mercoledì 5 dicembre 2012

Le torri di Atlantide


di Mauro Peppino Zedda

Fabrizio Frongia ne Le Torri di Atlantide cerca di spiegare le pulsioni sociali che hanno agito in parallelo alle ricerche storico-archeologiche degli ultimi 170 anni, il libro rappresenta uno sviluppo della sua tesi di laurea. Il testo è articolato in 4 parti (Nazioni preistoriche; Del desiderio del presente, dell’invenzione del passato: Miti, falsi e falsi miti «made in Sardinia»; Sardegna e Atlantide: genesi e diffusione di un “mito”contemporaneo; Un’altra storia è possibile).
Frongia prende in esame una serie di vicende. Il caso delle false carte d’arborea e dei falsi bronzetti, verificatosi nell’Ottocento, la glorificazione da parte del Taramelli del mito del sardo guerriero, la costante resistenziale di Lilliu, la tesi Atlantidea di Sergio Frau. E mette in un unico calderone le proposte di Sanna, Pittau, Zedda, Melis, Aresu, Polaschi-Murtas.
L’autore pensa di aver trovato nel desiderio di costruire una gloriosa immagine dell’Isola, il fil rouge che accomuna l’insieme dei fenomeni che descrive.
Ritengo che il suo teorema sia viziato da un’acerba superficialità di ricerca e da una perniciosa tendenziosità di analisi. Presumo che Frongia si sia lasciato condizionare dai suoi relatori, che l’hanno mandato allo sbaraglio facendogli pubblicare un testo palesemente incompleto, fuorviante e tendenzioso. Mi domando perché il tandem Cossu-Angioni non gli abbia segnalato la lettura di una serie di opere che avrebbero agevolato una analisi più ponderata. Chi decide di affrontare un tema come quello di Frongia non dovrebbe esimersi dal fare riferimento agli studi di Bruce Trigger (Storia del pensiero archeologico, 1996) o a quelli di Marvin Harris (l’evoluzione del pensiero antropologico, 1971), opere fondamentali per capire come una scuola archeologica o antropologica subisca i condizionamenti della società.
Penso che il fil rouge teorizzato da Frongia, trova un denominatore comune solo con le tesi di Taramelli, Lilliu, Frau e Melis.
Mi pare che tra le tesi di Taramelli, Lilliu e Melis che decantano le doti guerresche degli antichi sardi e gli autori dei falsi bronzetti o delle false carte di Arborea vi siano profonde differenze. D’altro canto penso che Frongia abbia preso un grosso abbaglio nel ritenere che le tesi di Pittau, Sanna, Zedda, Aresu, Murtas-Polaschi, siano tese a glorificare il passato dell’Isola.
En passant, mi pare opportuno sottolineare che la questione delle false Carte d’Arborea e dei falsi bronzetti non è questione da assimilare agli altri casi e su questo bisognerebbe capire se Fabrizio Frongia non sia incorso in diffamazione. Accostare le tesi di gente perbene alle azioni delinquenziali di banditi, quali furono gli autori dei falsi ottocenteschi, mi pare una sciocchezza.
Nutro il dubbio che il povero Fabrizio Frongia sia stato mandato allo sbaraglio dai suoi relatori, notoriamente a caccia di fantasmi. Giulio Angioni a forza di scrivere romanzi confonde la realtà con le sue mirabolanti fantasie (cfr Giulio Angioni e il Cialtrone in questo blog).
Andiamo a scandagliare i casi che Frongia ha maldestramente accorpato nel suo teorema.
Riguardo al fatto che Taramelli tendesse a esaltasse i sardi (del passato e del presente) come una formidabile schiatta di guerrieri, concordo con Frongia, ma sarebbe meglio dire che Frongia concorda con me! Il concetto espresso da Frongia penso di averlo ben enucleato nel libro Archeologia del Paesaggio Nuragico (2009), sviluppando un’idea avanzata da Laner (Accabbadora 1999). Ma piuttosto che pensare ad un maldestro Fabrizio Frongia che copia, preferisco l’opzione di un Frongia superficiale, che non legge neppure i testi degli autori che troppo superficialmente inserisce nel suo strampalato teorema. Nel citare il Taramelli esaltatore dello spirito guerriero dei sardi Frongia cita Stiglitz 2011 e Cossu 2011, ma non doveva dimenticarsi di Laner 1999 e Zedda 2009. Specifico che con questo voglio solo mettere in luce che lo studente di Angioni e Cossu avrebbe dovuto studiare un pò di più!
Frongia è fortemente critico verso la cosiddetta Costante Resistenziale teorizzata dal Lilliu, ma anche in questo caso piuttosto che essere io a concordare con Frongia, sarebbe dovuto essere stato lui a concordare con me (cfr Zedda 2009), mentre Frongia si appoggia a Cossu 2011 e Madau 2010.
Che le tesi di Taramelli e Lilliu abbiano prodotto nefaste conseguenze è palese, ma mentre possiamo dire che quanto ha fatto Taramelli era quasi inevitabile (cfr Trigger per capire cosa animava le archeologie d’Europa sul finire dell’Ottocento e nel primo novecento), quanto proposto da Lilliu era evitabile, la costante resistenziale è una strampalata idea imposta da un Sardus Pater, se al posto di Lilliu ci fosse stato un altro la storia sarebbe andata diversamente.
Concordo con Frongia nell’analisi delle tesi avanzate da Frau e Melis.
Aresu è un rabdomante convinto che i monumenti nuragici siano collocati in particolari punti energetici, mentre il duo Murtas&Polaschi è convinto che la Sardegna preistorica era popolata da giganti. Ma non credo affatto che Aresu e Murtas&Polaschi le loro indimostrate e indimostrabili suggestioni le abbiano scritte al fine di glorificare il passato dell’Isola.
Per quanto riguarda le tesi di Gigi Sanna o per meglio dire di Gigi Sanna e Gianni Atzori, penso che spetti ai paleoepigrafisti entrare nel merito della proposta. Ma mi pare fuorviante, irrispettoso e sciocco sostenere che la tesi che i nuragici scrivevano sia animata dal desiderio dei proponenti (a Sanna si è affiancata la biofisica Aba Losi) di glorificare il passato dell’Isola. A coloro che sorridono per il fatto che in soccorso a Sanna invece che un paleoepigrafista sia arrivata una biofisica dell’Università di Parma con la passione e per scritture antiche, ricordo che Ventris era un ingegnere!
Frongia inserisce anche l’Emerito Massimo Pittau tra coloro che coi loro scritti operano per glorificare il passato dell’Isola, quella di Frongia mi pare una commedia dell’assurdo!
Massimo Pittau nel bellissimo libro Sardegna Nuragica (1977), confuta per filo e per segno la tesi taramel-lilliana del nuraghe fortezza, Frongia doveva essere ubriaco (assieme ai suoi relatori) quando ha deciso di inserire Massimo Pittau nella lista di coloro che coi loro scritti operano con l’intento di glorificare il passato dell’Isola. L’opera di Pittau rappresenta la brillante confutazione della teoria del nuraghe fortezza.
E ora a Zedda, leggiamo una frase di Frongia (pag 145): “Sempre caldo e imprescindibilmente legato a questo, è il tema del primato culturale ed etnico, per cui i Nuragici non sarebbero secondi a nessuno, in campo artistico e metallurgico, grazie ai bronzetti, nell’architettura ovviamente, ma anche in altre espressioni culturali fino ad ora costantemente negate dall’archeologia, Lilliu compreso, come la scrittura e l’astronomia, in cui i Nuragici sarebbero stati provetti. Vi sono poi delle teorie ancora più ingenue..”. Frongia considera le mie tesi (e quelle di Sanna) come ingenue, meno ingenue di altre ma pur sempre ingenue!
Osservare Frongia che accosta i miei studi archeoastronomici (faccio notare che la Società Italiana di archeoastronomia , di cui faccio parte, si è associata all’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria) a quelli di Aresu e Polaschi-Murtas, la ritengo una palese stoltezza da parte di Frongia, che, nella sua vacua conoscenza delle pubblicazioni archeologiche degli ultimi vent’anni, fa di tutta un’erba un fascio, confondendo i fischi per fiaschi e i fiaschi per fischi.
Nel valutare le mie proposte Fabrizio Frangia ha dimostrato un pressappochismo all’ennesima potenza. Quando ha deciso di inserirmi come caso esemplare per il suo teorema avrebbe dovuto leggersi tutte le mie pubblicazioni (monografie e articoli pubblicati in prestigiose riviste scientifiche). Frongia cita I nuraghi tra archeologia e astronomia (2004) e nel citarlo palesa una perniciosa incapacità a comprendere la mia proposta. Si vede che deve essere molto ignorante in geometria come il resto degli archeologi sardi!
Fabrizio Frongia ha preso un abbaglio enorme quando sostiene che i miei studi siano ingenui e figli del desiderio di glorificare il passato dell’Isola.
Più ci penso più mi convinco che il povero Fabrizio Frongia sia stato mandato allo sbaraglio dai suoi relatori. Inviterei Fabrizio Frongia a ragionare con la sua testa, e magari andare a leggersi cosa ne pensano dei miei studi i maggiori studiosi di archeoastronomia accademici del mondo, invece di ascoltare le stonate sirene dei provinciali archeologi di Cagliari e Sassari.
All’autore comunque il merito di aver consegnato al pubblico una ricerca che spero sarà foriera di sviluppi e approfondimenti finalizzati a cercare di comprendere quanto successo nel variegato mondo dell’archeologia sarda negli ultimi 20 anni.
Penso che un fil rouge targato “incompetenza” leghi tra loro gli studiosi accademici della Cagliari ottocentesca che si fecero ingannare dai falsari, con gli accademici sardi dell’epoca attuale, nell’Ottocento non seppero comprendere che si trattava di falsi e vennero studiosi (benvenuti) da altri lidi a spiegarglielo, così come gli archeologi sardi attuali non hanno ancora capito che il significato astronomico dei nuraghi è un dato di fatto, decretato dai maggiori studiosi accademici di archeoastronomia.

domenica 18 novembre 2012

La Boninu predica bene ma razzola male!


di Mauro Peppino Zedda

Il 5 novembre 2012 un articolo de La Nuova Sardegna trattava dei limiti concernenti la valorizzazione dello straordinario patrimonio archeologico dell’isola scrivendo:

"Cheremule. Riflettori su un museo unico al mondo, il Parco dei Petroglifi, pietre scritte, parlanti, storia sacra e profana, 37 tombe della notte dei tempi, firma indelebile del Neolitico recente, religiosità prenuragica. Un lungo altare bianco di calcare è incorniciato dal verde delle campagne di Cheremule, ai piedi del vulcano spento di Monte Cuccuruddu. Lunghi filari di prugnoli con i frutti viola, agretti da mangiare ma ricchi di sapore, i muretti a secco colorati dalle bacche rosse dei biancospini. In cielo volteggia una poiana. Per terra un tappeto di pere selvatiche per la gioia dei cinghiali. Domanda d'obbligo: a che serve "cust'opera divina"? È giusto che ad appagarsi sia solo lo spirito?
La denuncia è tanto netta quanto autorevole. "La Sardegna, le sue amministrazioni non hanno saputo rispondere, né sanno rispondere oggi, all'eccezionalità del tesoro artistico ereditato. È come se San Pietroburgo non sapesse valorizzare l'Ermitage, come se Firenze snobbasse Gli Uffizi, o Torino facesse invadere di erbacce il suo Museo Egizio. Manca la consapevolezza generale di questa ricchezza diffusa in tutta l'isola e ci priva anche di una risorsa economica. Un esempio su tutti: il Meilogu è la regione storica col più vasto patrimonio archeologico disponibile perché i Comuni hanno avuto la lungimiranza di acquisire tutte le aree monumentali". Quale è il ritorno? "Pressoché nullo, in raffronto a quanto ci è stato regalato dal passato. Abbiamo una miniera d'oro ma non ce ne accorgiamo".
Chi parla è Antonietta Boninu, archeologa, fino allo scorso aprile storico direttore della soprintendenza ai Beni archeologici per le province di Sassari e Nuoro. Insiste: "Parlo di consapevolezza perché se queste eccellenze archeologiche non vengono sentite come tali dai cittadini non si può fare molto strada nell'opera di valorizzazione. Questi siti sono una risorsa. Ma richiedono professionalità non abborracciate, competenze diffuse, i paesi dovrebbero fare rete per attirare flussi costanti di visitatori, lo dovrebbe capire la Regione dando plusvalore alla storia vera dell'Isola. Invece ci si scontra con una realtà deprimente: perché la Sardegna - grande parco archeologico - non ha saputo creare occasioni scientifiche ed economiche adeguate, direttamente proporzionali al valore che questi monumenti hanno. Anche per questo la disoccupazione intellettuale cresce"."

La Boninu parla degli esempi di San Pietroburgo, Firenze e Torino “dimenticandosi” o per meglio dire senza comprendere che il modello da prendere ad esempio non sono le città d’arte europee, ma le campagne che ospitano Stonehenge, Newgrange, o Carnac!!
Cara Maria Antonietta Boninu se gli archeologi sardi avessero quel minimo di intelligenza e di umiltà sufficiente a prendere atto dello straordinario significato astronomico dei Nuraghi, Domus de Janas, Pozzi Sacri e di Monte d’Accoddi, confermato dai maggiori studiosi di a archeoastronomia del mondo, è probabile che a Santa Cristina (il più sofisticato osservatorio astronomico lunare del antichità) al Losa e al Santu Antine (nuraghi astronomicamente concepiti) o a Monte d’accoddi (splendidamente orientato col Sole, Luna e Venere), si potrebbero attrarre quei visitatori che accorrono a Stonehenge.

mercoledì 14 novembre 2012

Monte Forato e il Duomo di Barga


di Franco Laner

Più che una recensione del nuovo libro di Mauro Zedda “Monte Forato e il Duomo di Barga - Tracce di un Antico Osservatorio dei Liguri Apuani”, Agorà nuragica, Cagliari, 2012, vorrei cercare di mettere in bella una serie di suggerimenti che la lettura del libro mi ha offerto.
Una piccola annotazione a proposito di Barga: ci sono stato nel ’94, alcuni giorni per un seminario di antisismica, disciplina che mi ha impegnato diversi anni, con qualche soddisfazione. La sala conferenze era al Passo dei Carpinelli, che divide la Lunigiana dalla Garfagnana, entrambe zone di forte sismicità, ma soggiornavo a Barga e ricordo che mi intrigò il fatto che il Duomo fosse in alto, al posto del Castello, tipologia che caratterizza la città medioevale.
Che bello, penso ora, se qualcuno mi avesse detto che il Duomo era là, perché quello era il luogo da sempre sacro per eccellenza!
Molto bella l’introduzione di Mauro al libro! Forse pecca –sarà per l’età che induce alla maturità- di modestia quando dice che la scoperta è avvenuta “per caso”.
Certamente l’intendimento dei suoi viaggi in Toscana non aveva di mira Monte Forato, quanto l’obiettivo era di registrare l’orientamento delle chiese romaniche per confrontarlo con quello delle chiese sarde e corse, ma la scoperta, oggetto del libro, non è “per caso”! E’ il risultato di una capacità di osservazione e di relazione che Mauro ha ormai sviluppato grazie alla sua più che ventennale esperienza in archeoastronomia, che lo pone tra gli specialisti della disciplina.
Il caso, che irrompe all’improvviso, evento inaspettato, è dunque per me riduttivo in questo caso, perché qui si tratta di capacità di sintesi che solo in chi sa può scattare e produrre spunti di ricerca a largo spettro.
L’orientamento dell’asse longitudinale, ingresso-abside, della chiesa romanica di S. Frediano a Sommocolonia, nei pressi di Barga, al sostizio d’inverno, finisce dove il sole tramonta, sopra il singolarissimo profilo del viso dell’Omo -il profilo del monte suggerisce quest’immagine- che ha la bocca aperta, data da un arco naturale di roccia di trenta metri, un foro, che appunto dà il nome al Monte.
Ma anche la luna, osservata dal Duomo di Barga, tramonta al lunistizio minore meridionale, sopra il Monte Forato!
Questa coincidenza, ovviamente non ascrivibile al caso, inducono Mauro ad approfondire e guardarsi ancora attorno. Quali sono le altre chiese da cui è possibile traguardare il profilo dell’Omo? Mauro si sposta a S. Michele di Perpoli e a S. Pietro e Paolo a Fiattone.
La prima chiesa è in relazione col tramonto della luna sulla fronte dell’Omo al lunistizio maggiore meridionale, mentre la seconda guarda al tramonto di Venere!
Ancora, curiosando nei resti della torre medioevale che sorge accanto a S. Frediano , si interroga sulla strana forma di una residua finestrella. Il suo sguincio inferiore non è assolutamente funzionale al operazioni belliche, ma viceversa utile per collimare, non tanto il volto dell’Omo, che sta nel cono di osservazione della finestrella, quanto per l’osservazione del tramonto del sole al solstizio d’inverno o della luna al lunistizio medio meridionale.
Si delinea dunque un sistema di punti di osservazione di grande funzionalità per registrare e prevedere fenomeni celesti. Questo complesso impianto, secondo Mauro, non è recente, medioevale, bensì gli insediamenti ecclesiali hanno sfruttato siti già sacri, perché adatti all’osservazione astronomica, da illo tempore, in quel sincretismo che pochi mettono in dubbio, perché è ovvia la continuità e residualità dello spazio sacro, che rimane tale anche se cambiano i modi di rapportarsi col divino, o la religione, o nuovi dei e quant’altro.
Queste cose sono ben spiegate nel libro.
Penso che queste scoperte di Mauro debbano essere messe a frutto. Se alla spettacolarità del doppio tramonto, fenomeno che si può osservare il 10-11 novembre ed ovviamente il 30-31 gennaio, 40 giorni prima e dopo il solstizio d’inverno, che richiama gente, fotografi e curiosi, si aggiungerà spiegazione scientifica al sistema di osservatorio astronomico di cui sono stati messi in luce nel libro i punti si stazione, ci potrà essere quel valore aggiunto dato appunto dalla riscoperta di saperi e conoscenze astronomiche che gettano nuova luce sulle popolazioni che hanno abitato il territorio.
Nel libro, in tre tabelle, sono riportati anche i dati di centinaia di misurazioni dell’orientamento delle chiese romaniche sarde, toscane e corse.
Ho provato a ragionare su parametri come l’azimut e la declinazione. Il ventaglio di orientamenti - escludo gli estremi della distribuzione- è tale che statisticamente non è possibile trovare elementi di significatibilità. La popolazione (l’insieme dei dati) non consente di parlare di omogeneità per la grande dispersione. Se però l’intera popolazione viene riferita attorno al sorgere del sole al solstizio d’estate, all’est equinoziale e al sorgere del sole al solstizio invernale e si scompongono gli orientamenti in tre grandi gruppi, ovvero se rielaboro i dati in tre gruppi, che hanno come riferimento, ad esempio l’azimut di 58°, 90°, 123°, con una tolleranza di una decina di gradi, ottengo una certa significatività statistica dei tre gruppi. Sta comunque di fatto che il sole e i suoi punti di nascita sono il riferimento d’orientamento delle chiese romaniche, ma mi pare riduttivo la presa in considerazione i soli parametri di orientamento. Spesso il giorno della festa del santo, o l’evento che ne caratterizza maggiormente la sua vita, possono essere sottesi all’orientamento e determinarlo. Insomma i parametri che determinano l’orientamento delle chiese, sono troppo dispersivi per consentire una teoria sull’orientamento.
L’orientamento astronomico è, per me un parametro, un possibile e importante parametro. Temo però che ogni chiesa abbia una sua storia di riferimento per l’atto fondativo. Perciò è forse necessario l’approfondimento caso per caso. L’esempio di Barga mi pare emblematico e proprio l’approfondimento è stato foriero di notevoli inferenze speculative, mentre ho dei dubbi sull’elaborazione del gran coacervo di dati di tutte le chiese. Ma aspetto il prossimo libro di Mauro per essere smentito!


venerdì 2 novembre 2012

Falsificazioni sulla cosiddetta "scrittura nuragica"


di Massimo Pittau


In Sardegna c’è una attenzione vivissima e quasi morbosa per la civiltà nuragica. Questa attenzione deriva dal fatto che, almeno in una forma in buona parte inconsapevole, i Sardi sanno o “sentono” di avere a che fare col periodo più importante e più glorioso dell’intera storia della Sardegna. Per questo motivo di fondo tutti i Sardi sono istintivamente portati a simpatizzare con chi sostiene che anche i Nuragici avevano una loro “scrittura nuragica nazionale”.
Una ventina di anni fa nel nuraghe Tzricottu del Sinis è stata trovata una targhetta metallica che, in una delle sue facce, porta chiarissimi “disegni ornamentali”, simili ad arabeschi. Intervennero due amanti di cose sarde, insegnanti medi, i quali dichiararono al pubblico che quei disegni in realtà erano i segni di una “scrittura nuragica”, mai conosciuta e riconosciuta prima.
Intervenne subito un archeologo il quale dimostrò – in modo del tutto convincente - che quella targhetta risale non all’epoca nuragica, bensì a quella bizantina e faceva parte dell’armatura di un militare.
Ovviamente c’era stato dunque un grosso abbaglio da parte dei due insegnanti. Uno di questi – anche per tentare di stornarlo da sé – andò avanti con la sua tesi pubblicando anche un libro nel quale c’è pure il disegno di altre tre targhette simili alla prima, ma anche lievemente differenti. Senonché, a mio fermo giudizio, queste altre targhette non sono altro che veri e propri “falsi”. Esse infatti non fanno altro che seguire il disegno della prima, ma con lievi variazioni interne. E si tratta chiaramente di un “falso” fanciullesco, dato che presuppone che la seconda targhetta contenga una iscrizione sovrapposta a quella della prima, la terza targhetta contenga una iscrizione sovrapposta a quella della seconda e della prima, la quarta targhetta una iscrizione sovrapposta a quella della terza, della seconda e della prima. E tutto ciò presuppone un gioco di inserimenti di iscrizioni che non potrebbe trovare posto neppure nei giochi di in una rivista di enigmistica. Che queste ultime targhette siano altrettanti “falsi” è dimostrato pure dal fatto che esse non sono state mai mostrate ad alcuno.
Messisi sulla strada ormai aperta delle “falsificazioni”, alcuni individui hanno finito con l’avere anche fastidi giudiziari rispetto a ciottoli fluviali che sarebbero stati trovati sulla riva del Tirso e che presenterebbero segni di scrittura etrusca.
Da qualcuno di questi individui, per telefono e senza farsi riconoscere, io ho avuto una offerta di fotografie contenenti “iscrizioni etrusche” (ormai si sapeva che io mi interessavo a fondo di “lingua etrusca”). Io non abboccai, dato che sono ben al corrente del fatto che fioriscono in Toscana, in Umbria e nel Lazio settentrionale, “falsari di oggetti etruschi” che offrono agli acquirenti ignari, e questi oggetti tanto più sono apprezzati se riportano scritte anch’esse “false”. Io feci al mio interlocutore anonimo alcune domande sulle supposte “iscrizioni etrusche” e compresi subito che ero di fronte a un inganno e a un tentativo di imbroglio. Per il quale il mio interlocutore aveva chiesto la modica somma di 20 mila euro…
Ma la strada delle “falsificazioni archeologiche e linguistiche” pure in Sardegna era stata ormai aperta, favorita immensamente anche dal ricorso al disponibilissimo “internet”. E infatti da una decina di anni in qua furoreggiano, soprattutto in qualche blog ospitale ed interessato, numerose riquadri di alfabeti e figure di scritte nuragiche, fornite delle necessarie lunghe didascalie. Si tratta però di “falsi”, nient’altro che di “falsi”, ripresi dai numerosissimi siti dell’internet, che possono ritrovare e riscontrare tutti coloro che sappiano e abbiano la pazienza di interrogare a dovere i generosi siti internet.
Però ovviamente questi “falsi” sono sottoposti al cambio di connotati, nel senso che possono appartenere ad una delle numerose lingue del mondo antico, ma, mutatis mutandis, sono presentati come “alfabeto o scrittura dei Nuragici”. Quando è opportuno le figure originali di scritture orientali subiscono qualche spostamento o inversione o ritocco; tutte operazioni che nel computer si possono effettuare con estrema facilità e senza lasciare alcuna impronta digitale…
È possibile scoprire questi “falsi” ed anche evitare facili imbrogli a proprio danno? Sì, è possibile in questo semplice modo: invitare i propositori di queste “scritte nuragiche” a presentare la fotografia di un bronzetto o vaso nuragico che risulti esposto in uno dei numerosi musei archeologici della Sardegna e che dunque sia stato ufficialmente riconosciuto come “reperto autentico” dagli archeologi autorizzati. Poi farsi mostrare la esatta corrispondenza di segni incisi in quei bronzetti o vasi con le lettere di quello che i propositori dicono essere l’”alfabeto nuragico”, corrispondenza anche di sole 5 o 6 lettere appena.
Se questa dimostrazione di “corrispondenza di segni ad altrettante lettere” non fanno, i propositori in questione sono nient’altro che “falsari”, falsari della buona fede dei Sardi.
E approfitto dell’occasione per mettere in guardia i Sardi, amanti della nostra storia, dai “falsari di oggetti nuragici”, anche forniti di “segni di scrittura nuragica”, che ormai circolano numerosi anche in Sardegna. Sono stato chiaro sulle modiche somme che richiedono agli ingenui che siano disposti ad acquistarli?

mercoledì 31 ottobre 2012

Perché i nuragici non possono essere gli SRDN citati nelle cronache egizie


Di Mauro Peppino Zedda

Sul finire del XIV sec. a.C. nel nuraghe Arrubiu di Orroli un alabastron peloponnesiaco del TE IIIA:2 veniva rotto nello strato di fondazione del nuraghe (Lo Schiavo e Sanges 1994). Il reperto rappresenta, allo stato attuale degli studi, il più antico manufatto di provenienza egea rinvenuto in un contesto nuragico (Cultraro 2006).
Una testina d’avorio raffigurante un guerriero miceneo datata tra il TE IIIA:2 e il IIIB realizzata in Grecia è stata ritrovata a Decimoputzu (Cultraro 2006).
In quel di Antigori (Sarroch) un’articolata stratigrafia documenta materiali micenei compresi tra il TE IIIB e il IIIC:1 corrispondenti al periodo tra il 1250 e il 1140 a.C.
In Sardegna relativamente a quanto edito sino al 2005 si sono ritrovati materiali micenei in una ventina di siti (Lo Schiavo 2003; Cultraro 2006).
A Kommos (Creta) in un contesto del TM IIIB, sono state rinvenute ceramiche di impasto prodotte in Sardegna nel BR (Cultraro 2006).
A Cannatello (Sicilia) è attestata la presenza ceramiche prodotte in Sardegna nel BR e BF (Albanese Procelli 2006).
Nel poliandro Su Fraigu di San Sperate è stato ritrovato un sigillo vicino-orientale del XIII sec. a.C. (Lo Schiavo 2003).
Il punto di irradiazione della ceramica grigio ardesia (che si inquadra cronologicamente nel BR nuragico; Campus e Leonelli 2000; Lugliè 2005) è stato individuato nella costa anatolica e nel Dodecaneso (Cultraro 2006; Benzi 1992).
Le analisi chimiche eseguite sui lingotti di rame ox-side ritrovati in Sardegna e nel resto del Mediterraneo attestano che provengono dalla miniera di Apliki a Cipro (Gale 2003).
Nel BF le spade, le fibule, le asce, denunciano influenze sia iberiche che levantine (Lo Schiavo 2003; Lo Schiavo 2004).
Se non conoscessimo l’esistenza degli shardana attraverso le fonti egizie, avremmo preso atto delle influenze culturali egeo-anatoliche e ben difficilmente avremmo posto quelle influenze in connessione con la denominazione del nome dell’Isola.
Ma la questione non è eludibile. É doveroso cercare di capire se i nuragici fossero o non fossero gli shardana citati nei testi egizi.
Lilliu ha sostenuto che lo fossero, la gran parte dei suoi discepoli sono amorfi alla questione (come su tante altre), salvo Ugas che sostiene con forza l’idea che i nuragici siano gli shardana. Lo inviterei a riflettere su uno scritto di Lucia Vagnetti: «Moreover, in regard to the identification of the Sherden with warriors of Sardinian origin, a further difficulty arises from the almost complete lack of evidence for armor and weapons in Sardinia in the local Middle and Late Bronze Ages. Although this is admittedly an argumentum ex silentio, it is surprising that, if the Sardinian of the 14th century were renowned warriors enlisted in the service of Egypt, no trace of weaponry has been preserved in their supposed area of origin. If the warrior status had a particular importance for the Nuragic people, it should be visible in tombs» (Vagnetti 2000).
Mi pare che queste ragionate considerazioni oltre alla questione shardana, chiariscano che le terrificanti armi nuragiche del BM e BR sono esistite solo nella fantasia di Lilliu e continuano ad esistere in quella ancora più fervida di Ugas.
Recentemente Lo Schiavo ha timidamente proposto che i Tursha siano arrivati nel Nord e gli shardana nel Sud dell’Isola (Lo Schiavo 2003). Ma non è entrata nel merito della questione. Sembra che le poche righe dedicate all’argomento siano finalizzate a specificare che prende le distanze da coloro che individuano i nuragici negli shardana citati nei testi egizi.
Tra gli studiosi della preistoria del Mediterraneo la gran parte condivide e opera sulla scia della proposta di Sandars. Tra questi mi pare che la proposta più verosimile sia quella di Giovanni Garbini che individua nei fabbricatori della ceramica micenea l’insieme dei popoli del mare. Per lui le popolazioni egeo-anatoliche che arrivarono in Sardegna e si mischiarono con i nuragici bisognerebbe definirle come sarde-micenee, secondo gli altri (Lo Schiavo et Al. 2004; Ruiz-Galvez et Al. 2005; Cultraro 2006) erano cipriote e levantine.
Secondo me i nuovi arrivati si stabilirono in insediamenti costieri e da lì prese inizio una rete di rapporti economici infarciti da scambi culturali e matrimoniali. Con la mia proposta l’entità numerica delle genti egeo-anatoliche arrivate in Sardegna potrebbe essere inferiore a quella presupposta da altre ipotesi. Gruppi allogeni che conservano la propria identità negli insediamenti costieri, mantenendo stretti rapporti con la madrepatria, hanno una capacità di influenzare tecnologicamente e culturalmente gli indigeni in misura ben maggiore di quella che avrebbero degli allogeni mescolati con gli indigeni.
L’immigrazione ipotizzata da Garbini o dalla Lo Schiavo avrebbe nuragizzato gli allogeni piuttosto che produrre i cambiamenti che caratterizzano il BF della Sardegna.
Quei sardi citati nelle fonti egizie si stabilirono in Calaris&Company e meticciati con ilienses e balari, giocarono un ruolo di primissimo piano nei traffici del Mediterraneo occidentale.
Dopo questo tortuosissimo escursus, mi piace aggiungere che riconoscerei volentieri i nuragici come corrispondenti agli shardana se si riuscisse a spiegare in modo verosimile le seguenti obiezioni:
- dove sono i resti che testimoniano la tecnologia del bronzo nel BM;
- dove sarebbero le armi in stile nuragico;
- come si spiega che a partire dal XIII sec. a.C. la Sardegna diventa un ponte tra l’Occidente e l’Oriente del Mediterraneo;
- in che modo può essere motivata l’assunzione di metallurghi orientali a partire dal XIII secolo a.C. ;
- come mai le spade votive delle fonti sacre sono modelli di spade micenee;
- se l’Isola veniva denominata Sardinia già dall’epoca nuragica, come mai gli storici greci fanno “confusione” sul suo nome.
I nomi vanno e vengono. Interessante al riguardo il modo col quale vengono definiti e si riconoscono i barbaricini, cioè i più vicini discendenti dei nuragici.
Così come i barbaricini hanno accettato quel nome in quanto abitatori della Barbagia, non deve stupire che la totalità degli abitanti dell’Isola divennero sardi in quanto abitanti di Sardinia.
Nei tempi della conquista romana gli indigeni mastruccati ilienses, balari e corsi discendenti dei costruttori dei nuraghi, culturalmente appartenenti alle genti europee e mediterranee che tra il V e il II millennio a.C. hanno cavato, lavorato, sollevato, trasportato, innalzato, colossali macigni per costruire “macchine astronomiche” con funzioni funerarie o sacrali, divenivano agli occhi degli storici romani i sardi pelliti e in altre occasioni (più appropriatamente) ilienses, balari e corsi.
Quanto scritto sopra rappresenta una stringata sintesi di quanto discusso nel libro Archeologia del Paesaggio Nuragico.
A queste considerazioni aggiungo la seguente questione: se i nuragici fossero stati gli shardana citati dalle cronache egizie , dove sarebbero gli elementi che attesterebbero due secoli di rapporti (tra il XV e il XIII sec. a.C.) tra le due regioni?
É evidente che è più verosimile sostenere che Shardana giunsero nel Isola che poi da loro prese il nome nel XIII sec. a.C.

giovedì 27 settembre 2012

In Ricordo di Gianfranco



di Atropa Belladonna


L’ ho conosciuto per pochi anni, troppo pochi. Eravamo amici,lo siamo diventati in modo spontaneo e veloce. Aveva le qualità che più amo e mi affascinano nelle persone: un'intelligenza finissima, una mente connettiva e una grande umanità. Ha cementato il tutto la strana ed inspiegabile alchimia dell' amicizia. In più sapeva scrivere come pochi altri,in modo semplice ma non certo semplicistico, garbato ma incisivo.

Come si usa tra amici mi ha fatto, in questi pochi anni, regali preziosi: mi ha dato la possibilità di scrivere, il privilegio di leggerlo e mi ha concesso la sua fiducia affidandomi il blog,la sua "creatura", nei rari momenti in cui non poteva occuparsene di persona. Mi ha accolto in casa sua, abbiamo riso insieme e sofferto insieme per attacchi personali che definire vili è poco, che ci hanno sconfortato. Mi ha lasciato scrivere la recensione del suo libro "Sa Losa de Osana": non ne avevo mai scritto una, ma gli era piaciuta e lo aveva fatto sorridere.
Vorrei vedere il suo grande sogno realizzato, il bilinguismo. Vorrei che venisse non solo realizzato, ma ampliato al trilinguismo nei musei, e negli altri luoghi dove si raccontano la storia e la cultura della sua Terra: quando vi sbarcavo gli mandavo sempre un messaggio "Arrivata in Terrasanta!".
Ci siamo incontrati raramente, ma era contento di sapere che ero lì.
Vorrei che fosse intitolata a lui la sala del museo di Cabras dove verranno messe in mostra le sculture di Monti Prama, emblema antichissimo della Sardegna libera, indipendente, moderna ed internazionale che sognava.
In tanti hanno commemorato Gianfranco in questi giorni, tra i miei preferiti i bellissimi pezzi di Manuelle Mureddu e di Vito Biolchini, e i commossi contributi di Roberto Bolognesi. Mi hanno fatto piangere gli amici che gli hanno detto "Adiosu frade".
A me piace pensare che sia adesso nell'Intorno, come sempre penso della luce; non "lassù", perchè il Lassù è troppo lontano.
Arrivederci amico mio.

domenica 9 settembre 2012

Archeologia in Sardegna, quarant'anni di cattivi maestri


di Mauro Peppino Zedda


Recentemente Mauro Perra ha pubblicato un interessante articolo “Osservazioni sull’evoluzione sociale e politica in età nuragica” nella Rivista di Scienze Preistoriche LIX 2009, 355-368.
L’interessante articolo di Perra si presta ad una serie di interessanti considerazioni in relazione allo stato dell’arte dell’archeologia preistorica isolana.
A riguardo del modo in cui Perra interpreta la società nuragica, niente di nuovo rispetto a suoi precedenti articoli, e per la mia analisi critica della sua tesi rimando alla lettura di Archeologia del Paesaggio Nuragico.
Ma il suo articolo è estremamente interessante a riguardo dello stato dell’arte dell’archeologia preistorica isolana. Perra prima di proporre la sua teoria cita e fa l’analisi critica delle proposte che l’hanno preceduto. Cita (nell’ordine) Giovanni Lilliu, Vincenzo Santoni, Fulvia Lo Schiavo, David Trump, Alessandro Usai, Gary Webster, Luca Navarra, Paula Kay Lazrus, Dyson e Rowlands, Giovanni Ugas.
Come mai Mauro Perra non cita le pubblicazioni di Alberto Moravetti e Giuseppa Tanda ovverosia gli attuali professori ordinari delle Università di Sassari e Cagliari, e neppure i loro predecessori Ercole Contu e Enrico Atzeni.
Infine, in chiusura del testo scrive testualmente: “Dedico questo lavoro a Renato Peroni per il quale nutro un solo e sincero rammarico: quello di non essere stato un suo allievo. Sono inoltre in debito di riconoscenza agli amici e colleghi Giulio Angioni, Emily Holt, Fulvia Lo Schiavo, Alessandro Usai, nonché alla mia compagna Tatiana Cossu.”.
Che dire? Mi pare che il rammarico di Perra per non aver avuto Peroni come maestro e la contestuale mancata citazione dei suoi maestri sia sintomatica.
La mancata citazione di Atzeni, Moravetti e Tanda la comprendo appieno, nessuno dei tre ha proposto niente di interessante sui nuraghi, nella loro carriera si sono limitati a ripetere le teorie di Lilliu.
Viceversa ritengo che Ercole Contu meritasse di essere preso in considerazione, all’analisi del mondo nuragico ha dedicato un grosso libro e tanti articoli. Certamente le tesi di Ercole Contu non brillano in fatto di linearità (casca spesso in banali contraddizioni), ma questo non dovrebbe aver impedito la sua mancata presa in considerazione, le contraddizioni di Contu non sono certo più gravi di quelle in cui cade Lilliu.
Ercole Contu propone una società nuragica egualitaria, anche se spesso (senza accorgersi di cadere in contraddizione) cita dei re o reucci che nel suo schema non dovrebbero esistere.
Ma Lilliu non è da meno, riuscendo a conciliare il comunitarismo che a suo parere emerge dalle tombe di gigante con il verticalismo dei nuraghi.
Caro Mauro Perra, mi pare che Contu avrebbe meritato una citazione ben più sostanziosa dello spazio che hai dedicato alla tesi di Luca Navarra (uno che i nuraghi deve averli visti solo in fotografia).
Infine confesso che anch’io ho un grosso rammarico: gli studenti sardi di archeologia (negli ultimi 40 anni) avrebbero meritato dei migliori maestri.

giovedì 23 agosto 2012

Ancora sulle recenti considerazioni di Ugas


di Paolo Littarru


In merito alle considerazioni del Prof. Ugas, vorrei fare due ulteriori aggiunte:

1. Non corrisponde al vero che nei nuraghi “non si trovino oggetti connessi coi culti e con le offerte sacre di corredo sacro prima degli inizi del I Ferro”; come abbondantemente dimostrato dall’archeologo Augusto Mulas nel suo recente libro “L’Isola sacra – Ed. Condaghes”, l’abbondanza di reperti risalenti finanche al Bronzo Medio (periodo di presunta edificazione dei primi nuraghe), è rivelatrice di usi cultuali;

Inoltre, come ottimamente illustrato da Mauro Zedda in “Archeologia del paesaggio nuragico”, gli "indicatori archeologici" che deve presentare una struttura per poter essere interpretata come sacra, o meglio gli indicatori di un rituale, sono esposti in Renfrew e Bahn Archeologia. Teorie, metodi e pratiche ed. 1995 e 2006 Zanichelli e sono i seguenti
- concentrazione dell'attenzione

luogo caratterizzato da speciali associazioni naturali (es. grotta, boschetto, sorgente, cima di una montagna
posizione periferica rispetto ad un centro abitato
presenza di altari, seggi, focolorai, incensieri e tutti i parafernalia del rituale
simboli ripetuti "ridondanza"

- zona di confine tra il mondo di confine e l'aldilà

sia cerimonie pubbliche che misteri nascosti ed esclusivi la cui pratica si riflette nel luogo di culto
elementi di purificazione (es. piscine e bagni rituali; pozzi, l'aggiunta è una n.d.r.)

-presenza della divinità

immagini o rappresentazioni della divinità
simboli riferiti all'iconografia es. animali reali o mitici
simboli rituali riferiti a rituali funerari o altri riti di passaggio

- partecipazione e offerte

decorazioni o immagini che richiamino movimenti rituali o gesti di adorazione

il rituale può includere la danza, la musica etc.
sacrifici animali
cibi e bevande bruciate sparse
oggetti votivi rotti o nascosti
investimento di ricchezza nell'apparato cerimoniale e nelle offerte, oltre che nell'edificio stesso

In pratica solo pochi di questi indicatori saranno ritrovati in un contesto archeologico


Evidenzio che il testo degli archeologi inglesi vorrebbe essere di portata generale, riferibile cioè a tutti i contesti archeologici, senza esclusioni.
Nel BM ma ancor più nel BF molti di questi indicatori sono presenti nei nuraghi.

2. Non consta corrispondere al vero allo stato attuale delle conoscenze e salvo prova contraria che nei nuraghi si trovino armi risalenti al presunto periodo di edificazione dei nuraghe

domenica 22 luglio 2012

Ugas insiste... nel continuare a non capire


di Mauro Peppino Zedda


Ieri, nel blog gianfrancopintore, Giovanni Ugas ha replicato al post Caro amico ti scrivo…, ecco la mia ulteriore risposta.

Caro Giovanni Ugas,
non pensavo certo di offenderti nel dire che Tu e gli altri archeologi sardi (Alberto Moravetti, Peppina Tanda e tutti gli altri) continuate a non capire i risultati delle mie ricerche archeoastronomiche, quando scrivi “Infatti essendo numerosi, a migliaia, si troveranno sempre dei nuraghi, opportunamente scelti, disposti in modo tale da comporre tra loro tutte le più importanti costellazioni del firmamento visibili ad occhio nudo.”, dimostri di continuare a non capire, insisto nel ribadirlo perché non voglio assolutamente pensare che tu fai finta di non capire (i contenuti dei miei studi archeoastronmici) e che le tue osservazioni siano finalizzate a imbrogliare le carte.
Le mie carte sono chiare, sono state pubblicate come articoli scientifici (in prestigiose riviste scientifiche accademiche) e come monografie, ed hanno messo in luce che l’ingresso dei monotorre e delle torri centrali, le linee tangenti alle torri periferiche dei nuraghi complessi, la dislocazione dei nuraghi, risponde a criteri astronomici connessi coi solstizi e lunistizi. Inoltre i nuraghi oltre ad essere orientati e dislocati astronomicamente presentano dei casi in cui sono stati addirittura concepiti astronomicamente.
E tu che fai ? Banalizzi la questione, dimostrando di non capirla o facendo finta di capirla!
Caro Giovanni e mie carte sono così chiare che i maggiori archeoastronomi accademici del mondo hanno riconosciuto le mie tesi.
Tu e gli altri archeologi sardi avreste avuto il dovere di prendere atto del significato astronomico dei nuraghi almeno da quindici anni fa, cioè dal momento che i maggiori archeoastronomi accademici del mondo hanno preso atto della bontà delle mie proposte, io non voglio minimamente pensare che ancora oggi facciate finta di non capire, semplicemente non capite. Non capite nè il significato astronomico dei nuraghi, né che esistono i presupposti per accettarlo anche se non avete le conoscenze idonee a comprenderlo, visto che viene accettato dai più autorevoli archeoastronomi del mondo.
Tornando al significato dei nuraghi, nel mio Archeologia del Paesaggio Nuragico ho scritto che i nuraghi sono, ontologicamente, più vicini ai nostri campanili che alle nostre chiese.
Che i nuraghi siano torri non ho mai avuto il minimo dubbio, come sul fatto che dire torre non significa dire castello!!
Nella mia replica ti ho dimostrato che gli argomenti che a tuo parere indicano che i nuraghi siano fortezze, non sono validi (cfr post Caro amico ti scrivo…) e per approfondirli rimando ad Archeologia del Paesaggio nuragico.
Tu scrivi che “Zedda stesso ammette che nei nuraghi si accumulavano le risorse e che dunque implicitamente vi erano esigenze difensive; queste non potevano essere affrontate senza apparecchiature di difesa, cioè senza le torri dei nuraghi stessi.”. Scusa, ma non ho mai scritto, né detto, che nei nuraghi si accumulavano risorse!!!
I nuraghi hanno dei risibilissimi spazi interni e non credo proprio che siano confacenti ad ospitare genti normali (per viverci) o derrate alimentari. Diverso il discorso per le meigas, "equiparabili" alle nostre monache di clausura, ovviamente con differenti ruoli.
Certamente il dato di fatto, oltre al loro orientamento e dislocazione astronomica, è il fatto che quando la spiritualità nuragica ritorna iconica nel Bronzo Finale (per te nell’età del Ferro) i nuraghi vengono utilizzati come sacelli votivi, possibile che a te non sembra strano che migliaia di fortezze vengono in templi?
Come ti è possibile pensare che le migliaia di lillipuziane fortezze (orientate e dislocate astronomicamente) vengano trasformate in luoghi di culto?
Perché il loro cambio di destinazione d’uso avviene quando la spiritualità passa dall’aniconismo all’iconismo?
Perchè dei capi e dei guerrieri sui quali continui a fantasticare non c’è traccia né nei nuraghi né nelle tombe?
Considerando i dettami astronomici con cui sono stati costruiti i nuraghi, e valutando con attenzione che quando la spiritualità diventa iconica i nuraghi vengono utilizzati come sacelli votivi, è logico pensare che l’utilizzo dei nuraghi all’epoca della loro edificazione fosse nella sfera del sacro. Purtroppo è assai difficile stabilire i contenuti di una religiosità aniconica quale fu quella delle genti che li edificarono, certamente era una religiosità dove l’edificazione dei nuraghi aiutava ad “acquietare” tensioni relative allo spazio e al tempo, e su questo ha dato un ottimo contributo Franco Laner (cfr Accabadora, 1999, Sa ‘Ena 2011), e recentemente Arnold Lebeuf (L’osservatorio lunare di Santa Cristina 2012) dimostrando che i nuragici erano genti interessate a prevedere le eclissi.

mercoledì 18 luglio 2012

Caro amico ti scrivo ...

di Mauro Peppino Zedda

Il 17 luglio 2012, il blog gianfrancopintore , ha ospitato un articolo, Nuraghi, Shardana ed altre questioni, dell’archeologo Giovanni Ugas, il suo articolo contiene interessanti spunti di discussione, estrapolo alcune sue frasi, ma sarebbe importante andare a leggere l’intero suo articolo.
Ugas scrive: “Tra i nuraghi esiste una gerarchia di articolazioni (torri singole, bastioni pluriturriti, bastioni con cinta esterna turrita) che può essere spiegata in maniera soddisfacente soltanto presupponendo una parallela articolazione sociale. Soprattutto il numero limitato (soltanto una cinquantina tra le migliaia), dei nuraghi con bastione difeso da una cinta turrita esterna, che potevano ospitare una consistente guarnigione di soldati, presuppone l’esistenza di autorità gerarchicamente superiori di capi che stavano al vertice della comunità.
Ovviamente, in quanto residenze (fortificate) di capi, esattamente come i palazzi residenziali dell’Egeo e del Vicino Oriente, i nuraghi erano abitati e infatti vi si trovano i resti relativi alle diverse funzioni e attività quotidiane, quali le strutture per le riserve alimentari e idriche, avanzi di cibo e strumenti per ottenerlo, le armi dei guerrieri (frombolieri, spadaccini, arcieri, lancieri) e così via. Semmai come nei palazzi micenei e orientali, nei nuraghi poteva esserci un angolo di sacro (si pensi al megaron). Detto ciò, le persone che nonostante gli incontrovertibili dati della ricerca archeologica, insistono ciecamente nel ritenere che i nuraghi fossero templi dovrebbero cercare di rispondere, tra i tanti altri, a questi quesiti:
1) perché i nuraghi sono costruiti con torri culminanti con terrazzi sorretti da mensole come i castelli medioevali?
2) perché i nuraghi sono così differenti tra loro nell’articolazione?
3) per quale ragione il nuraghe di Su Nuraxi in Barumini, nel corso del Bronzo finale, fu rifasciato e l’ingresso fu trasferito dal piano terra a circa 7 metri d’altezza?
4) perché, se fossero templi, i nuraghi furono sistematicamente devastati e poi nel I Ferro non furono più costruiti ma semplicemente ristrutturati?
5) perché nei nuraghi non si trovano oggetti connessi coi culti e con le offerte sacre di corredo sacro prima degli inizi del I Ferro o (se si vuole per qualche archeologo) prima del Bronzo Finale, mentre all’opposto si trovano manufatti necessari per la sussistenza quotidiana e le armi? Ammesso che qualcosa fosse sfuggito agli archeologi, è impensabile che nei livelli del tardo Bronzo non abbiano visto nulla di afferente con la generale sacralità degli edifici.
Invero i sostenitori dell’equazione nuraghi=templi sono prigionieri di preconcetti teorici. Quanto all’orientamento, gli edifici sono disposti in modo da godere al massimo della luce e gli ingressi non volgono mai direttamente verso i quadranti notturni ed esposti al freddo. Tutto il resto è conseguente. Anche le case campidanesi di ladiri avevano gli ingressi verso la luce e il calore e di certo non erano certo templi. Ma se anche fossero orientati su particolari posizioni del sole, della luna e di qualche stella, può ben significare che i nuraghi erano sotto la protezione delle divinità che tali astri rappresentano, e non che essi erano templi di tali divinità. In età arcaica e classica, anche i reticolati geometrici delle città (Marzabotto, città romane etc.) rispecchiano determinati parametri astrali e nessuno si sogna di dire che erano templi. Tutt’al più questi studi sono utili per risalire al grado di conoscenza degli astri dei nostri antenati e alla identificazione di qualche culto. E’ ben noto, al riguardo, che il culto della luna, del sole e di qualche stella era già praticato in età prenuragica
.”.

Mi pare corretto rispondere ai cinque punti segnalati da Ugas, dunque:
1) le mensole oltre che nei castelli sono presenti sia nelle chiese che nei campanili medievali, ma aggiungerei anche nei minareti musulmani e negli edifici sacri indù, la presenza di mensole in un edificio non è la prova che l’edificio sia una fortezza.
2) La differente articolazione costruttiva non significa che essi siano edifici fortificati, anche le chiese cristiane in ogni epoca presentano differenti articolazioni legate al rango della sede o alle risorse delle comunità.
3) Il rifascio di Barumini, ammettendo e non concedendo che la chiusura dell’ingresso a terra e la sua sopraelevazione sia stata eseguita per motivi difensivi (ritengo che anche il rifascio e l’innalzamento dell’ingresso a 7 metri sia stato eseguito per motivi religiosi (vedi Archeologia del Paesaggio nuragico, 2009)), questo dato dovrebbe interpretato come l’adeguamenndo a fini difensivi di una struttura che originariamente aveva un’altra funzione, perché sopraelevare l’ingresso se in migliaia di altri casi (a parere degli archeologi) essi sarebbero stati idonei a impedire l’ingresso dei nemici. In realtà gli ingressi dei nuraghi non sono idonei a essere interpretati come ingressi di edifici fortificati, solo con la fantasia degli archeologi imposta come un dogma ex-cattedra, si è potuta veicolare questa grossolana sciocchezza! E il rifascio di Barumini, se anche si stabilisse che è stato fatto per motivi difensivi, sarebbe un indizio che i nuraghi non sono idonei alla difesa! D’altrronde abbiamo tanti esempio di edifici sacri trasformati in fortini.
4) Di nuraghi a partire dal Bronzo Finale non se ne costruiscono più, ma non è questa una ragione per asserire che non fossero edifici sacri.
5) Ugas riconosce che a partire dal I ferro per lui e a partire dal Bronzo Finale (per altri archeologi) nei nuraghi vi sono i segni evidenti di un loro uso nella sfera del sacro. Ugas immagina che nel I Ferro i nuraghi vengono trasformati da fortezze in templi. Purtroppo Ugas dimostra di non conoscere i caratteri della religiosità e della spiritualità nuragica ante il Bronzo Finale, non riesce a vedere che a cavallo del Bronzo Finale si è svolta una radicale trasformazione dei caratteri della religiosità nuragica, finisce l’aniconismo e si passa all’iconismo (vedi Archeologia del Paesaggio Nuragico, 2009).

Riguardo alle sue confuse argomentazioni in relazione al significato astronomico dei nuraghi. Dopo vent’anni dal mio primo libro Ugas continua a non capirci niente, mentre il mese scorso una delle editrici più importanti al mondo (la Springer) mi ha chiesto di fare un capitolo sui nuraghi per un loro libro di archeoastronomia (Handbook of Archaeoastronomy and Etnoastronomy, Editor CLive Ruggles). Nel mentre che i più autorevoli studiosi accademici di archeoastronomia riconoscono la validità dei miei studi, gli archeologi sardi continuano a non capirne niente!!
Caro Giovanni Ugas perché a te e agli archeologi sardi è così difficile capire che la forma triangolare del nuraghe Losa è figlia di un pensiero astronomico, che ci si trova di fronte ad un mastro costruttore che voleva incardinare la sua struttura lungo gli assi solstiziali e non solo orientarla astronomicamente come nel caso del nuraghe di Barumini e di tutti gli altri nuraghi?
Caro Giovanni Ugas perché a te e agli archeologi sardi è così difficile capire (ripetere serve, spero) che i nuraghi della valle di Brabaciera (e altri ) sono disposti sul territorio secondo allineamenti coincidenti con le linee solstiziali e lunistiziali?
Caro Giovanni Ugas perché a te e agli archeologi sardi è così difficile prendere atto di quanto la comunità scientifica mondiale ha sentenziato sul significato astronomico dei nuraghi?






domenica 15 aprile 2012

Sassu Sorres

di Mauro Peppino Zedda

La parola Sorres (sorelle), caratterizza il nome di una delle più belle chiese romaniche della Sardegna, San Pietro di Sorres, che fu sede del vescovo della diocesi di Sorres.
Il nome Bidda ‘e Sorris caratterizza anche il paese che in italiano suona come Villasor.
Recentemente Augusto Mulas in coda ad un bel saggio di archeologia, L’Isola Sacra - Ipotesi sull’utilizzo cultuale dei nuraghi, dove si mette in luce come i reperti che si rinvengono nei nuraghi attestino un loro uso cultuale, prospetta l’ipotesi che il nuraghe Santu Antine di Torralba e i nuraghi ad esso circonvicini siano una rappresentazione delle Pleiadi.
I Nuraghi che secondo Mulas rientrerebbero nello schema sono: Cabu Abbas, Santu Antine, Oes, Balzalzas, Fraigas, Longu, Curzu. Che risultano reciprocamente disposti, come le stelle Atlante, Alcione, Merope, Elettra, Celeno, Taigete, Asterepe.
Le Pleiadi sono un ammasso stellare, facente parete della costellazione del Toro, che occupa lo spazio di un disco solare, una persona con vista normale, ad occhio nudo, può distinguere 5-6 stelle di quell’ammasso, un persona con un ottima vista può osservarne 8 o 9.
Che le Pleiadi siano entrate a far parte del patrimonio culturale dell’umanità è cosa nota, sono state utilizzate per millenni come punto di riferimento per orientarsi per mare e per terra, il loro sorgere e tramontare eliaco era utilizzato a scopi calendariali dagli agricoltori e dai pastori.
Le Pleiadi sono entrate nelle mitologie e cosmologie di tantissimi popoli di ogni angolo del mondo.
La “costellazione” delle Pleiadi sarebbe, secondo Mulas, stata rappresentata nel territorio compreso tra Torralba e Giave, nell'area comprendente le località di S’Archimissa, Sos Poios, Mesu e Gambas, Paule e S’Ittiri e Sassu Sorres.
Paule s’Ittiri indica un luogo palustre, Mesu e Gambas indica un luogo palustre dove l’acqua arriva a mezza gamba, Sos Poios indica un luogo dove si ritrovavano olle, S’Archimissa è il nome sardo della lavanda, e Sassu Sorres significa “pietra sorelle”.
Cosa ci vuol indicare il nome del luogo Sassu Sorres? Chi sarebbero queste sorelle? Forse le Pleiadi figlie di Atlante?
Certamente è singolare che nell’area in cui Mulas indica che un gruppo di nuraghi ricalca la disposizione delle stelle considerate come le figlie di Atlante, vi sia un toponimo come Sassu Sorres.
Altrettanto curioso il fatto che l’area facesse parte della diocesi di Sorres e che la sede del vescovado fosse a soli 4 chilometri dal Santu Antine.
Nello schema individuato da Mulas il Santu Antine corrisponderebbe alla stella più luminosa, Alcione.
Lo schema indicato da Mulas riflette con sufficiente approssimazione (immaginate la difficoltà di inquadrare 8-9 stelle nel ridotto spazio equivalente ad un disco solare) la disposizione delle stelle facenti parte delle Pleiadi, ma manca il nuraghe che avrebbe dovuto rappresentare Maia.
Per un’ottimale rappresentazione delle Pleiadi, avremo dovuto trovare un nuraghe, situato, pressappoco, a metà strada lungo la linea che intercorre tra il Santu Antine e Longu.
In quell’area vi è una cava di pietre e non ci sarebbe da stupirsi se la cava fosse sorta nei pressi del nuraghe mancante. Tantissimi nuraghi sono stati fatto oggetti di spogli più o meno intensi ed era prassi normale (sino a 40 anni fa) localizzare le cave o nei pressi di un nuraghe o nei pressi di domus de janas a seconda del tipo di materiale lapideo che serviva.
Sicuramente la proposta di Mulas, tutta da valutare, apre nuovi interessantissimi scenari alle ricerche archeoastronomiche.

lunedì 20 febbraio 2012

Giovanni Lilliu (1914-2012)

di Franco Laner

Di Giovanni Lilliu, a cui ho rivolto in cuor mio quando ho saputo della sua morte un deferente Requiscat in pace, conservo diversi libri. Oltre alla monumentale “Civiltà dei Sardi” e a “Sardegna nuragica” conservo una sua raccolta di articoli “Una vita da archeologo”, che registra molti articoli scritti dall’illustre studioso e che restituiscono una sorta di autobiografia, scientifica ed umana.
Conservo anche suoi articoli, come quello che scrisse per la “Nuova” il 9 novembre 1997 che titolò “I templi antichi guardano il cielo”.
L’articolo prende le mosse dalla sua partecipazione, come Accademico dei Lincei, al Convegno celebrato a Roma con tema “Archeoastronomia, credenze e religioni nel mondo antico”
In sintesi, in quell’articolo, il professore apre alla legittimazione e conferisce “la patente di scienza” all’archeoastronomia, legittimata per così dire dall’Accademia dei Lincei. Con l’augurio di rimuovere gli steccati del passato, si aspetta dal nuovo approccio interdisciplinare nuove scoperte con l’auspicio di lavorare assieme, nel possibile e nel conveniente.
Nel lungo articolo intravede la possibilità che proprio dal magico e religioso possa essere maturata una ragione scientifica, che ha portato a visioni e modelli teorici e a creazione di sistemi fondati anche su osservazioni astronomiche e principi di geometria (cioè categorie di ordinamento, seppur elementari) che erano di casa a latitudini diverse ed in tempi progressivi…
Senza quelle origini, prosegue Lilliu, non avremmo avuto la nostra stagione nella quale, in virtù di una sotterranea continuità vitale, si rende necessario saldare i valori della scienza e della tecnica con la grande tradizione della plurimillenaria civiltà umana. Benvenuta sia dunque la nuova disciplina dell’archeoastronomia, ovviamente nel suo proprio e severo ambito scientifico. Praticarla su questo fondamento gioverà anche ad eliminare il sottobosco degli “archeoastronomi” improvvisati che pullulano in varie parti del mondo e prosperano anche, con un seguito senza discernimento, nella nostra Sardegna.
Ricordo molte discussioni che seguirono. Facile riconoscerci in quel sottobosco (oltre a Mauro, al sottoscritto e un paio d’altri, nessuno in Sardegna si occupava di archeoastronomia, se si esclude Proverbio presente al Convegno) con irritazione da una parte, ma anche con speranza, che l’apertura di Lilliu prefigurava.
Gli scrissi la seguente lettera, alla quale mi diede breve risposta durante un Convegno, mi pare ad Isili che Zedda organizzò, dicendomi che avevo frainteso l’articolo. Non ricordo le parole, ma quell’incontrò definì nella mia testa il profilo di Lilliu: furbo come ra stries, mi ripeto in ladino.

Egr. prof. Lilliu,
Sono un docente di tecnologia dell’architettura all’Università di Venezia. Mi occupo anche della storia delle tecnologie costruttive e fra le altre cose ho cercato di capire come furono costruiti i nuraghi. Ciò che ho letto a questo proposito –specie nei suoi libri o della sua Scuola- non mi ha soddisfatto e pertanto sono venuto in Sardegna a vedermi i nuraghi. Ho formulato un mio sistema costruttivo, che sintetizzato suona come “nuraghe macchina di sé stesso” ovvero la necessaria rampa di servizio è “congelata” nello stesso nuraghe: non c’è bisogno di supplementari rampe esterne, né di scalandroni, come ipotizza un suo ex allievo, Giacobbe Manca. Oggetto di questo mio studio è stata una relazione che ho illustrato a Saragoza, in un convegno internazionale di storia delle tecniche costruttive.
Ma non è di ciò che desidero parlarle, ma della nota da lei scritta sulla Nuova Sardegna, a proposito di archeoastronomia.
Ebbene, trovo davvero disdicevole tale articolo.
Ma al contempo stimolante, perché mi fa riprendere la voglia di completare un lavoro, di cui allego l’indice e l’introduzione, sufficiente credo ad esprimere la mia opinione sulla questione nuragica, di cui ovviamente sono un dilettante (sono architetto), uno di quei dilettanti che pullulano nel sottobosco della vostra Sardegna (l’indice e l’introduzione erano quelli di “Accabadora” in cui sostenevo che i nuraghi appartengono al sacro e che la teoria militare aveva fatto troppi danni).
Vede, se ci si occupa delle costruzioni del passato, soprattutto megalitiche e ciclopiche, prescindendo dall’archeoastronomia, sarebbe come scrivere senza conoscere la grammatica o la sintassi. Forse voi archeologi avete dimenticato di guardare l’ordine magistrale del cielo, poiché, chini sugli scavi, vi interessa ciò che brilla sulla punta del piccone e solo ora vi accorgete della “nascente archeoastronomia”.
Ma torniamo alla chiusura del suo articolo: “Benvenuti…nella nostra Sardegna”…Il resto, mi scusi, sono cose senza nessuna inferenza speculativa, scritte solo per recuperare un treno perso da tempo. Come pensa di eliminare il sottobosco degli archeoastronomi? Credo ci sia un solo modo. Non con la spocchia accademica, ma col confronto, poiché una verità o una stupidità non cambia se detta da un accademico o da un peon.
E sopporti anche qualche “outsider”, che pensa che il patrimonio archeologico sardo sia anche un poco suo, non solo vostro, così come il patrimonio artistico e culturale di Venezia è anche suo, non solo nostro!
Cordiali saluti
Franco Laner
Venezia, 28/12/1997

Lilliu ha incarnato un profilo di archeologo che nulla può o deve concedere all’illazione. Non si devono formulare ipotesi, né tantomeno, suggestioni.
L’archeologo -scrive Lilliu- questo essere che, di solito, ha una vena di pazzia, deve diventare l’uomo più “saggio”, più controllato del mondo; deve essere una sorta di perito settore, dalla mano ferma e dall’occhio rapido, sordo ad ogni richiamo patetico dello spirito.
Strana contraddizione. Forse che chi ci ha preceduto non concedeva nulla allo spirito? Ma come avvicinarmi a costui, senza concedere qualcosa allo spirito?
Venezia, 19 febbraio 2012

lunedì 23 gennaio 2012

GUERRIERI DI MONTE PRAMA
Preconcetti ed autoreferenzialità alla base di una risibile ricostruzione

di Franco Laner

Ricomporre un puzzle di più di 5.000 frammenti e soprattutto con molti pezzi mancanti penso sia impresa difficile che diventa impossibile se alla carenza di reperti si aggiungono distorsioni ideologiche, ignoranza di semplici regole statiche e tremendi quanto fuorvianti preconcetti. Il peggiore in assoluto è quello di vedere in ogni frammento cilindrico o di colonna, con basamento o capitello, un modello di nuraghe.
La parte centrale della Mostra “La pietra e gli eroi”, allestita a Li Punti (SS), nel Centro di Restauro e visitabile fino alla fine del mese, è dedicata infatti ai modelli di nuraghe. Il percorso della Mostra inizia con scontornate statue di pugilatori, così identificati per il gonnellino chiuso con lembo posteriormente sporgente. Il percorso espositivo si sofferma poi sui tanti, tantissimi, modelli di nuraghi e si conclude con le statue “meglio” ricostruite. La parte finale a mio avviso è l’apoteosi della sommatoria di errori e forzature, con la chicca dello scudo in testa ai pugilatori e il modello di nuraghe polilobati con le torri e il mastio centrale ben fornite di aggetti medioevali.
Non v’è antica cultura al mondo –Africa, Asia, Mediterraneo- in cui la rappresentazione cosmica non sia stata interpretata con i quattro pilastri che reggono la cupola celeste ed il pilastro centrale (axis mundi).
Con questa rappresentazione cosmologica si sono costruiti templi, santuari, mandala e moschee. Lo stesso Taramelli, illustre archeologo nuragico, interpreta i bronzetti con la torre centrale (es. Ittireddu) con le quattro più piccole laterali come modello di santuario (v. Convegno archeologico in Sardegna del 1926).
Legittimo dunque a fronte di tante colonne con allargamento apicale far riferimento a questi modelli cosmologici, ma interpretare una colonna con basamento o capitello come modello di nuraghe, mi sembra una forzatura disarmante. Anche un chiarissimo basamento quadrangolare –basamento del tutto uguale per dimensione e spessore (circa 60x60x15cm di spessore) ai basamenti delle statue, con relativo spezzone di colonna, è descritto nel cartellino come modello di nuraghe! Oltrettutto è esibito capovolto.
La finitura della sommità dei nuraghi, costruzioni di muratura ciclopica ed a secco, è possibile con mensoloni incastrati. Ma su questi mensoloni è impossibile costruire alcunché, poiché i mensoloni non sopporterebbero momenti flettenti e subito si spezzerebbero. L’aggetto apicale di una colonna , ovvero il suo allargamento, è possibile perché è monolitica, ma non è possibile in una costruzione a secco come il nuraghe. E ciò per semplici ragioni statiche e di scarsissima resistenza a trazione offerta dalla pietra.
Per questa stessa ragione di poca resistenza a trazione della pietra, le statue marmoree devono sottostare a vincoli statici che ne condizionano la composizione. Ad esempio, se il loro appoggio è dato solo dalle due gambe, la statua non può reggere al ribaltamento, dato da una lieve spinta o eccentricità del carico. Per reggersi, una statua di pietra, ha necessità di un terzo appoggio. Si veda qualsiasi statua litica dai greci a Canova! Ovvio che questo discorso non vale per statue bronzee o metalliche, poiché tali materiali resistono a trazione. Pertanto le statue di Monte Prama, con due soli appoggi, possono resistere solo a carichi verticali e non possono che essere telamoni. Devono essere “schiacciati”, ovvero solo compressi, sollecitazione a cui la pietra regge ottimamente. Come corollario i pugilatori non avevano in testa lo scudo –lo scudo lo hanno gli scudieri!- bensì l’architrave del tempio.
Esibire al mondo spezzoni di colonna con basamento o capitello e dichiararli modelli di nuraghe equivale ad una frase con gravi errori di grammatica e sintassi. Significa mettere in cattiva luce il paziente lavoro di ricomposizione di frammenti anche se guidata da una molto discutibile idea nuragica di appartenenza dei reperti. Per un tale ed impegnativo lavoro di ricostruzione l’archeologo doveva essere affiancato dallo storico dell’arte e soprattutto da chi abbia tenuto in mano lo scalpello (uno scultore). Monte Prama appartiene geograficamente alla gronda lagunare di Cabras, frontiera terra-acqua. Serviva dunque anche un profondo conoscitore della storia e geografia dei navigatori del Mediterraneo. Ancora era necessario chi conosca le tecniche costruttive a secco e chi abbia chiaro il comportamento statico. E’ stato in verità chiamato uno fra i maggiori esperti di statuaria antica, il prof. Rockwell, ma i suoi suggerimenti di statica e datazione (uso della gradina introdotto in Grecia solo nel V sec. av. Cristo), sono stati del tutto disattesi, proprio per l’insistenza nuragica. L’autoreferenzialità e soprattutto idee preconcette, ad esempio voler dimostrare come la statuaria a tutto tondo dei guerrieri di Monte Prama abbia preceduto quella greca di alcuni secoli e l’insistenza su qualche somiglianza coi bronzetti, ha molto nociuto alla scientificità della ricostruzione.
Ci sono assonanze coi bronzetti nuragici, ma c’è assonanza anche con l’arte cicladica o dogon. Assonanze ma anche sostanziali diversità. I telamoni di Monte Prama sono statici, privi di plasticità, colonnari e alquanto sproporzionati: gambe cortissime e tozze rispetto ad un corpo massiccio, privo di tensione.
Gli enigmatici occhi, con le pupille dilatate e la bocca ermeticamente chiusa sono eloquenti: ci invitano tutt’ora ad essere vigili ed attenti. Forse anche a preferire il silenzio.