lunedì 21 gennaio 2013

Dolmen e nuraghi versus nozione di confine


di Franco Laner

Nel capitolo 3 sui dolmen in Sardegna (“Sa ’ena”, Condaghes ed. 2011) dedicato in particolare alle possibili tecnologie di trasporto e posa in opera, introducevo due categorie di giudizio: una sulla loro estetica, l’altro sul loro significato territoriale.
I dolmen -scrivevo- introducono ad una nozione di confine, in una accezione alquanto diversa da quella corrente, che per confine intende il limite definito, ad esempio di un terreno, oppure di una regione geografica o di uno stato. Il confine è oggi la zona di transizione in cui scompaiono le caratteristiche individuanti di un territorio. Il confine può essere naturale, quello che si identifica con linee stabilite dalla natura, es. una costa, un fiume o un crinale di montagna, oppure politico, quello convenzionale stabilito dai governi.
La nozione di confine ha occupato e tutt’ora occupa gli studiosi.
Kant ha dedicato spazio nella Critica al concetto di confine. In sintesi definisce il concetto di confine avvicinandolo al concetto di limite, conferendogli una nozione negativa, inibente, incardinante, ponente vincoli e quindi barriere.
Zygmunt Bauman (sociologo e filosofo polacco) preferisce non vedere barriere nei confini. Sono piuttosto interfacce tra i luoghi che separano. In quanto tali, sono soggetti a pressioni contrapposte e sono perciò fonti potenziali di conflitti e tensioni. Parla di confini spontanei, costituiti dal rifiuto di una commistione, anziché da cemento e filo spinato. Essi svolgono una doppia funzione: oltre ad avere lo scopo di separare, hanno anche il ruolo/destino di essere delle interfacce, di promuovere quindi incontri, interazioni e scambi, e in definitiva una fusione di orizzonti cognitivi e pratiche quotidiane. Il confine protegge (o almeno così si spera o si crede) dall'inatteso e dall'imprevedibile: dalle situazioni che ci spaventerebbero, ci paralizzerebbero e ci renderebbero incapaci di agire. Più i confini sono visibili e i segni di demarcazione sono chiari, più sono «ordinati» lo spazio e il tempo all'interno dei quali ci muoviamo. I confini danno sicurezza. Ci permettono di sapere come, dove e quando muoverci. Ci consentono di agire con fiducia.
Altri studiosi contemporanei, Giacomo Marramao, Marilena Casella (Complessità antropologica della nozione di confine), Gian Primo Cella (I confini come distinzione e fonte di significato) hanno scritto importanti saggi su questo intrigante concetto e comunque si capisce facilmente come questa nozione debba essere declinata, se riferita alla preistoria, con uno sforzo di storicizzazione, assolutamente non facile.
Ritornando dunque ai dolmen, ne ipotizzo la loro funzione di un particolare confine. Laddove c’è un dolmen, lì c’è una comunità identificata. Il territorio è posseduto, abitato, conosciuto. Il dolmen è il CENTRO, irremovibile, attaccato agli inferi, che si mostra in terra ed ha per tetto il cielo. Il territorio è così marcato, anche se non esattamente definito da termini o precisi confini naturali.
Manifesta la capacità di compiere azioni importanti e collettive, di essere coesi e di riconoscersi, di rivendicare e difendere. Identifica un riferimento, lo spazio sacro per i riti, a partire da quelli della fertilità, a cui secondo alcuni autori il dolmen è associato.
Mi pare che questa visione possa ben inquadrarsi nella funzione che alcune costruzioni assumono nel processo, per me ancora in atto, di mettere ordine nel territorio, nello spazio in cui l’uomo vive. Di cosmizzare in altre parole l’ambiente, uscire dal caos, dal disordine e mettere ordine.
L’altra categoria che necessita di ordine è il tempo. E qualora ci sia ordine, riferimento, iterazione e misura, l’uomo è rassicurato.
Ebbene non ho esitazione ad assegnare anche ai nuraghi questa funzione di cosmizzazione dello spazio e del tempo. Questa visione ha contrassegnato tutta la mia ricerca sulla preistoria sarda.
Nel capitolo sui nuraghi (dal caos al cosmo) reintroduco il concetto di confine, molto pertinente per capire il ricorso alla loro realizzazione ed edificazione e per assegnarlo alla sfera del sacro.
Stabilire un confine significa per me non solo fondare e delimitare uno spazio, non è dunque mera questione geografica.
E’ la storia, è la cultura e la civiltà che si sono sviluppate in quel determinato territorio. E’ la dichiarazione che quel territorio è qualcosa di diverso da cui si proviene ed esprime identità.
Nulla meglio della pietra, della pesantissima ed irremovibile pietra, può esprimere la comunità, l’identità, i legami col passato e col futuro.
La conferma dello spazio assume quindi un ruolo molto importante all’interno di una comunità e il sapere dove si trovano i suoi confini diventa uno degli elementi che può determinare l’appartenenza o meno e in alcuni casi, anche il tipo di appartenenza alla stessa. Le iniziazioni - continua Pietro Zannini, autore de “I significati del confine”- sono spesso legate a soggiorni marginali, all’allontanamento dal centro o dal gruppo per un dato periodo di tempo, anche oltre i limiti della comunità.
Il nuraghe è il marcatore del confine, nell’accezione che ho cercato di definire con l’aiuto di Zannini. Non è solo elemento tettonico, ha i requisiti della durabilità temporale che la pietra esprime, ha le radici anche sotto il terreno, in cui la pietra è incastonata e sopra “confina” col cielo e lo ingloba. Non potrebbe avere un tetto, perché si creerebbe una frontiera! La terra non può avere sopra di sé un tetto. Il nuraghe ha il tetto aperto (pietra apicale removibile: dalla chiave della cupola passa l’axis mundi, entra il raggio solare…)
Questa notazione è ricca di inferenze, proprio sul piano-simbolico cosmologico che il nuraghe a mio avviso possiede.
Senza un potente marcatore dello spazio e del tempo, lo spazio si presenterebbe vuoto, terrificante, caotico. Il centro è condizione, ma spesso non sufficiente. Ho necessità di una linea, di linee di
espansione, per togliere possibile confusione. Credo che l’allineamento dei nuraghi in un territorio risponda alla necessità di “incidere” il suolo, di “solcarlo” secondo una geometria, che è tale se è riferita ad un ordine magistrale, ripetibile, certo, come quello che l’astronomia può offrire.
L’ordine celeste è materializzato nel concetto di confine.
Così in cielo, così in terra.
Da qui la mia incondizionata affezione all’archeoastronomia, scienza che aiuta a districarmi e dare finalità alla funzione dei nuraghi. Aggiungo che il periodo nuragico coincide con l’uscita dal neolitico e quindi con il grande cambio di paradigma dovuto all’osservazione scientifica di cui l’astronomia era portatrice. L’astronomia è dunque in relazione con le due grandi categorie, spazio e tempo, che devono essere comprese e possedute.
L’impianto ordinato, geometrico, è capace di generare corollari rassicuranti e precisi, ierofanici, con eventi, allineamenti, congiunzioni che si iterano ed inverano con scadenze certe e prevedibili.
Metronomo che segnala lo scorrere del tempo, lo misura ed indica l’inizio e la fine delle attività vitali di comunità ormai stanziali.
Ho usato l’aggettivo ierofanico per indicare, forse suggestivamente, l’apparizione del divino. Per cominciare a capire il nuraghe è necessario fermarsi per qualche ora all’interno. Dalla finestrella sopra l’ingresso entra la luce solare che staglia la testa taurina della forma della finestrella sulla parete buia della camera e lentamente descrive il percorso del sole. Si intuisce come questo possa variare a seconda dell’ora e della stagione. Sole e toro come forme della divinità. Lo scorrere del tempo si materializza nel nuraghe. L’eterno ritorno che trova fondamento e conferma annuale, precisa, certa, ineludibile.
E’ solo suggestione?
Ne aggiungo una seconda. Quando entro in un nuovo nuraghe, non ho mai troppe sorprese. L’impianto è lo stesso, ovviamente ci sono varianti, ma ogni nuraghe è profondamente simile anche se diverso per particolari, materiali, luogo in cui si erige.
Eppure è riconoscibile, familiare. Io penso che sia così perché la stessa Sardegna è confine, strutturata su una sommatoria di confini simili, dove le inevitabili differenze, dettate dal genius loci, epoca, dai diversi costruttori e materiali, si annullano.
Venezia, 21 gennaio 2013