinnovarsi l’antica scena di oltre 3000 anni: sono tornati i progenitori per rivivere i riti ancestrali, sono scesi nella grande vasca colma d’acqua per le abluzioni, per liberarsi dal male di vivere, dalle malattie del corpo e dello spirito. Rigenerati, si sono allontanati con movimenti rituali e sono risaliti lungo il percorso che conduce alle loro capanne e ai loro templi, sino al labirinto del grande tempio dello stregone. Per allontanarsi poi per i sentieri di Mandra ‘e Chervos. Sono tornati per rinnovare la memoria lungo il filo della storia. Contenti che il loro villaggio sia ancora abitato e che i loro eredi ne siano custodi. Così la loro storia ha senso, così la nostra storia ha senso. Poi noi, donne e uomini del nostro tempo, ci siamo ridestati dal sogno. Abbiamo ripreso coscienza dell’oggi e abbiamo provato la gioia della profonda comunione con i nostri antenati, grazie al luogo magico abbiamo vissuto gli antichi riti di liberazione dai mali della vita. Poi ci siamo guardati e ci siamo visti mascherati, come uomini primitivi a esorcizzare un male moderno. Allora, dai gradoni abbiamo rivolto lo sguardo al centro della vasca per una cerimonia di purificazione, ma nel grande vascone non c’è acqua lustrale, né il pozzo è per noi sacro. Così ci siamo accorti della nostra fragilità di uomini moderni, seppure capaci di andare su Marte: abbiamo affidato la nostra salvezza a un pezzo di tela per coprire il respiro, l’alito di vita, divenuto rischio di morte. Un virus, minuscolo e invisibile, ci ha reso meno protetti dei nostri antenati che nel santuario di Poddi Arvu avevano trovato rimedio ai loro mali invocando gli dei. Quel villaggio nuragico era luogo di fede e di salvezza, di incontri e di comunione. Gli abitatori avevano un rapporto fiducioso con il cielo e con la terra, con l’acqua e con il sole. Tra uomo e natura c’era una simbiosi: elevavano nuraghi verso il cielo per onorare gli dei e per studiare gli astri, noi eleviamo torri d’acciaio per il profitto di pochi rapinatori. Ci sentiamo poveri perché non abbiamo potuto vivere i nostri riti di fede e di speranza, neppure per il nostro patrono, neppure per la Madonna dell’Annunziata, e probabilmente neanche pro nostra Segnora de su Meraculu. Speriamo almeno nel tempo di Avvento, su Nenneddu ci donerà una rinnovata comunità. Lo porteremo anche nella casetta della cooperativa di Romanzesu.

E propriu a sa cooperativa “Istelai” devimus torrare gratzias pro su donu de custos abbojos chi non aberin su chelu de su firmamentu e su sartu mannu de s’istoria. E gai torramus in pache chin sos Mannos nostros, pro nos dare fortza in su tempus presente e ispera pro su tempus inveniente. Eris e oje, torran tempos de dolu, ma nois amus presse de nos iscurrutare, pro torrare a cantare sos gosos de sas festas nostras e nos videre in caras nettas, lassanne sas macaras a su carrasecare.

martedì 30 giugno 2020

Significato simbolico di alcuni caleffatoi etruschi



di Franco Laner



Nel gruppo facebook Preistoria sarda al post di Fabio Manca su dei caleffatoi eruschi vi riporto alcuni commenti.

...: Molti reperti sono scomparsi dai siti Archeologici della Sardegna in diverse aree di grande interesse archeologico che fine hanno fatto e poi vengono fatti passare per altri siti Archeologici non Sardi più chiaro di così.

...: Sembrano dei Kernos, venivano usati nei rituali cerimoniali... Hanno diverse forme ma la struttura generale è quella.

...: di ispirazione nuragica

...: Secondo me rappresentano i nostri cari nuraghi!!!

: Nessuna meraviglia, il mondo nuragico era ben conosciuto sulla penisola italica. I ritrovamenti di manufatti certamente sardi lo comprovano (navicelle ceramiche ecc.).

: Che la frequentazione dei nuragici in terra etrusca non credo che ormai possa essere messa in dubbio, stante l'abbondanza di reperti sicuramente sardi trovati in moltissimi siti etruschi.

: Sì, hanno una grande somiglianza con i modello di nuraghe che troviamo in Sardegna ma credo che siano dei vasi da rito ,infatti le parti che sembrano delle torri ( come si vede nei modelli di nuraghe ), credo che avessero una qualche funzione forse scenica.




Prendo spunto da alcuni interventi di risposta alla domanda di Fabio Manca per ringraziare Donatello Orgiu per avermela segnalata e a Paolo Littarru per aver inserito il mio parere su questi modellini cosmologici, oggetto di mia curiosità e studio da tanti anni, riprendendo il parere di studiosi intervenuti nel Convegno archeologico sardo del 1929 organizzato da Taramelli, dove furono mostrati modellini assolutamente simili di quelli in oggetto. Ho dedicato un intero capitolo di “Sa ‘ena”, mi pare anche ben documentato, sull’immagine diffusa, specie in Oriente, del cosmo, fondato su 4 pilastri cardinali e l’axis mundi centrale, pianta di moschee antiche, base dei mandala. In ogni antica civiltà questo modello è stato riprodotto in molti oggetti d’uso rituale e sacrale.

Sono pertanto molto contento di essere venuto a conoscenza di questi due caleffatoi (termine per me nuovo, che significa “scaldavivande” ! = grazie internet!)

Sull’autenticità della provenienza dei due modellini cosmologici, vista la perfetta somiglianza dell’impianto della tomba di Porsenna, non ho sospetti (e perché mai dovrei?) poiché questa rappresentazione, pur diversamente declinata, è universale. Invece le trovo di squisita fattezza e colmi di simbologia: i 4 punti cardinali e quello centrale sono riprodotti anche sulle facciate, né mancano i ritualissimi chevron.

Che siano “scaldavivande” lo trovo surreale (non vedo segni di fuliggine, né riesco ad immaginarne le modalità d’uso possibili per scaldare cibo…

Vengo ora al mio commento, leggendo alcune risposte riportate. Mi pare che alcuni abbiano la sensibilità di separare il sacro dal profano. Questa distinzione è alla base di tante considerazioni, proprio a proposito della destinazione dei nuraghi, che appartengono alla sfera del sacro e non del profano (Nuraghe fortezza = madre di ogni sciocchezza).



Altre risposte appartengono alla cultura dell’isolamento masochistico e autoreferenziale di molti sardi, che necessitano di essere protagonisti ed esportatori di civiltà, primi in ogni attività sociale e culturale, non accorgendosi nemmeno di essere al centro del grande lago mediterraneo, dove hanno sbattuto le civiltà di tre continenti, dai cui hanno appreso e a volte rielaborato ed esportato . Mi pare comunque un campione esiguo ma assai rappresentativo della visione archeologica isolana, ben rappresentato dalle istituzioni accademiche e dalla soprintendenza, che continua a guardare solo il dito che indica la luna, incapaci di rapportarsi al mondo, chiusi in un risibile provincialismo. Si provi solo ad immaginare di scrivere, a margine di questa mostra romana, che i due calefattoi altro non sono che “Modelli di nuraghe”, provenienti dalla Sardegna. Anzi, si provino gli archeologi isolani ad avanzare quest’ipotesi agli archeologi, non solo continentali. Sarebbero esclusi per sempre dalla comunità scientifica. Al contrario in Sardegna, sono cooptati dalla disciplina, che conta meno di niente.
Un’ultima annotazione.
Riguarda la lapidaria conclusione secondo la quale i due modellini cosmologici rappresentano i nostri cari nuraghi. Sui nostri, non insisto, anche se appartengono all’umanità e mai pretenderò di convincere un sardo su quest’aspetto. Invece, molto semplicemente, nella frase c’è per me una verità: anche i nuraghi sono un’immagine cosmologica, una ri-creazione straordinaria del cosmo: così in cielo, così in terra.
Venezia, 30 giugno 2020

domenica 12 gennaio 2020

Nuraghe santu Antine di F. Campus


Recensione di Franco Laner


Mauro mi ha spedito per Natale l’ultima pubblicazione sul S. Antine. È un regalo, ma è anche un sottile e perfido stratagemma per riaprire alcune mie ferite, che lui sa che sono ancora purulente e non suturate.

Orbene questa guida di Franco Campus “Nuraghe santu Antine” (Ilisso 2019), sia perché scritta da un archeologo “emergente” (me lo auguro per lui, non per l’archeologia), sia perché trattasi del più intrigante e bel nuraghe, merita qualche osservazione.

La prima, da accogliere con qualche soddisfazione, è che non c’è la tesi del nuraghe-fortezza, madre di ogni sciocchezza. C’è in verità qualche refuso, si parla di bastioni, cammino di ronda, feritoie. Semplici sviste.

L’altro riferimento bellico, a scanso di equivoci, chiaramente riferito a Taramelli (per carità, non a Lilliu o a Contu) è a un vano del nuraghe, “ripostiglio di proiettili di ciottoli arrotondati cui era affidata la più efficace difesa”. Ciò che confermava la sua interpretazione del nuraghe come fortilizio.

In realtà – prosegue l’autore – le tracce di usura sembrano indicare piuttosto l’utilizzo degli stessi come pestelli per macinare o triturare granaglie…

Inciso: a tal proposito il compianto Massimo Pittau preferiva causticamente pensare al gioco delle bocce. Io a sfere celesti, e sono in buona compagnia, almeno della Madonna, che ne tiene spesso una in mano. Massimo Pittau, udite, udite, viene citato a proposito di una cella oracolare: che coraggiosa apertura!!! Peccato però che non sia poi citato in bibliografia, sarebbe stato pretendere troppo!

In sintesi, l’autore prende, pur con cautela, la distanza dal nuraghe-fortezza.

A questo punto non può sottrarsi alla domanda: se non erano fortilizi, cos’erano?

La risposta risiede in balbettii sconnessi. Sicuramente una reggia, perché c’era un’organizzazione feudale della società nuragica (Lilliu docet), e ci sono tutti i segni perché il nuraghe fungesse da abitazione (porte di legno o di pietra, finestre per illuminare i vani, soppalchi di legno per isolarsi dall’umidità e via delirando). Era luogo di riunioni assembleari e sala pubblica delle udienze. La presenza di pozzi indica una sorta di autonomia idrica, il che avvalora l’idea circa la sua destinazione polifunzionale. Bagni pubblici?

Ritira in ballo i solai di legno, come soppalchi, a metà tholos. Chi mai, dopo essersi rotte braccia e cervello per ricreare la volta celeste la interromperebbe con un soppalco? Allora, da subito, era meglio progettare un condominio!

Naturalmente – per l’autore – la destinazione d’uso del nuraghe ha avuto cambiamenti nel corso della storia, ma è indubbia la funzione di controllo dell’accesso alla pianura (ahia! Torna la funzione strategica militare) che marca il limite del territorio alla stregua dei siti cerniera, ovvero Reggia come fulcro di rapporti percettivi (!?).

Ok, mi è tutto molto chiaro!

La seconda osservazione riguarda l’ampio spazio che l’autore dedica con disegni e descrizioni alla costruzione del nuraghe. Non posso sottacere un consiglio che mi dette Pittau: “Quando ti occupi di archeologia, fallo con gli strumenti della tua disciplina, non con quelli dell’archeologia perché saresti vulnerabile e quindi non credibile”. Sacrosanto consiglio che ora estendo all’autore: lascia stare le tecnologie costruttive, l’organizzazione del cantiere, macchine e sistemi. La storicizzazione delle tecnologie costruttive è un argomento delicato, da specialisti, a meno di non accettare il ridicolo. Nei film storici, a volte, le comparse, dimenticavano di togliersi l’orologio da polso. Ora c’è attenzione a queste incongruenze!



Prendiamo ad esempio la tavola del cantiere del S. Antine e il dettaglio del carro trainato da due buoi. Il masso trasportato è di circa ¼ di mc, ovvero prendendo il peso specifico del basalto uguale a 2,5t/mc il suo peso è di 6-7 quintali. Questo peso sfonderebbe l’asse del carro, le ruote sarebbero inamovibili nel terreno (ci vuole un selciato…), la rampa è troppo pendente.

Non sarei così sicuro che gli operai fossero scalzi. Fa parte di quelle trasposizioni sciocche, che assegnano ai nostri progenitori categorie naif. Si sa, al contrario, che si vestivano e calzavano (v. ad es. l’uomo di Simulan, Oetzi)

Il piano di posa del masso sul carro è basso. Per la razionalizzazione del carro e per abbassare il piano di carico, sempre alto, si dedicò con una bellissima trattazione, di stampo illuministico, il matematico padovano (di Castelfranco) Rizzetti, nel ‘700. Eppure, basta guardare qualsiasi capitolo di storia della tecnologia per capire che i massi sono trasportabili solo con la slitta, anche dove la ruota fosse conosciuta. Sullo sfondo di questo modo fantasioso di trasporto c’è un’impalcatura lignea. Ammesso che questo accessorio fosse possibile, cosa serve l’impalcatura? L’immagine mi ricorda il cantiere medioevale, sul quale è stata operata una sorta di antichizzazione. Stessa operazione astorica di Lilliu, che immaginò l’organizzazione nuragica come quella feudale.


L’altro particolare dello stesso cantiere fa vedere la divisione di una grande pietra con cunei di legno. È una tecnica possibile, descritta già nell’antico Egitto, che sfrutta la dilatazione del legno quando bagnato. Ma la discrasia risiede nel fatto che la sbozzatura dei conci avviene sempre in cava e non a piè d’opera, per evitare il trasporto di elementi troppo pesanti. Altrimenti dovremmo assegnare al nuragico la mentalità da cretinetti. Che un fumettista trasporti categorie moderne al passato -v. Hanna & Barbera – è divertente e simpatico, ma che lo faccia un archeologo è disdicevole.



Illustrazione della Bibbia per ragazzi. Il caricamento delle copie di animali sull’arca è immaginato come oggi si carica un Ferry Boat. Simpatica idea. Divertente. Ma l’archeologia può essere ludica? Sembra di sì.
Potrei continuare, ma sarei noioso e incomprensibile. Ad esempio, si parla di malta di fango. La malta è tale quando ci sia un legante (pozzolana, calce, cemento, ecc) nell’impasto. La muratura nuragica è a secco. Magari ci fosse stata la malta. I problemi sarebbero stati molto, molto più semplici e forse si sarebbero potuti realizzare anche gli ipotetici mensoloni di coronamento dei nuraghi.

Esilarante il disegno che mostra l’insegnamento del tiro con l’arco: il bersaglio è la pelle di bue come l’oxhide di rame, sotto lo sguardo attento dei giganti di Monte Prama, ovviamente con lo scudo in testa…

Suvvia, incommensurabile Pittau, riposa in pace!

Ps

Si narra che Gesù, nella sua predicazione per la Galilea, compiva miracoli. Uno storpio, alzati e cammina! Un cieco? Vedi! Un sordo, senti! Fece uscire dalla grotta anche Lazzaro, morto da giorni.

Lo immagino, tutto incazzato e imprecante, che si toglie le bende, mentre esce dalla tomba.

Sul ciglio della strada, seduto e con la testa fra le mani, giaceva uno sconsolato.

Gesù chiese agli apostoli chi fosse costui. Informatisi, si appurò che fosse un archeologo.

Allora Gesù si chinò e pianse con lui.