sabato 21 maggio 2016

L'incubazione Sarda presso gli Eroi


di Alessandro Mannoni

Il post di Mauro Zedda sul Rito dell’incubazione nell’epoca nuragica (7 marzo 2016) mi sollecita a ritornare sull’argomento che avevo già diffusamente trattato in un ampio capitolo del mio libro “Religione e spiritualità nella Sardegna Nuragica” (Mannoni  2014).
Le ragioni che consentono di escludere con ragionevole certezza l’uso a fini incubatori delle tombe dei giganti nuragiche sono tre.
Le prime due le ha nuovamente riassunte Zedda nel suo scritto:
1)      tecnicamente risulta poco praticabile l’utilizzo di uno spazio aperto, quale quello fornito dall’esedra della tomba dei giganti,  per un rito che prevedeva un sonno indisturbato e della durata addirittura di più giorni. Nelle altre regioni della Grecia e del Medio Oriente dove si praticava tale rito, ad esso erano sempre destinati dei locali chiusi o delle grotte, luoghi protetti da intemperie, animali, presenze o rumori che sarebbero riusciti di disturbo o di ostacolo alla completa esecuzione del rito.
2)      la cronologia non coincidente che confuta l’attribuzione di un fenomeno religioso, descritto in ambito greco solo a partire dal IV secolo a. C., ad una struttura tombale il cui uso termina con certezza almeno 700/800 anni prima. L’incubazione sarda di cui parla Aristotele, e con lui i suoi tardi commentatori, non può che essere un fenomeno osservato e raccontato dai viaggiatori e colonizzatori greci che solcavano il mediterraneo occidentale nel I° millennio a.C. e non precedentemente.
La terza però mi appare come decisiva. Tutte le fonti antiche che trattano l’argomento, sia greche che latine, pur nella loro estrema sinteticità concordano su un fatto: i luoghi presso cui viene effettuato il rito appartengono ad “eroi” e non a comuni defunti. Non si parla di avi o antenati generici, ma sempre e solo di alcuni, pochissimi, eroi. Conseguenza sicura di tale fatto è l’esclusione dal rito incubatorio delle tombe dei giganti, in quanto sepolture collettive di comuni defunti, per giunta diffusissime sul territorio. 
Se poi si aggiunge che tali eroi, secondo le fonti più tarde, apparivano come “dormienti” nel santuario loro dedicato, si capisce come tali salme, probabilmente imbalsamate, dovessero essere ospitate in ben altri luoghi che le tombe dei giganti.
La distinzione cultuale tra eroi e normali defunti sembra però un punto che continua ad essere ignorato o trascurato dagli studiosi che si sono occupati dell’argomento, quasi si trattasse di un fatto irrilevante ai fini della comprensione del fenomeno.
In effetti comincia con l’iniziale studio del Pettazzoni sulla religione primitiva in Sardegna (Pettazzoni 1912) l’associazione tra l’incubazione sarda e la pratica del sonno presso le tombe degli antenati morti per ottenere visioni e oracoli diffusa tra le antiche popolazioni libiche dei Nasamoni e degli Augili  (descritta da Erodoto, Pomponio Mela e Plinio il Vecchio), i quali, con le parole dello stesso Pettazzoni, “non avevano altra religione che la religione dei morti”. Tale associazione è stata poi riproposta dagli autori successivi, sino al recente studio di Attilio Mastino, che pur focalizzando esplicitamente la sua analisi proprio sul “sonno terapeutico davanti agli eroi”, tanto da ambientare il rituale non più presso le tombe dei morti, le tradizionali tombe dei giganti, ma nei templi, ed in particolare davanti alle statue dei giovani eroi guerrieri del santuario di Mont’e Prama, in conclusione però finisce per riproporre il consueto abbinamento, propendendo, sempre sulla scia del Pettazzoni, per una decisiva influenza nordafricana sull’usanza sarda, e  contraddicendo, in tal modo, la sua stessa ipotesi interpretativa (Mastino, Aristotele e la natura del tempo: la pratica del sonno terapeutico davanti agli eroi della Sardegna, 2015).
Questo accostamento mi pare invece fraintenda un dato religioso che ha notevole valenza e che forse si può intendere meglio con un esempio adeguato ad un pubblico più abituato alle forme religiose del cattolicesimo che a quelle arcaiche: in sostanza sarebbe come se, per la richiesta di grazia, un cristiano malato si affidasse non alla Madonna, a S.Antonio o a Padre Pio, ma alla buonanima della trisnonna defunta!
Presso molte culture dell’antichità gli eroi, a differenza dei comuni mortali, erano individui con un destino, anche post mortem, radicalmente diverso, e quindi in grado di intervenire salvificamente presso i fedeli che li interpellavano. E che i protagonisti del culto sardo fossero eroi lo asseriscono esplicitamente, ripeto, tutte le fonti greche e latine al riguardo, a partire dalla prima testimonianza aristotelica; fonti che invece, quando si riferiscono alle popolazioni nordafricane dei Nasamoni e Augili, non hanno difficoltà a parlare esclusivamente di antenati e morti comuni (progonoi, manes, inferos), la cui divinizzazione, nel mondo classico, aveva però un carattere collettivo e indistinto, mai individuale come nel caso degli eroi.
E, indirittamente, proprio Pettazzoni sembra mostrarlo con la sua ricca casistica di confronto dell’usanza, dal momento che al di fuori degli esempi del Nordafrica, tutti gli altri avanzati, sino alla sopravvivenza in ambito cristiano, hanno a che fare con specifici eroi, divinità o santi e mai generici e banali defunti (Pettazzoni 1912, pag.152 e seg.).
La comunanza di finalità (terapeutica) e di tecnica (il sonno) utilizzate in Africa e in Sardegna quindi non mi pare consenta un’assimilazione indebita tra le figure interpellate nel rito.
Anche la messa in discussione della validità delle fonti classiche stesse, dirette, si sostiene, con la loro interpretazione culturalmente e politicamente interessata del rito sardo a riportare ai greci e ai loro eroi ogni degna espressione civile, o tramite i Troiani a convalidare arcaiche connessioni tra sardi e romani (Didu 2003 – Baglivi  2005 – Mastinu 2014), non mi pare possa essere del tutto giustificata: non solo perché viene applicata esclusivamente alla lettura delle fonti sui sardi, ma non a quella di altre popolazioni come quelle Nordafricane, mai “viziate” da distorsioni interpretative; ma anche perché le testimonianze classiche sono le uniche che abbiamo sul fenomeno, l’unico dato scritto grazie al quale abbiamo notizia di questa pratica che altrimenti avremmo ignorato del tutto. Testimonianza non sostituibile con dati archeologici o comparativi, assolutamente insufficienti, da soli, a far luce sull’usanza in questione.
Come poi possa apparire mero frutto di una rilettura a posteriori di epoca classica un culto degli eroi (al di là della loro specifica identificazione) in una civiltà, quale quella sarda del bronzo finale e del ferro, che ha prodotto una bronzistica e una statuaria unica avente ad oggetto privilegiato proprio le figure di giovani guerrieri, non si riesce a comprendere.
Escluse pertanto le tombe dei giganti quali potevano essere i luoghi preposti al rito? Forse alcuni nuraghi complessi già a partire dall’epoca nuragica e con un utilizzo cultuale prolungatosi per buona parte del I° millennio, come Pittau, Baglivi e infine Zedda suppongono?
Tenderei ad escluderlo per una serie di ragioni: culturali innanzitutto. La pratica incubatoria sembra espressione delle culture diffuse nel bacino del mediterraneo, orientale e nordafricano, ma non del continente europeo, con cui la civiltà nuragica aveva probabilmente maggiori affinità.
Ma soprattutto l’ideologia religiosa sottesa al culto degli eroi, anche per quanto detto prima, è distante dalla visione antropologica e dall’organizzazione sociale probabilmente egualitaria della cultura nuragica in senso stretto (Zedda 2009) e soprattutto dalla sua visione del sacro, dove probabilmente non era ancora presente quel processo di antropomorfizzazione e specializzazione delle forme divine che invece diventerà tipico della cultura post nuragica che inizia ad emergere tra la fine del II° e l’inizio del I° millennio a.C.
Molto più sostenibile mi sembra quindi la localizzazione all’interno di heroon presenti in alcuni di quei santuari “federali”, come l’archeologia sarda li ha spesso definiti, che compaiono alla fine della civiltà nuragica vera e propria e appartengono a una fase religiosa e culturale differente della storia sarda, come ho cercato di mostrare nel mio libro (Mannoni  2014).
Se Mastinu ipotizza una tale destinazione per il santuario di Monte Prama, Pittau pensava ad un utilizzo anche incubatorio delle stanzette del recinto di Santa Vittoria di Serri, mentre nel mio lavoro immaginavo un’analoga funzione per il santuario di Su Romanzesu a Bitti.


sabato 14 maggio 2016

Pinuccio Sciola


E’ morto un grande artista internazionale.
E’ morto un grande sardo.
Dai pochi incontri che ebbi, fino alla telefonata di una quindicina di giorni fa, ne sono sempre uscito confuso, spiazzato, privo delle poche certezze che pensavo di possedere.
Mi ha raccontato, proprio nell’ultima, lunghissima telefonata, della sua dimostrazione, di fronte ad un consesso romano di cardinali nella basilica di San Pietro in Vincoli, che  il Mosè di Michelangelo, per quanto sollecitato, non avrebbe potuto parlare, semplicemente perché la struttura saccaroide del marmo di Carrara, non può mettere in vibrazione la pietra a causa della sua discontinuità molecolare.
Esso rimane muto e la richiesta di Michelangelo “Perché non parli?” era destinata a non aver risposta. Prima di questa telefonata avevo commentato con Lui alcuni passi di un libro di F. Guarducci “Teoria, il divino oltre il dogma” in cui l’autore dedica diverse pagine al suono che ancora pervade l’universo, energia sprigionata dal Big Bang. La pietra è energia solidificata. Per tutte le religioni, a partire da quelle greche, mitratica, islamica, vedalica, la pietra è sempre stata sacra. Il Maestro rivendicava la capacità di richiamare quei suoni siderali e arcani, qualcosa in più e diverso dal teorizzarne la presenza. E come si inalberava se solo cercavo di esporgli il mio pensiero sulla trasmissione del suono dovuto alla vibrazione delle sottili lame di pietra da lui sollecitate con ieratica convinzione.
Ero riuscito, in questa recente telefonata, a convincerlo a venire il prossimo 22 giugno al Parco archeologico di Santa Cristina a Paulilatino a parlarci del suo progetto di trasformare la Carlo Felice in un museo della pietra all’aperto, aggiungendo alle tante preesistenze, nuraghi, tombe di giganti, pozzi e dolmen, sculture di artisti di tutto il mondo, che lui conosceva e pronti a regalare saggi della loro arte.
Non so, a questo punto, se completare l’organizzazione del seminario, mancandone l’anima. Ma potrebbe essere anche occasione per ricordare il Suo contributo all’arte scultoria e non solo.
Ciò che devo a Pinuccio è di avermi fatto capire che l’arte nuragica si può capire solo abbandonando la concezione lineare del tempo ed avvicinandosi alla concezione circolare del tempo, dell’eterno ritorno ab inizio, e pertanto una statua di Fidia –i greci avevano una concezione lineare del tempo- cristalizza l’attimo fuggente, intuisci ciò che c’era prima e ciò che verrà dopo la fissazione dell’attimo. Per l’arte nuragica ciò che conta non è l’attimo, bensì l’iterazione del gesto, dell’azione o dell’evento. Questioni sottilissime di psicogenesi dell’Arte, che il maestro trattava con la naturalezza che ogni grande artista possiede senza scomodare dimostrazioni scientifiche, ma forte di intuizione e introspezione propria di chi vive proiettato in dimensioni concesse a pochi mortali.
Scompare con Pinuccio Sciola uno dei grandi protagonisti dell’arte che ha culla in Sardegna, come Antine Nivola, Maria Lai e Mario Delitala.

Franco laner

Venezia, 14 maggio 2016

domenica 1 maggio 2016

Guido Cossard tra tori e bufale


di Mauro Peppino Zedda

Nell’Aprile scorso Guido Cossard in una conferenza tenuta a Cagliari ha tessuto le lodi alla proposta del toro di Luce dei GRS  e a quella di Adriano Gaspani sull’orientamento di una tomba di giganti verso Aldebaran, la stella più luminosa della costellazione del Toro.



La sera in cui si svolse la conferenza, non vi fu il tempo per discutere la questione, chiesi dunque in privato chiarimenti a Cossard che confermò quanto espose in pubblico.
Ritengo che l’approccio di Cossard all’archeoastronomia sia viziata da superficialità, mi pare che non riesca a distinguere tra una proposta scientifica seria e una semplice corbelleria astronomica.
Alcuni anni fa, Adriano Gaspani pubblicò un articolo dove sosteneva che la tomba Thomes di Dorgali fosse orientata verso il punto in cui sorgeva Aldebaran nel 1500 a.C.  
Non so se Gaspani condivide ancora quella sua proposta, non so se abbia compreso che ragionare sull’orientamento di una singola tomba di giganti e trovare la stella che vi sorgeva in fronte rappresenti un’operazione scientificamente sbagliata.
L’approccio di Adriano Gaspani palesemente erroneo anche se non fossero esistiti studi precedenti, può configurarsi come una colossale corbelleria visto che non tenne conto che esistevano pubblicazioni (Hoskin e Zedda in Archaeoastronomy , supplemento del Journal for the History of Astronomy) che avevano ben dimostrato che non esistevano le condizioni per indicare che le tombe di giganti fossero orientate verso target stellari. 
Prendendo in esame l’ingresso di un qualsiasi edificio, compresa l’abitazione di Cossard,si  troverà che è orientato verso il sorgere o il tramontare di qualche stella… ma se si prende in esame un singolo monumento indicando il suo target stellare si sta producendo solo una pestifera azione di tecnica astronomica priva di scientificità.
Quando si vuole studiare l’orientamento di una tipologia di monumenti bisogna studiare un campione significativo, e, stabilito il range e il picco delle frequenze, tentare un’interpretazione.
La pubblicazione di Gaspani sulla tomba di Thomes è il classico esempio di cattiva archeoastronomia e dispiace che Guido Cossard non lo capisca.
Non mi interessa entrare nel merito delle proposte complessive di Gaspani, ma non posso esimermi dal segnalare che non trovo spiegazioni logiche al fatto che questo astronomo nel denominare i punti di arresto lunari si sia inventato nuove definizioni. Nel panorama scientifico internazionale i punti di arresto lunari vengono distinti in settentrionali e meridionali e in maggiori, medi e minori.  Gaspani li individua invece in superiori e inferiori e in estremi e intermedi. Trovo incomprensibile che Gaspani si sia dedicato a modificare le terminologie (nessun studioso serio ha accolto la sua proposta), non si rende conto che la sostituzione del termine minore con intermedio crea confusione, il lunistizio minore non è intermedio di alcunchè,  è un estremo minore per l’appunto.  È noto che i lunistizi intermedi sono tutti quelli compresi tra il maggiore e minore, mi sembra banale. Ed infatti il lunistizio medio meridionale e settentrionale, che Gaspani sembra non conoscere, corrisponde a quello posto tra il maggiore e minore.
E veniamo alla questione del toro di luce. Sinceramente non capisco come mai Guido Cossard si sia lasciato convincere dalle corbellerie che sulla questione scrivono Gigi Sanna e i GRS.
Come noto i nuraghi sono costruiti con conci sbozzati e dunque le finestrelle che caratterizzano i nuraghi possono andare a formare fasci di luce più o meno corniformi, la cosa fu notata da Franco Laner negli anni novanta quando si dedicò a studiare i cosiddetti finestrini di scarico, ragionammo sulla questione, e dopo aver osservato  che nell’apparecchio costruttivo dei finestrini non vi è nessuna lavorazione particolare che potesse attestare l’intenzionalità del fenomeno, concludemmo che nei casi in cui si verificava la formazione di un fascio di luce approssimativamente tauriforme fosse conseguente al sistema costruttivo, un sistema costruttivo realizzato con conci sbozzati.
Alcuni anni fa la questione  è stata proposta all’attenzione dai GRS nell’orribile libro Il Toro di Luce, mettendo in risalto il caso del Santa Barbara di Villanova Truschedu. In questo nuraghe il fenomeno luminoso taurino viene esaltato dal parziale sgretolamento dei conci che fanno da stipiti al finestrino di scarico.
I GRS oltre ad aver proposto la tesi che i finestrini siano costruiti in modo funzionale alla realizzazione del fascio di luce taurinoforme, hanno proposto un’inesistente connessione col solstizio d’inverno basandosi sul fatto che si recano al solstizio d’inverno (alcune ore dopo che il sole è sorto) a fare l’osservazione. Il Sole attraversa l’asse d’ingresso dei nuraghi tutti i giorni dell’anno e postulare una connessione del fenomeno luminoso col solstizio d’inverno è una grossolana corbelleria senza nessun fondamento.
Nel Santa Barbara il fenomeno del fascio di luce tauriforme ha un fortissimo impatto scenografico. Ma il finestrino del Santa Barbara è stato soggetto a delle fratture delle sue parti componenti, sia nei conci che gli fanno da stipite che nell’architrave superiore al finestrino. Dunque è un caso che non si dovrebbe prendere a prova.
Nelle foto possiamo osservare che il paramento esterno del nuraghe ha avuto un assestamento strutturale, con la fratturazione di una serie di conci. Ve ne segnalo tre,  quello dove poggia l’architrave dell’ingresso, l’architrave del finestrino e infine vi è una frattura molto accentuata (ampia una ventina di centimetri) nel concio collocato due filari sopra l’architrave del finestrino. In pratica vi è una linea di cedimento e di frattura che attraversa in diagonale il finestrino.
Altre lesioni meno “fotogeniche” ma facilmente osservabili in sito sono riscontrabili nelle parti interne dei conci che costituiscono gli stipiti del finestrino.
Insomma il caso del Santa Barbara rappresenta un caso che non può essere utilizzato al fine di dimostrare l’intenzionalità del fenomeno del toro di luce. Degli studiosi seri dovrebbero capire che le lesioni strutturali interessano parti inerenti la conformazione del dettaglio strutturale su cui si basa la tesi che si vuol dimostrare e concludere che il caso in esame non fa testo.
Solo degli sprovveduti o persone aliene al metodo scientifico possono lasciarsi incantare dai giochi di luce del Santa Barbara.