lunedì 28 novembre 2016

Archi e travi

di Franco Laner




L’osservatore sembra si stia chiedendo: ho un arco sopra la testa? Gli rispondo con l’articolo seguente.


Mia moglie mi ha fatto notare, in Facebook, alcuni commenti a proposito del nuraghe Alvu di Pozzomaggiore, in particolare degli amici Saba e Montalbano, che assieme ad altri si interrogano sui tecnemi costruttivi dei nuraghi, a secco (che non ci sia malta -ovvero inerti e legante- lo posso testimoniare avendo fatto analisi su presunte malte del Losa) e con conci sommariamente sbozzati.
Mi dispiace invece deludere la collega  Auguadro: se avessi un minimo di credibilità, farei davvero modificare la storia dell’architettura aprendo ogni storia del genere con il pozzo di S. Cristina, strappandolo all’archeologia, che pochissimo c’entra col mirabile ed emozionante documento costruito.
Comunque il problema di cui si tratta è un po’ più intrigante di quanto potrebbe apparire e soprattutto il parere estemporaneo di chi si avvicina ad una disciplina munito del buon senso non è sufficiente (ho spesso fatto l’elogio del buon senso comune, citando Raffaele La Capria, che nel bellissimo volumetto “La mosca nella bottiglia” chiarisce l’importanza del buon senso comune).
Talvolta  è però necessario conoscere i prolegomeni di una disciplina per formulare giudizi più approfonditi.
Ci sono due modi per coprire una spazio: o con la “trave semplicemente appoggiata”  e sue declinazioni (in pratica il trilite, come il dolmen) oppure con “l’arco” che però è spingente, a differenza della trave semplicemente appoggiata che dà reazioni verticali.
La trave deve essere realizzata con materiale che resiste a compressione e trazione. Nell’arco invece è sufficiente che il materiale resista a compressione. Ogni suo componente, concio, è solo schiacciato, mai teso e in questo fatto risiede la meraviglia delle strutture ad arco, a volta, a cupola di rotazione.
Intanto, per prima cosa, lasciamo perdere le priorità e le datazioni storiche, perché entrambe le soluzioni hanno precedenti storici in varie località e sono presenti anche presso comunità e territori non contigui, isolate fra loro. E’ come discutere su chi ha “inventato” il tetto spiovente a falde o piano…. Ci sono soluzioni simili e ovvie presso comunità più disparate e isolate, perché l’intelligenza dell’uomo è diffusa e risolve nello stesso, ovvio modo, le particolari situazioni. Ad esempio per far defluire l’acqua e allontanarla dalla fabbrica non c’è che la falda inclinata.


    



Archi naturali. La corrosione per acqua e vento lascia strutture che naturalmente si comportano ad arco (Ponte del Diavolo a Paullo e degli Innamorati ad Amalfi). Esistono molti ponti ad arco naturali e possono aver ispirato il sistema costruttivo



E così per coprire uno spazio: o si mette una trave di legno, o una lastra di pietra appoggiata ai muri o agli ortostati, o si ricorre all’arco.
Quest’ultima soluzione è diabolica (gli arabi dicono che il diavolo abbia inventato l’arco). Molti archi formatisi naturalmente sono chiamati ponti del diavolo e sono belle le leggende su questi ponti che hanno sullo sfondo la sconfitta del demonio. I romani hanno portato a mirabile compimento la tecnologia dell’arco, ma non l’hanno inventato. Resti di archi, oltrettutto realizzati senza centina, sono presenti nei territori mediorientali millenni prima di Cristo.



La figura che ho tratto da “Voci di Tecnologia dell’Architettura” ed. Tecnologos, Mantova 2006, è relativa alla voce “Tecnema e morfema”, che io stesso ho curato


Bando dunque alla ciance.
Mentre dal punto di vista visivo formale si può confondere e definire arco ogni struttura curva, dal punto di vista strutturale la differenza fra arco e trave è sostanziale: la trave trasmette carichi verticali, l’arco spinge e tale spinta può essere diversamente neutralizzata (es. con contrafforti, con tiranti, con grossi pilastri, ecc.).
Sia comunque ben chiaro che sto trattando l’argomento con categorie concettuali moderne. Sarebbe sciocco pensare alle soluzioni tecniche del passato con le nostre attuali categorie. In altre parole i costruttori nuragici non avevano sicuramente in testa la trave, l’arco, le reazioni, le sollecitazioni, il vettore forza, o il concetto di trazione per flessione…Bensì concezioni che a me almeno sicuramente sfuggono! Di certo possedevano categorie costruttive e pratici magisteri per realizzare ciò che è arrivato a noi.
Nel caso segnalato della  nicchia dell’Alvu la situazione è quella della piattabanda, cioè è un arco.
Ma nello stesso Alvu ci sono altre situazioni: c’è una pietra che appoggia sulla struttura rastremata e soprattutto un altro arco che si è naturalmente formato con un assestamento.
Poi c’è il mirabile stato di coazione dell’arco orizzontale della tholos, proprio di ogni nuraghe, che permette l’autocostruzione della cupola che ho sempre cercato di spiegare (v. “Accabadora” e “Sa ‘ena”) anche se con scarso successo.
Questa soluzione è la stessa che Brunelleschi ha adottato per la cupola fiorentina e che stupendamente è accennata nel film di questi giorni “I Medici”, quando la regia indugia con una ripresa all’interno della cupola fiorentina giunta al tamburo e fa vedere la rete di fili (la rete magica di Brunelleschi) che serviranno per tracciare gli otto archi in coazione che si alleano con la gravità per realizzare la cupola senza centina. Ma l’invenzione è di Brunelleschi, o i sardi l’hanno preceduta? Ma anche nei trulli è presente lo stesso artificio, così come negli antichi rifugi abruzzesi…Che senso ha la rivendicazione di risibili priorità?
Non è sufficiente dire che i costruttori nuragici hanno portato l’arte del costruire a secco al magistero più alto di questa tecnologia e che proprio anche in questa perizia, per i più incomprensibile, risiede la particolare cultura nuragica?
Proprio la comprensione dei sottili arcani costruttivi congelati nei nuraghi è stata la molla che mi ha spinto a scrivere “Accabadora, tecnologia delle costruzioni nuragiche”!
Povero quel popolo che ha bisogno di priorità inventive per legittimare le proprie radici culturali!
Si faccia un piccolo sforzo e si legga, anche se un po’ datato, l’illuminante libro di J. Diamond “Armi, acciaio e malattie” tascabili Einaudi, 1998 e forse si capirà meglio la questione della maglia rosa che spesso si vuol indossare per rivendicare priorità.
Il primo riferimento che mi viene in mente sulla risibilità delle rivendicazioni, è la priorità della statuaria di pietra rivendicata dai giganti di Monte Prama. Ma questo è un altro discorso!


venerdì 18 novembre 2016

Le radici della sorprendente flemma archeologica in Sardegna

di Franco Laner



                               


Il giorno 30 giugno 2014 si è rinvenuto un grande frammento di modello di nuraghe a terrazzo quadrato, noto in un altro esemplare nel Museo di Cabras




Amo la discussione. Ovviamente non leziosa o anacronistica, fine a se stessa e che mi lascia povero e sconfortato.
Fine ultimo di questa dichiarazione è un semplice fatto sul quale potrebbe essere stupido ritornare, se non fosse che esso è paradigma di questioni più generali, ostative ad una logica e rinnovata visione dell’archeologia nuragica.
Mi riferisco al ritrovamento, 2014, di un secondo capitello quadrangolare, inteso dagli archeologi isolani -da tutti gli archeologi isolani, perché nessuno ha mai smentito la definizione- come modello di nuraghe monotorre.
Non credo sia il caso di spiegare  cosa sia un modello. Perciò penso che scambiare un capitello per un modello di nuraghe presuma che ci siano nuraghi quadrati.
Così infatti si esprime l’archeologa Valentina Lionelli nel suo contributo nella summa del resoconto degli scavi di Monte Prama (Le sculture di Monte Prama, Gangemi editore, 2014):
Il tipo di coronamento quadrangolare è esclusivo del contesto di Monte Prama ed è presente con due esemplari, sebbene nel secondo si tratti solo di frammenti. L’attestazione di modelli con terrazzo quadrangolare ci spinge ad ipotizzare l’esistenza di nuraghi con terrazzi di questa forma.
In altre parole, se c’è il modello, certamente prima o poi verrà fuori un nuraghe quadrato!
Definire un capitello quadrangolare come un modello di nuraghe mi lascia basito! Impietrito, per restare in argomento!
Ancora non sono state rinvenute torri nuragiche quadrate e mai si troveranno, semplicemente perché impossibili da costruire con tecnologie murarie a secco. Con questa tecnologia costruttiva è già molto che si siano costruite torri circolari, dove appunto non ci sono angoli! E allora perché una tale strampalata definizione?
Non di meno mi lascia sbalordito chi, come il prof. Attilio Mastino (A. Mastino “Giganti. Simbolo della ricerca nell’Isola”, La Nuova Sardegna, 29 luglio 2014), storico ed ex Rettore dell’Univesità di Sassari, sia possibilista e scriva che non è da escludere che il modello possa avere una funzione architettonica come capitello. Insomma il modello di nuraghe potrebbe avere anche una funzione architettonica. Quale delicatezza diplomatica!
A fronte dunque di questa immane corbelleria forse val la pena chiedersi come sia possibile arrivare a tanto.
Perciò, in analogia con quanto si fa a fronte di casi sbalorditivi, si può tentare di ripercorrere a ritroso e trovare le radici che giustifichino la definizione  -ovvio solo in Sardegna- che un capitello sia un modello di nuraghe.
Accadimenti insoliti che ci lasciano increduli, come può essere leggere che un figlio ammazzi  i genitori -vedi Pietro Maso, criminale per aver così anticipata l’eredità-  o che qualcuno beva un intruglio con la speranza di guarire da un tumore o ancora pensare che il giorno e l’ora della nascita siano stati determinanti per la propria vita, possono essere ricondotti alla comprensione, non alla condivisione, se si ha la pazienza e capacità di ricomporre tutti i precedenti che hanno determinato l’atto inaudito e sorprendente. Sociologi e psicologi ci hanno abituato a trovare la giustificazione a ogni gesto insolito e spesso, forti di alcune condivisibili analisi, anche il giudizio viene sospeso.
Più vicino al nostro caso cito il ridicolo caso dell’ “agnello vegetale” della Tartaria.
Ancora nel 700 libri di botanica riproducevano –vedi voce molto ben documentata in Wikipedia-  la figura della “pecora-vegetale” per spiegare l’esistenza del cotone, che come tutti i filati, non poteva che avere origine animale. Questa creatura non faceva sorridere, né destare sospetto di bufala e illustri botanici, medici e letterati attestavano l’esistenza di tale balordaggine, sostenuta da narrazioni di viaggiatori e da prove.

    



Agnello-vegetale (da Wikipedia) della Tartaria. Molte altre immagini e descrizioni v. alla voce


Bisogna dunque fare un piccolo sforzo e ripercorrere a ritroso la questione dei modelli di nuraghe.
Prima del capitello quadrato, il capitello rotondo era stato definito sommità di un monotorre. Quindi se c’è un modello circolare, perché no quadrangolare?
A sua volta il modello di monotorre circolare era stato interpretato come tale visto che esistevano i modelli di nuraghe quadrilobati e i modelli dei quadrilobati assomigliavano a qualche nuraghe quadrilobato.
Perciò se c’è il modello di un quadrilobo, ci deve essere anche il modello del monotorre, oltrettutto assai più diffuso.
La definizione di modello di nuraghe di oggetti con quattro torri e una centrale, esempio S. Sperate (pietra), Ittireddu e Olmedo (bronzo), era stata coniata da Lilliu, in contrapposizione a Taramelli che li aveva collocati nell’ambito del sacro (modelli di tempio) a sua volta influenzato dagli studi di Frobenius che aveva visto nei modelli di tempio un modello cosmologico in tutte le antiche culture, orientali, africane, mediterranee.
In tutto il mondo la rappresentazione arcaica di quattro torri , divisione in quattro della terra, punti cardinali, con la torre centrale, axis mundi, è la raffigurazione cosmologica.
Gli esempi sono innumerevoli e una piccola antologia l’ho riproposta nel mio “Sa ‘ena” nel capitolo 4.3 “Nuraghe, imago mundi”.




Modello in pietra di nuraghe monotorre da Cheremule, loc. Sas Animas, Luisanna Usai


Pertanto, anche se non pretendo che il mio succinto viaggio a ritroso sia condiviso, si arriva in Sardegna a interpretare ogni oggetto colonnare, un basamento di colonna, un capitello, un qualsiasi cilindro, come modello di nuraghe. Ci sta dunque anche un capitello quadrato!
Ci sta anche la reazione difensiva dell’archeologo di turno che si meraviglia di essere criticato solo per aver proposto una estensione -pur lui coerente- dei modelli di nuraghe!
Parafrasando la favola di Oscar Wilde“L’amico fedele”, dove il perfido e ricco mugnaio Ugo, partendo da un perverso senso di sé e della sua generosità, riesce a sostenere la sua alterazione, infliggendo al povero contadino Hans ogni angheria e sopruso fino a farlo morire.
Insomma, assunto un preconcetto, si rischia di coniugarlo con altri preconcetti fino ad arrivare a conclusioni ridicole e insostenibili. Questo è quello che è successo nell’archeologia nuragica, impostata su una visione sbagliata di quella civiltà (nuraghe fortezza madre di ogni sciocchezza) ed è stata perseguita acriticamente, conformisticamente  e anche con meschini atti di servilismo accademico, fino ad arrivare a conclusioni insostenibili, ridicole ed inaudite, ma giustificabili dalla sommatoria di incoerenze successive, fino a chiedersi, sgomenti, come si possa ammazzare i genitori per godere subito dell’eredità.
Sostenere oggi che i cosiddetti modelli di nuraghe siano modelli cosmologici e che nulla hanno a che vedere coi nuraghi quadrilobati, se non dal punto di vista morfemico, è ritenuto una boutade alla Laner, assolutamente non condivisibile, proprio perché non si riesce a staccarsi dall’ ipse dixit di lilliana dottrina, nonostante che nessun archeologo al mondo -Sardegna ovviamente esclusa- non si ponga nemmeno il problema se un capitello quadrato possa essere qualcosa di diverso da un capitello e  tantomeno un modello di nuraghe monotorre.
A meno di non pensare che la Sardegna sia fuori dal Mediterraneo, culla di tutte le civiltà, e che la Sardegna non abbia contribuito a far crescere, recependo, elaborando, restituendo, il progresso culturale e civile, senza inutili preconcetti di risibili priorità.