mercoledì 1 dicembre 2010

Solstizio d’inverno tra i nuraghi

Nei giorni 18 e 19 dicembre 2010 , siete tutti invitati alla gita archeoastronomica organizzata da Paolo Littarru e Mauro Peppino Zedda.
Si visiteranno:
- il pozzo sacro di Santa Cristina di Paulilatino,
- i nuraghi Zuras e Losa di Abbasanta, il Santu Antine di Torralba,
- l'altare tronco piramidale di Monte d’Accoddi a Portotorres.
Nella mattina del 18 dicembre (h 11.00) visiteremo il pozzo di Santa Cristina illustrando il significato astronomico di questo straordinario monumento, definito dal Prof. Arnold Lebeuf “il più sofisticato osservatorio astronomico lunare dell’antichità”.
Nel primo pomeriggio, dopo un pranzo al sacco, la visita si sposterà al nuraghe Zuras di Abbasanta , dove verrà illustrato lo straordinario significato astronomico lunare di questo nuraghe.
Poi ci recheremo al Losa di Abbasanta, un nuraghe astronomicamente concepito, i cui lati sono incardinati lungo gli assi solstiziali; dopo l’illustrazione delle caratteristiche astronomiche del monumento si potrà osservare (nuvole permettendo) il tramonto del Sole in asse col paramento murario orientato lungo l’asse alba solstizio d’estate – tramonto solstizio d’inverno.
La mattina del 19 dicembre appuntamento presso il nuraghe Santu Antine di Torralba alle 7.20 del mattino, Si inizierà con l’osservazione del sorgere del Sole , sperimentando empiricamente il significato astronomico di questo nuraghe, poi verrà illustrato il significato astronomico complessivo di questo monumento.
A mezza mattina ci si recherà a visitare l’altare tronco piramidale di Monte d’Accoddi , verrà illustrato il suo significato astronomico , connesso coi cicli del Sole, Luna e Venere.
La partecipazione alla gita è libera e gratuita , ogni partecipante dovrà provvedere alle proprie spese di vitto e alloggio e all’eventuale biglietto d’ingresso ai monumenti.
Per info : Paolo Littarru cell. 339 5745528

mercoledì 17 novembre 2010

Paleosardo. Le origini linguistiche della Sardegna neolitica di Blasco Ferrer

di Alberto Areddu

Il libro di Edoardo Blasco Ferrer è stato edito dalla De Gruyter.
Secondo Blasco Ferrer nella toponomastica sarda vi sono le tracce dell’arrivo in Sardegna di genti iberiche nei tempi paleolitici e neolitici.
Blasco sostiene la sua tesi prendendo toponimi oscuri (facenti capo a non più di una ventina di radici) e collazionandoli a "chiare" parole del basco (il quale essendo, come si dice da secoli, una lingua isolata, non si ribellerà a tali accostamenti).
Mi voglio soffermare su alcuni casi. Secondo Blasco nel fantomatico toponimo "Funtana Gorru" (de Mola) di Ulassai, si troverebbe l'aggettivo basco gorri "rosso", visto che talora le fontane, per ragioni chimiche, possiedono, dei composti rameosi che le fanno apparire così, e c'è una certa casistica di toponimi del tipo "fontana rossa". Ora appare ben strano che una parola latina (fons, fontana) si possa legare direttamente a un aggettivo prelatino (non è il classico toponimo tautologico, tipo Mongibello, che è mezzo latino: Mon(s) e mezzo arabo Gibel 'monte), qui siamo in una macedonia assoluta. Oltre a ciò, osservo: Tale Funtana Gorru di Ulassai (che riporta Paulis nel 1987 e lo emenda, perché inesistente in loco, e infatti non si trova affatto cercando tale forma on line), e Blasco riprende pro domo sua, pare in effetti inesistente; oppure se risulta unito a "de mola", verrebbe da pensare semmai a un originario: "funtana (a su) corru de (sa) mola" 'fontana all'angolo della macina', che per le note semplificazioni, che stanno dietro alla raccolta e inquadramento dei toponimi agrari, è stato ridotto a: Funtana Gorru de Mola. A Buddusò c'è: Funtana corru chelvinu, in cui palesemente non c'è nulla di rosso, bensì la rastremazione di: Funtana (de su) corru chelvinu 'fontana del corno di cervo'.
Eppure una base simile appare spesso a indicare fonti e sorgenti, vi indico i posti: Gurrai, località a 100 mt dalla fontana di Gaghisi (Sarule) (informazione di Michele Sirca)
Burri (nei condaghe: Gurri) monte e sorgente di Bonorva (cfr. P. Merci, Condaghe di San Nicola di Trullas, Nuoro 2001, pp. 170-171: Campo Javesu et (de) Gurri (on line: http://www.sardegnacultura.it/documenti/7_26_20060401174021.pdf) (altri dati nel mio saggio)
Gorrispai/Gurrispai 'luogo di sorgenti a Nuoro' (Pittau, L'origine di Nùoro)
Cosa osservare in costruttivo?
1) La base è gurr- (e dunque non gorr-, lo vediamo da Gùrri di Bonorva, dove l'accento cade sulla vocale tonica, che non è modificabile in sardo, diversamente dalle atone)
2) I luoghi in questione non indicano luoghi rossi, né la locale acqua è rameosa
3) Persino la supposta chiave basca GORRI 'rosso, vivo' è sotto indagine, nel senso che si pensa che sia una parola attinta dal paleoeuropeo, cfr. infatti slavo gori 'fuoco' gorn 'forno' goreti 'bruciare' (che ha etimo indoeuropeo)
A mio parere è più verosimile l’albanese: gurrë 'fonte'.
Andiamo oltre. Il grande scopritore dell'Iberia individua un elemento -mele (o -nele) esempio in Macu-mele, Mara-mele, che sarebbe il basco mele/bele 'nero'; ora non poteva scegliere di peggio, ignorante com'è di indoeuropeistica il Nostro tralascia di dire che la base mel-, melə- 'nero', è praticamente certo che è indoeuropea, vedi greco melas, antico indiano malina, baltico melna ecc.; e la stessa cosa vale per Ilune, che sarebbe il basco illun 'oscurità' (senonché ilu- è attestato come 'nero, sporco' anche in molte lingue indoeuropee, dal greco alle lingue slave).

E anche per basco haritz 'quercia' = toponimo sardo di Aritzo (al quale Pittau e io tuttavia abbiamo contrapposto differenti alternative), qualora fosse giusto il collegamento del Blasco, osservo che il nesso sk- in diverse parole albanesi ha prodotto il suono aspirato h- (ci sono casi financo nel sardo), e dalla radice indeuropea *(s)ker- 'tagliare', l'albanese ha prodotto harr 'potare, recidere', onde per cui l'isolato e opaco semanticamente, basco haritz potrebbe essere un qualche antico indoeuropeismo (: *skar-istos, o *skar-ikios), ben motivato formalmente e semanticamente (: "il corteccioso, il tagliabile") (cfr. slavo: kora 'corteccia', korice 'buccia, crosta', koreti 'diventare duro').

E che dire della località "Riu bide" che viene contrabbandata come il basco bide 'cammino, strada', quando la latinità ci propone il "rivo Vite", presso l'Esino? (http://it.wikisource.org/wiki/Istorie_dello_Stato_di_Urbino/Libro_Primo/Capitolo_Quarto)

Insomma quel che Blasco vuole utilizzare a favore della sua ipotesi, mi pare che gli si rivolta contro.

domenica 7 novembre 2010

La pastorizia nuragica

di Mauro Peppino Zedda

A proposito dei contenuti dell’economia nuragica Lilliu ha scritto: «Non v’è dubbio che i nuragici erano pastori stabili, proprietari di greggi e di terre. In vaste tanche private o comunitarie pascolavano numerosi capi di bestiame bovino, caprino, ovino, suino; e i loro custodi, cantando alle stelle nelle notti luminose, ne invocavano prosperità e incremento. Greggi e terre furono la costante preoccupazione di difesa dei sardi antichi. L’organizzazione dei nuraghi nacque anche da queste esigenze ed urgenze di possesso e di sicurezza terriera ed armentarie di grossi pastori» (Lilliu 1988: 667) Qualche riga dopo aggiunge: «Lo stato sociale della Sardegna nuragica si fondava così sul prepotere d’un tipo sociologico che potremmo chiamare patriarcale (dove patriarca è il capo tribù e il principe, salvi il diverso modo e grado di potere). Lievitano ancora resistenze matriarcali della più antica civiltà contadina diminuita al livello del governo “familiare” della madre (specie là dove i pastori erano costretti alla mobilità della transumanza). La tradizione agricola neolitica femminile e “materna” è altresì radicata nelle forme magiche e religiose (anche pubbliche) nelle quali la donna è sacerdotessa, sibilla e depositaria di virtù mediche. Ma nel governo superiore della tribù, e poi del cantone principesco, nei tratti fondamentali della struttura economica e dell’assetto politico-sociale, nel processo storico della libera comunità e del popolo organizzato, il peso sostanziale e l’assoluta responsabilità risiedevano nel cervello e nell’azione di una società di maschi nel fisico e nello spirito aggressivo, con tendenza al dispotismo» (Lilliu 1988: 668). E continua: «La divisione distrettuale portava, spesso le tribù cantonali a scontri e guerre locali, a cui era movente lo spirito aggressivo delle comunità pastorali, desiderose di estendere il proprio territorio a danno altrui. Nel pastore stabile nuragico non si è spenta del tutto l’antica fiamma del pastore nomade portato dalla sua natura avventurosa e irrequieta, alla violenza, al possesso delle altrui cose e al dominio sul ricco e pacifico vicino» (Lilliu 1988: 669).
Dagli scritti di Lilliu emerge con chiarezza un pensiero notevolmente controverso. I suoi ragionamenti si fanno confusi nel cercare di conciliare i contenuti della sua interpretazione del nuraghe con una pastorizia transumante. Lilliu immagina una stratificazione sociale governata da una gerarchia costituita da principi cantonali, capotribù e capofamiglia; prospettando l’idea che il mondo nuragico fosse tutt’altro che normalizzato e che il bisogno di terre generasse uno stato di guerra continuo che vedeva coinvolte sia le diverse comunità cantonali sia le tribù interne al cantone.
Il suo discorso è tutt’altro che lineare e fa tenerezza osservare come la logica del nuraghe fortezza lo abbia portato a teorizzare una pastorizia stabile che causava tensioni guerresche e come non si sia accorto che la transumanza è in antitesi con la teoria dei cantoni in guerra l’uno con l’altro.
Su alcuni elementi concordo: che il sacro fosse gestito dalle donne e che nell’economia nuragica avesse una notevole importanza la pastorizia.
Nei tempi che precedono la pratica della coltivazione del foraggio e di cereali destinati al bestiame, nella Sardegna montuosa la pastorizia non poteva che essere nomade. Aveva bisogno di luoghi dove trovare sollievo ai rigori dell’inverno. E di luoghi in cui, in sostituzione dei pascoli riarsi dalla siccità o dal gelo invernale, si potevano accudire gli armenti con le fronde degli alberi.
In realtà la geomorfologia e climatologia dell’Isola, indica come impercorribile l’idea che nel periodo nuragico vi fosse una pastorizia stabile.
Immagino dunque, che nel mondo nuragico vi fosse una pastorizia transumante, con una transumanza che veniva esercitata entro i confini delle tre tribù nuragiche (Ilienses , balari, corsi).
Il fatto che l’allevamento del bestiame possa essere considerato come la spina dorsale del sistema produttivo nuragico non è un volo pindarico, ma un’interpretazione che emerge dall’analisi dei ritrovamenti archeologici.
Per quanto riguarda i resti di ossa animali, i dati finora acquisiti indicano la seguente presenza percentuale: 14% bovini, al 59% ovi-caprini (pecore, capre, mufloni), al 20 % suini (maiali e cinghiali) e al 7 % Cervidi (Perra 1997, Fonzo 1992). Di recente Ornella Fonzo si è espressa nel seguente modo: «Sulla base dell’analisi, tuttora in corso, dei reperti archeologici provenienti da alcuni siti, possono essere fatte le prime considerazioni riguardanti l’economia durante il BR, basata essenzialmente sull’allevamento dei bovini, suini ed ovicaprini, con apporti non trascurabili della caccia, essenzialmente al cervo e al cinghiale, ma anche al prolago, al riccio, alla volpe e agli uccelli, soprattutto nella parte meridionale dell’isola, che diventeranno ancora più significativi nelle fasi successive» (Lo Schiavo et al. 2004). Aggiungo che i maggiori resti del meridione sono dovuti alla natura geologica del territorio. Negli acidi suoli basaltici e granitici le ossa si “sciolgono”, mentre si conservano meglio in terreni basici di origine calcarea. Dunque non vi sono ragioni per dubitare che anche nel settentrione dell’Isola la pastorizia e la caccia fossero diffuse non certamente meno che nel meridione.

lunedì 25 ottobre 2010

Su Nuraxi di Barumini

di Franco Laner

Non vado mai volentieri a Su Nuraxi, perché ogni volta si rinnova lo strazio del pessimo restauro-consolidamento del monumento.
Posso solo attenuare il negativo giudizio rapportandolo all’epoca dell’intervento. In quel periodo a Venezia si sostituivano le travi di larice dei solai della Cà d’Oro con solai in latero-cemento!
Girare fra il villaggio rimesso “in bello” con un coacervo di tecnologie costruttive, dove la malta la fa da padrona, con apparecchi murari decontestualizzati, non degni nemmeno di un muro di sostegno di una strada provinciale, con risibili architravi sulle porte di ingresso, in dispregio ad un minimo di regole dell’arte del costruire a secco, con lastre di pavimento posate verticalmente a mò di soglie, fa soffrire davvero molto! E vien solo voglia di scappare in un diruto nuraghe dove gli archeologi-ricostruttori non abbiano mai messo mano!
Se già un architetto può far danno, figuriamoci un letterato che non ha il minimo senso del grave!
Mi chiedo per quale benigna congiuntura non sia stata ricostruita almeno una torre coi mensoloni in aggetto, che ora sono raccolti assieme a centinaia di conci a protome taurina nell’area archeologica, conci che sono propri ed esclusivi dei pozzi e delle fonti sacre, così da esibire il castello-reggia-fortezza realmente e non solo nelle fantasmagoriche ricostruzioni virtuali.
O forse ci hanno provato e si sono accorti che era impossibile, anche con malta e calcestruzzo, uscire a sbalzo sulla sommità di un nuraghe!
L’improprio “restauro”, funzionale esclusivamente alla visione medioevale del suo archeologo e ai turisti di bocca buona richiama centomila visitatori all’anno e risolve – con cospicui finanziamenti regionali- un problema di occupazione, considerate le decine di guide, addetti vari e indotto.
Pertanto va bene così!
Volevo acquistare una fra le tante pintadere esposte, ma nessuna di esse era una copia fedele delle tante ritrovate nei siti nuragici sardi. Erano solo fantasiose interpretazioni, in coerenza con la visione distorta del monumento e del suo interprete e in coerenza con l’idea che non conta puntare ad un turismo, non dico culturale, ma almeno dignitoso. Conta il numero delle presenze, che aumentano quando c’è il maestrale o piove, perché non si sta in spiaggia!
Non è questo il turismo su cui puntare. O si pensa che i gadget made in Cina o i muri raffazzonati possano aver futuro? E’ necessario un cambio di paradigma, in primis archeologico, che ancora si incardina sul nuraghe-fortezza, madre di ogni sciocchezza e quindi di offerta di turismo culturale che il patrimonio sardo reclama, perché ora è avvilito e maldestramente sfruttato.

domenica 10 ottobre 2010

Vittorio Angius predecessore della Teoria della Continuità

di Mauro Peppino Zedda


Recentemente Gigi Sanna (nel blog di Gianfranco Pintore), ha messo in evidenza che Padre Vittorio Angius, può essere considerato un predecessore della Teoria della Continuità di Mario Alinei. Vi riporto uno stralcio dove Sanna cita l’Angius: “il canonico Vittorio Angius molto prima, quasi duecento anni fa (1838: Biblioteca Sarda: si veda 'Lingua antica de' Sardi' in Casalis, 1851, vol. XVIII, 2, pp. 527 -529 ) anticipava da un pulpito di enorme prestigio culturale e quindi anche linguistico qual era il Dizionario degli Stati di S.M:
Conosciamo la lingua de' sardi nel secolo VIII simile, fuori alcune lievi differenze, a quella che essi parlano nel secolo XII, e nessuno dubita che fosse pure quasi simile a quella che usavano al tempo di Augusto.
Ma era simile a questa, quella che parlavano avanti la dominazione romana?
Negano tutti, perché credono che la lingua sarda, tanto affine alla latina quanto tutti sanno, sia stata introdotta da' romani; ed io come ho già negato questo fatto contro l'opinione universale che credo un errore universale, lo negherò anche adesso.
Diceva nella Biblioteca Sarda (p. 312) in una notazione all'articolo letterario su gli improvvisatori sardi: '' Qui (in Sardegna) stanziarono alcuni secoli i saraceni e non alterarono la lingua nazionale; appena hanno in essa intruso alcune parole; dominarono per quattro secoli i penisolani dell'Iberia, ragonesi, catalani, valenzani, castigliani, e se non fosse stata piantata la colonia algherese non resterebbe di quelle lingue più che alcune parole; esiste per più di 130 anni una continua pratica coi piemontesi e non so quante parole si siano prese da essi.
Che si fa da questo? Che si possono alterare le opinioni, i costumi, le leggi e tutt'altro, di una nazione, quando viene in comunicazione strettissima con un'altra nazione di differenti opinioni, costumi, leggi, non mai la lingua''.
Soggiungeva poi: ''In Sardegna gli algheresi parlano catalano. Or tra essi intrometti mille che parlino il sardo, e pensa che avverrà nelle due lingue. Certamente i settemila algheresi non lasceranno il loro linguaggio nativo per parlare il sardo, né dissuaderanno i vocaboli della loro lingua della pluralità. Se essi nol facciano lo faranno senza dubbio i loro figli. Sia un'altra supposizione. Mischia alla popolazione algherese altrettanti sardi; ed avverrà che si abbandoni né l'uno né l'altro linguaggio, e dalla confusione ne nasca un terzo. Una terza supposizione, i settemila algheresi si fondano in quarantamila sardi, ed il catalano in breve cesserà''. Di che si ha una prova nella colonia straniera che abitava il castello di Cagliari, la quale come si confuse con gli abitatori de' quartieri bassi in breve dimenticò la lingua avita. Una dimostrazione di maggior evidenza ne abbiamo nell'Italia. In essa invasero cento orde di barbari ed alcune vi stabilirono la stanza; ma perché il loro numero era non più che il ventessimo o trentesimo della popolazione italiana, non poterono mutare la lingua che vi si parlava, affine, come quella dei sardi, alla latina, e solo le aggiunsero alcuni vocaboli e forme, che oramai tutti rigettano come barbarismi di vero nome.
Dunque se i saraceni, i goti, i vandali furono pochissimi verso la popolazione sarda, non potevano cagionare nessuna alterazione nella lingua degli isolani; quindi si potrà dire in buona logica, che se i romani non mandarono più milioni d'uomini ben parlanti la lingua del Lazio, la lingua della Sardegna non poté latinizzarsi, se non lo era.
Si dirà: che i sardi dovettero latinizzare quando Roma comandò che si parlasse nelle provincie la lingua latina. Ma può alcuno persuadersi che siasi potuto per un decreto ottenere, che in tutte le provincie gli uomini illetterati parlassero una lingua, cui non conoscevano, e lasciassero e lasciassero la lingua patria nelle cose domestiche e private? Del resto è certo che l'uso della lingua de' dominatori fu obbligatorio solamente negli atti pubblici.
Or aggiungo: i romani imperarono anche in varie regioni della Germania e nella isola Britannica, e tuttavolta non poterono volgarizzarsi la loro lingua latina; imperarono sopra vastissime regioni orientali e la loro lingua non vi allignò.
Si introdusse però nelle Gallie e nella Spagna. Vi si introduceva non più che in Sardegna; e devo tenere il lettore che le nazioni che ebbero un dialetto latino furono germogli della stessa stirpe de' latini, parimenti che i popoli sardi.
Di più se tra i sardi quelli che restarono soggetti ai romani dovettero lasciare la lingua nativa, questa si sarebbe dovuta conservare in quelle tribù che restarono sempre indipendenti da' romani . Ma come spiegare allora questo che nelle loro alpestri contrade il linguaggio sia meglio latino, che altrove?
Per conseguenza se i romani non la introdussero essa fu la lingua antichissima dell'isola, la lingua de' primi coloni dell'isola'.
Dai quali antecedenti è posto in evidenza l'errore di quelli i quali pretendono i primi popolatori dell'isola essere stati fenici, e la popolazione essere poi cresciuta con gli africani.
”.

sabato 9 ottobre 2010

Mito Antico (e moderno) e conoscenza astronomica (terza parte)

di Fabrizio Sarigu


L’universo dagli antichi era quindi immaginato come una sfera armillare (quella che per intenderci troviamo sovente in mano ai papi, ai santi, agli imperatori etc) dove l’armatura dei coluri avvolge tutta la struttura delle stelle fisse e al centro sta il nostro pianeta. Tutto l’universo è quindi ripartito in tre regni divisi sotto il seguente schema che appare sovente nei miti:
a) Cielo: dal tropico del cancro alla stella polare, la regione circumpolare del cielo abitata fra l’altro dai 7 re o saggi, le stelle dell’orsa, i 7 buoi a cui il mito aveva, fra gli altri, affidato il compito di far ruotare il “mulino” (settentrione deriva dal latino septem triones, i triones erano i buoi deputati a far ruotare la macina, il termine con cui indichiamo il “nord” ci deriva direttamente dal mito), la costellazione dell’orsa era fondamentale poiché il coluro solstiziale la attraversò passando per ciascuna delle sue sette stelle (ognuna di esse era associata ad un pianeta).
b) La terra quadrata: il piano dell’eclittica su cui si muovevano le forze planetarie. La quale a sua volta era divisa in due grandi blocchi, la “terra emersa” ossia la parte d’eclittica sopra l’orizzonte (da equinozio a equinozio passando per il polo nord) e quindi visibile all’osservatore durante le ore notturno, ed il “mare” ossia la parte dell’eclittica non visibile all’osservatore perché sotto l’orizzonte (da equatore ad equatore passando per il polo sud). Ecco spiegata l’allegoria dello sprofondare di Atlantide (ossia del pilastro dell’equinozio d’autunno) e dello spuntare dal mare di nuove terre (costellazione pilastro dell’equinozio di primavera), che nulla hanno a che spartire con la geografia del nostro pianeta.
c) Il regno dei morti: la parte di cielo che va dal tropico del capricorno al polo sud, rappresentata principalmente dalla nave sacra, la costellazione Argo e dal suo pilota, la stella remo Canopo, sede come vedremo delle misure.
Platone nel Timeo spiega proprio come si articola questo schema e di come l’incastro fra il piano dell’eclittica e dell’equatore (che lui chiama “l’altro” e il “medesimo”) sia raffigurabile con la lettera X dell’alfabeto greco.
Ma chi era Amleto? Perché era lui il proprietario del mulino?, in altra sede abbiamo detto che dietro Amleto si nasconde una precisa forza planetaria, ora è venuto il momento di presentare il signore e padrone del tempo, nonchè delle misure, ossia il pianeta Saturno.
Anzitutto è necessario spiegare il ruolo che i pianeti ricoprivano nella visione (sempre geocentrica ) che l’uomo aveva dell’universo. I pianeti (cani, come li chiamava Pitagora) erano le forze divine, non a caso conservano tuttora i nomi delle divinità, erano gli DEI. In seguito a causa della segretezza che circondava la scienza sacra, la gente comune finì per non capire più chi e cosa fossero gli dei, lasciandosi rapire da un processo di antropizzazione che nascose la vera origine delle credenze. I pianeti da un punto di vista geocentrico sono riconoscibili (ovviamente si parla dei pianeti visibili dalla terra, ossia Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno) poiché si collocano sul piano dell’eclittica (come sappiamo nel nostro sistema solare i pianeti non si dispongono come gli elettroni rispetto al nucleo di un atomo, ma grosso modo su un unico piano) e ruotano nella direzione opposta a quella delle stelle fisse.
Il movimento apparente che essi delineano, che i greci disperatamente cercavano di ricondurre geometricamente a orbite circolari, permette di dividerli in due grandi gruppi:
A) Mercurio e Venere
B) Marte, Giove e Saturno
Mercurio e Venere, descrivendo orbite interne rispetto a quella della terra, hanno un moto apparente incredibilmente complesso, essi compiono incredibili evoluzioni, vanno avanti, tornano indietro, fanno “capriole” in un moto assolutamente irrazionale. Il mito spesso descrive infatti Mercurio come il pianeta/dio degli intestini, proprio per indicare la complessità del suo moto apparente. Questo viene espresso anche dal simbolo con cui oggi lo conosciamo, il caduceo, uno o due serpenti arrotolati su un bastone che simbolicamente indicano proprio la complessità del moto (spirale del serpente) attorno all’asse della terra (il d.n.a. non c’entra nulla, nonostante qualcuno sostenga il contrario…). Ciò che è incomprensibile, ma assolutamente spettacolare da un punto di vista geocentrico, diventa comprensibile dal nostro punto di vista eliocentrico. Mercurio e Venere sono pianeti interni rispetto all’orbita della terra, per questo coprono in meno tempo la loro rotazione attorno al sole (Mercurio è il più veloce, infatti era il messaggero degli dei, con le “ali” ai piedi). Ciò significa che ci “doppiano” ripetutamente creando delle “evoluzioni” particolari e risultando visibili soprattutto prima del sorgere del sole (stella del mattino) o dopo il tramonto (stella della sera), in quanto sono posti fra noi e il sole.
I movimenti dei pianeti esterni sono invece più semplici ma comunque molto spettacolari. In pratica compiono delle “capriole”, ossia il pianeta, rispetto al suo moto normale, pare ad un certo punto tornare indietro sui suoi passi per poi riprendere ad andare (vedere wikipedia alla voce Marte, c’è un filmato molto chiaro). Tali moti sono detti retrogradi per evidenti motivi, su tutti Marte, ritenuto non a caso anche il dio della danza.
Questi erano i fautori del tempo, le vere potenze e tutta la mitologia non è altro che un resoconto celato (anzi, celatissimo) delle loro evoluzioni, ossia una uranografia.
Fra le potenze planetarie, la più importante è quella ricoperta da Saturno/Kronos, signore del tempo e delle misure nonché dell’età dell’oro (il grande fabbro, deus faber, l’architetto). Egli ricoprì questo ruolo sia a causa del suo moto solenne (è il pianeta più “lento”), sia per via delle sue congiunzioni con Giove (trigono). Se il sole nel “attraversare” i segni dello zodiaco è la lancetta delle “ore precessionali”, nel cielo esiste un’altra fiaccola che segnava invece i minuti di un’era, tale fiaccola è il pianeta Saturno. Agli antichi mitografi dovette sembrare proprio segno della volontà creatrice l’esistenza di periodi che si accordavano l’uno con l’altro, così avviene che entro il tempo di un’era processionale, ossia 2160 anni, un angolo del trigono delle congiunzioni di Saturno con Giove percorre tutto lo zodiaco (in realtà impiega 2384 anni), cadenzando così i ritmi di un’era e consentendo di delinearne un inizio, una metà e una fine/inizio di una nuova era. Un nuovo segno zodiacale regnava a partire dal primo giorno di una grande congiunzione Saturno/Giove nel punto di passaggio, l’era dei pesci ebbe inizio con la prima congiunzione Saturno/Giove nel segno dei pesci avvenuta nel 6 a.C. (ecco cosa era la stella cometa del vangelo!!). Grazie a questo trigono, Saturno/Kronos fornisce veramente le misure al figlio Zeus. La sede di Saturno, dove egli si ritirò a seguito della caduta dell’età dell’oro (epoca dei gemelli, dove la via lattea, per la posizione ricoperta al momento, era un coluro equinoziale visibile e i tre regni erano uniti da un ponte/strada visibile, cosicché le anime dei morti non potevano perdersi, ecco perché età d’oro), è la stella Canopo, come più volte detto, considerata l’unico punto statico del cosmo poiché il polo sud era ritenuto esente dalla precessione. Giacchè il tempo è movimento (dei pianeti), l’unico luogo statico del firmamento non può che essere la sede-origine del tempo e quindi saturno-kronos ne è il signore.
Ci sarebbe un’infinità di altre cose da dire su quest’argomento, che però vanno ben oltre le mie modeste capacità di sintesi, spero solo di aver suscitato in voi delle domande e la curiosità di andare a leggere un saggio così importante per l’analisi storica del pensiero umano e della sua evoluzione.

P.S. il trigono è una figura che ripropone le congiunzioni tra Saturno e Giove rispetto ai segni dello zodiaco venendo a suddividere lo stesso in 4 triplicità corrispondenti ai quattro elementi:
1. Fuoco: Ariete, Leone, Sagittario
2. Terra: Toro, Vergine,Capricorno
3. Aria: Gemelli, Bilancia, Acquario
4. Acqua: Cancro, Scorpione, Pesci
(adesso si capisce perche nell’oroscopo i segni di acqua e aria paiono incoerenti, ossia che ci fa lo scorpione fra i segni d’acqua? E l’acquario perché è in aria?). Ogni 20 anni dunque avviene una grande congiunzione fra il Pianeta Saturno e Giove, congiunzione che ha come sottofondo un segno dello zodiaco, dopo 20 anni un’altra con a sua volta un segno e quindi una terza con un altro segno formando così un triangolo rispetto al cerchio dello zodiaco. Per ben 12 congiunzioni (circa 200 anni) si resta entro la triplicità che si è delineata e in 800 anni tutti gli “elementi” vengono attraversati. Se invece consideriamo un angolo del trigono, questo impiegherà per percorrere tutta la circonferenza zodiacale circa 2400 anni per tornare dal punto A al punto A, quando supererà il punto A entrando nel nuovo segno, ecco che quella è la data di nascita della nuova era, come avvenne per l’era dei pesci, inaugurata dalla prima congiunzione Saturno-Giove nel segno dei pesci appunto (6 a.C.).

lunedì 27 settembre 2010

Sul linguaggio dei nuragici

di Mauro Peppino Zedda

Nel 1987 Colin Renfrew nel saggio Archeologia e Linguaggio, dimostrò che l’idea di un’invasione di popolazioni indoeuropee nell’età del Rame fosse priva di riscontri archeologici, ma Renfrew non è stato altrettanto esemplare nella formulazione di una proposta alternativa. Alla romantica idea di un’invasione a dorso di cavallo, Renfrew antepone uno scenario basato su una lenta (millenaria) invasione agganciata all’adozione dell’agricoltura.
La sua proposta è senz’altro più verosimile delle precedenti ipotesi. Ma più convincente mi appare la Teoria della Continuità proposta da Mario Alinei (Origini delle lingue d’Europa, 1996), che vede le lingue indoeuropee presenti in Europa già da tempi antichissimi.
Alinei nella sua analisi mette in luce come la distribuzione delle lingue flessive, isolanti e agglutinanti, trova un singolare parallelo con le modalità di scheggiatura degli utensili in pietra che hanno accompagnato e caratterizzato la più lontana preistoria umana. Propone una Teoria della Continuità lunga e una breve, lasciando a studi futuri il compito di valutare quale sia più pertinente.
Mario Alinei propende per quella lunga (che condivido), ma non è questo l’essenziale, a lui interessa dimostrare che sul finire del Paleolitico Superiore i gruppi linguistici europei erano già nettamente separati e insediati nelle loro sedi storiche.
Per Alinei nella Sardegna pre-romana si parlava una lingua italide affine al latino. Ecco come spiega i caratteri della lingua nuragica: «Come abbiamo visto, i sardi che si rifugiano sulle montagne per difendere la loro libertà, sono spesso invocati per spiegare la maggiore “sardità” linguistica dell’area montana: è qui, infatti che si sono mantenute la /k/ e /g/ velari latine (cioè italidi), è qui che si parla il Sardo più vicino al Latino (leggi: Italide) in tanti aspetti, formali e semantici. Tuttavia, vi è un “piccolo” problema in questa visione. Nella teoria tradizionale, accettata da Lilliu, la lingua che i sardi del Centro montano continuano a parlare, non è - né può essere – quella latina o sua affine. Lilliu, che attinge alla linguistica degli anni Cinquanta (in mancanza di meglio, come lui stesso ci ha detto), afferma infatti che la lingua dei Sardi della montagna doveva avere «un fondamento comune libio-ibero-ligure (o mediterraneo occidentale)». Ora, è curioso che nessuno studioso abbia finora notato la stridente contraddizione inerente a questa tesi. Se i Sardi nuragici non erano italidi, ma di ceppo etnico e linguistico anIE, quelli fra loro che si erano rifugiati sulle montagne avrebbero dovuto conservare meglio le caratteristiche linguistiche originarie del loro sostrato, e quindi avrebbero dovuto allontanarsi maggiormente dal latino o da una lingua affine. Proprio perché la conservatività del Sardo montano e l’innovatività del Sardo della pianura risultano da un confronto fatto rispetto al latino, esse sono inconciliabili con la tesi tradizionale. Diventano al contrario del tutto comprensibili e prevedibili se la lingua dei Sardi nuragici, all’epoca della ritirata sulle montagne, fosse stata italide, cioè una variante del Latino! In altri termini è l’Italide dei Sardi fuggiti in montagna che si è conservato meglio, così come è l’Italide dei Sardi “mescidati” delle pianure, che ha subito l’influsso di lingue non italidi e ha innovato. Occorre rovesciare completamente l’assunto tradizionale per dargli un senso e una logica.
Le prove di continuità culturale, così evidenti nell’isola anche nel periodo di decadenza e di fine della civiltà dei nuraghi (500-238), portano gli studiosi che assumono l’assunto tradizionale a una conclusione obbligatoria, che Lilliu esprime così: «la romanizzazione delle genti del centro «fu […] un fatto di lingua e non di cultura». Ora nell’ambito di una visione antropologica della linguistica, questo sviluppo sarebbe un unicum assolutamente sbalorditivo. Lingua e cultura non possono essere separati in questa misura. Non sono la stessa cosa, ovviamente, ma sono avviluppati in un reticolo di rapporti talmente complesso da rendere impossibile un cambiamento dell’una senza conseguenze per l’altra. […] La lingua dei Sardi non sarebbe mai rimasta quella che è, in tanti dettagli che la avvicinano a un tipo italide arcaico, e la differenziano da tutte le altre parlate neolatine, se la continuità culturale e materiale così tipica dei Sardi tradizionali non fosse sempre stata associata, dal neolitico all’epoca nuragica, e da questa fino all’occupazione romana e alla cristianizzazione a una stessa etnia.
Scopo di questa illustrazione era di mostrare come lo sviluppo culturale della Sardegna preistorica, dalla Ceramica Impressa/Cardiale fino alla civiltà nuragica, possa essere interpretato come affermazione originalissima da parte di un gruppo italide, parallelo ma indipendente sia da quello appenninico italico, che da quello medio-italiano latino e da quello franco-iberico. Il problema di fondo per la Sardegna, forse più ancora che per la Corsica, resta quello degli apporti anIE e di altri gruppi IE, da quello di eventuali adstrati peri-IE risalenti al Mesolitico se non a prima, al superstrato “orientale” dei coltivatori immigrati dalla mezzaluna Fertile, a quello celtico introdotto dal Megalitismo e dal Campaniforme, a quello greco e fenicio
» (Alinei 2000).
Quanto affermato da Alinei sarebbe valido anche adottando lo schema di Renfrew. In Sardegna si parla indoeuropeo perlomeno dal Neolitico Antico.
Per chi non conosce le opere di Alinei e Renfrew specifico che per loro il cosiddetto IE italide abbracciava oltre alla penisola italiana, la Sicilia, la Sardegna e la Corsica, anche le coste mediterranee della Francia e dell’Iberia.

martedì 21 settembre 2010

Quella nuragica è un'architettura irrazionale?

di Mauro Peppino Zedda

Per quanto paradossale possa sembrare, lo spazio interno dei nuraghi rappresenta una questione assai trascurata dagli studi. Tra le poche analisi concernenti l’argomento, Lilliu afferma: «Nel rapporto massa costruttiva-vuoto, si osserva la tendenza continua, anche se lenta e prudente, all’ampliamento dello spazio. Tuttavia, in nessun caso il vuoto giunge a valorizzare il senso e l’effetto massiccio che domina, rude e sovrano, l’essenziale semplicità primitiva del nuraghe. Da un calcolo fatto su 25 torri che presentano diametri medi di m 11,24 di volume e m 4,08 di vano, con proporzione approssimata tra le due dimensioni di 2,75, si ricava un indice medio di massa-spazio di 1,76. Ossia la somma dello spessore dei muri, misurati nella base della sezione diametrale, è di 1,76 volte maggiore rispetto al vuoto della camera a falsa volta» (Lilliu 1988).
Che nel costruito nuragico vi sia una lenta e prudente tendenza all’ampliamento dello spazio è una idea totalmente infondata. Non si riscontra nessun interesse ad ampliare lo spazio calpestabile in proporzione alla massa muraria.
Viceversa si può oggettivamente affermare che nella plurisecolare tradizione costruttiva nuragica vi sia un miglioramento delle modalità costruttive, che si esplicano nel riuscire a costruire nuraghi dove la messa in opera dei massi raggiunge degli alti livelli di raffinatezza.
Immutato rimane anche il modello architettonico. Una immutabilità che per Lilliu è figlia di una speciale vocazione militare, mentre per altri testimonia e attesta una valenza sacrale-simbolica della torre nuragica (Pittau 1977; Zedda 1992, 2004, 2009; Laner 1999).
All’analisi degli spazi interni Lilliu ha dedicato poche righe che comunque pare siano risultate assai convincenti per i suoi successori.
Nell’esame degli spazi della torre nuragica Lilliu si limita ad analizzare il rapporto di proporzioni che vi è tra i diametri della torre e di camera, trascurando quello più interessante e cioè il rapporto tra il vuoto e il pieno in termini di superficie e di volume. Nella misura media da lui proposta, cioè una torre avente una pianta con un diametro di 11,24 m e un diametro di camera di 4,08 m, possiamo calcolare che la torre occupa una superficie pari a 99,17 m², mentre la camera ne occupa soli 13,06 m². Dunque una torre nuragica mostra uno spazio fortemente sbilanciato a favore delle masse murarie, che occupano più del 86% della superficie totale, pari a 7,61 volte l’area calpestabile.
L’analisi degli spazi dei monotorre e torri centrali dei nuraghi complessi su un largo campione è stata recentemente eseguita dall’architetto Danilo Scintu (2003). Sulla base delle sue misure pare che il diametro medio di torre possa identificarsi in 12 m mentre quello di camera in 4,2 m.
Dunque un nuraghe monotorre di 12 m di diametro occupa una superficie di 113 m²; mentre la camera occupa solo 13,84 m² (420 cm di diametro); con un’altezza di 10 m il volume è pari a 1000 m³; di cui di 900 m³ di massi ciclopici del peso di 20 quintali a m³.
I nuraghi complessi hanno un rapporto ancora più sbilanciato a favore degli spazi pieni. Prendiamo per esempio Su Nuraxi di Barumini: con 620 m² di ingombro totale, presenta 60 m² di cortile, 70 m² di spazio coperto calpestabile nelle cinque camere voltate a cupola e 490 m² occupati dalla muratura. I 60 m² di cortile hanno la funzione di raccordare le quattro tholos delle torri periferiche, dunque lo spazio “utile” si riferisce a 70 m² su 620 m² di ingombro (muratura e cortile). Lo spazio occupato dalle murature è pari all’80%, quello delle camere 11,2% e quello del cortile il 9,8%.
Ho virgolettato la parola utile perché non è esatto pensare che l’utilità riguardi soltanto i 70 m² coperti, l’utilità riguarda l’intero edificio.
Ancor maggiore è lo sbilanciamento tra spazi vuoti e pieni che caratterizza i nuraghi a corridoio.
Come vediamo le dimensioni dei nuraghi sono tutt’altro che mastodontiche, ciò che li rende possenti e monumentali sono le caratteristiche dei conci con cui sono stati costruiti, conci ciclopici che nelle parti basali superano i 2 m³ di volume e ci fanno interrogare sul valore delle tecniche di spostamento e sollevamento utilizzate.
Riguardo alla dimensione degli spazi interni rispetto allo sforzo costruttivo generale, ecco come si è recentemente espressa Marisa Ruiz-Galvez (2005: 31): «... comprender la densidad de este tipo de costrucción ciclópea che son las nuraghi, caracterizadas por elevata altura de sus torres y la, en aparencia al menos, gran inversion de trabajo en relació con el escaso espacio habitable interior de muchas de ellas. Algo aparentemente tan ilógico desde nuestros paràmetros modernos, que ha llevado a algùn autor a hablar de arquitectura irracional». Provo una grande amarezza nel constatare che l’irrazionale interpretazione di Taramelli e Lilliu del nuraghe la si stia trasferendo allo spirito costruttivo dei nuragici.
Le irrazionali conclusioni di Lilliu e dei suoi pedissequi discepoli si stanno scaricando sulle spalle dei nuragici che vengono etichettati come dei poveri Sisifo impegnati in sforzi enormi per costruire degli edifici mastodontici con risibili spazi abitabili.
Inviterei a frequentare un corso di filosofia della scienza coloro che per spiegare la funzione del nuraghe vanno a postulare una presunta irrazionalità del gesto costruttivo in quanto non aderente alla funzione che gli hanno aprioristicamente attribuito.
É triste assistere ad una situazione in cui vengono interpretate come irrazionali le scelte costruttive invece di prendere atto che è l’interpretazione del nuraghe nella sfera del profano ad essere irrimediabilmente irrazionale.

giovedì 16 settembre 2010

Gli oggetti di culto nei nuraghi

di Alessandro Mannoni


Una obiezione alla tesi della possibile funzione templare assunta fin dall’origine dai nuraghi consiste nella mancanza di oggetti di culto e votivi al loro interno attribuibili ad un periodo precedente all’Età del Ferro, nel corso della quale invece essi compaiono e sono stati ritrovati in maniera evidente.
Le premesse di una tale obiezione sono solo apparentemente condivisibili.
Sostenere che se all’interno delle strutture adibite o utilizzate in funzione templare sono presenti oggetti che in un dato periodo identifichiamo come religiosi allora le strutture sono classificabili come templi, mentre in caso contrario la funzione templare non è dimostrata o è addirittura indimostrabile non mi pare corretto.
Non capisco infatti perché si debba attribuire ad un edificio la funzione di tempio soltanto se in esso sono presenti degli oggetti o dei materiali di uso cultuale, soprattutto se questo uso cultuale è frutto della interpretazione a posteriori dello studioso: alcuni oggetti interpretati come d’uso quotidiano potevano avere una funzione cultuale o essere usati indifferentemente anche con una funzione cultuale. Basta riflettere ad esempio a come alcuni oggetti interpretati in funzione militare o civile siano stati da altri assegnati alla funzione religiosa: ricordo ad esempio le famose palle in pietra perfettamente tonde destinate al lancio delle mitiche catapulte che agli occhi di Massimo Pittau diventano più semplicemente degli ex-voto solari, o le fusaiole e i pesi da telaio che vengono assegnati da alcuni alle funzioni domestiche, da altri all’attività tessile di sacerdotesse e vergini adibite al tempio/monastero, o le abbondanti tracce di vasellame spesso in cocci o frammenti presente in molti sacelli all’interno dei nuraghi, lette come un’evidente testimonianza di ceramica sacra.
In alcune tipologie di tempio, poi, per il genere di rituale o di culto svolto in quelle particolari strutture potevano anche non essere presenti oggetti specifici; d’altronde i materiali ritrovati nei pochissimi siti religiosi del Bronzo Medio elencati da Ugas, rappresentati da ollette ansate, bicchieri, tazzine e coppette, sono tutti interpretabili non in maniera esclusiva come oggetti di culto generici, ma come funzionali soltanto alle specifiche forme di rituale officiate in quei siti: offerte di liquidi e libagioni da depositare e versare nel terreno nel caso di culti ctonii come quelli officiati nelle grotte o la raccolta di acque sacre, per le sorgenti o, come ipotizza lo stesso Ugas nel caso di Monte Baranta, per offrire ai vecchi genitori la bevanda che provocava il “riso sardonico” prima di gettarli dall’alta rupe su cui è costruito il sito. Solo i materiali fittili ritrovati presso le poche fonti citate potevano rappresentare per l’epoca del Bronzo Medio degli oggetti votivi, ma probabilmente funzionali solo a quella tipologia di culto avente finalità terapeutiche.
O, infine, potrebbe anche darsi la situazione generale che in ogni tempio, magari per la particolare ideologia religiosa e simbolica di quella cultura, potessero non essere presenti oggetti specifici di culto. E la prima civiltà nuragica, fortemente aniconica e astratta, geometrica e asciutta nella sua linearità, poteva ben rappresentare una cultura religiosa di tal genere, come sostiene anche Mauro Zedda.
Pensare infine che, data la frequentissima deposizione all’interno delle strutture adibite o utilizzate in funzione templare degli oggetti votivi nel corso dell’Età del Ferro, altrettanto dovessero fare nei secoli precedenti è sensato ma non probante, poiché al fondo c’è ancora l’assunto, non dimostrato, che nel tempio debbano sempre essere presenti oggetti votivi o riconoscibili come tali, o che se tali oggetti sono tipici di una fase tarda di una civiltà debbano esserlo anche di una fase precedente.
Ma penso che la cesura all’interno della civiltà nuragica tra la prima fase (quella propriamente nuragica perché solo ad essa appartiene la realizzazione degli edifici da cui essa prende il nome) e la fase tarda o finale o post sia probabilmente molto più netta di quanto molti studiosi attualmente ammettano, e tale quindi da non consentire questa estensione automatica delle modalità del culto diffuse in Sardegna nell’Età del Ferro alla fase storica precedente.

martedì 14 settembre 2010

Lilliu che si arrampica sugli specchi

di Mauro Peppino Zedda

Quando nel 1977 Massimo Pittau presentò i risultati di uno studio che confutava la teoria del nuraghe fortezza, Lilliu non prestò la giusta attenzione agli argomenti del Pittau, limitandosi ad epurare le parti più controverse e continuò a considerare il nuraghe come una fortezza.
Per Lilliu la questione della possibile sacralità dei nuraghi era una specie di tabù, un argomento di cui non valeva la pena discutere, sentiamolo in uno dei rari scritti in cui disquisisce sulla possibile valenza sacrale dei nuraghi: «Orbene la concomitanza con le torri semplici di numerose tombe megalitiche (specialmente tombe di giganti), porta a negarne la destinazione funeraria che un tempo era in gran voga tra gli “analogisti” e gli “etimologisti”. Invece, nei tempi in cui si costruivano i nuraghi a unica torre, i monumenti di culto sembrano assai rari (dico sembrano perciò lontana anni luce da essere compiuta). Perciò si può capire che tuttora, come in passato, vi sia chi caldeggi, se non per tutti, per una parte di tali nuraghi, l’utilizzazione cultuale, precisandone (per la verità con un trasporto che rasenta il mistico), punti e modalità di manifestazioni.
Sennonché quest’ultima ipotesi, alla quale peraltro potrebbero far inclinare la forma monumentale e il volume a cono, quasi simbolico, delle torri che si elevano come un altare e la collocazione spesso in luoghi dominanti e attrattivi come quella di chiese e di santuari montani, trova molte e serie difficoltà per essere accettata; (ovviamente il proporla acriticamente è viceversa assai semplice e non priva di fascino per chi non è uso a ragionare). Ostano all’interpretazione templare il grande numero, la proliferazione sul terreno, l’organizzazione in un sistema territoriale degli edifizi monoturriti. Se questi si dovessero connettere col fenomeno religioso pur profondamente sentito dai sardi nuragici, figurerebbero l’immagine irreale e mitica d’un “isola sacra” e di un popolo di “lotofagi” e non di contadini, pastori e anche di guerrieri quale fu effettivamente. Intervengono poi i dati strutturali, contrari all’interpretazione templare. Lo spazio è angusto, difficile la circolazione interna voluta dal presunto rituale. All’alto delle torri, ove vi si immaginassero cerimonie, dall’esterno si può accedere solo con mezzi retrattili, e dall’interno si sale attraverso il sistema complesso delle scale intermurarie intergrate con le posticce di legno e di corda. Un bell’esercizio di ginnastica per vecchi venerandi sacerdoti e i loro paludati accoliti! Infine il dispositivo dei vani, scarsamente illuminati, è concepito con una sorta di gusto labirintico, quasi impeditivo e introverso, e, comunque, pienamente fruibile soltanto da chi conosceva l’intrico e la singola funzionalità dei suoi ambienti sin nel più segreto recesso.
Si aggiunga che all’immagine di luogo sacro poco o nulla rispondono la postura prevalente delle torri in posti elevati di largo dominio, il loro collegamento visuale e l’inserimento in complessi reciprocamente funzionali
.». (Lilliu 1988).
Lo scritto di Lilliu fu una risposta, senza citarlo, a Pittau. Si potrebbero fare molte considerazioni, ci vogliamo provare o avete timore di essere irriverenti?

venerdì 10 settembre 2010

I nuragici: guerrieri o lotofagi?

di Alessandro Mannoni

Il dibattito sul dilemma se la civiltà nuragica fosse o no una civiltà di guerrieri o di “lotofagi” (cfr Lilliu 1988) mi pare sia del tutto mal posto.
Non è risolvendo tale quesito che si dimostrerà o meno la reale funzione dei nuraghi.
Innanzitutto bisognerebbe definire meglio il quadro generale che ci permette di definire una civiltà come guerriera.
Definiamo una civiltà guerriera se i suoi membri passano il tempo a combattersi tra loro o a combattere nemici esterni? Oppure solo se esprime un impulso espansionistico? O ancora, se manifesta, all’interno e/o all’esterno tendenze di dominio e controllo su terre, beni, membri della società, popoli? Oppure se è caratterizzata da una tendenza grandiosa alla costruzione di opere fortificate e castelli? O ancora se specializzata nella realizzazione ed uso di armi e tecniche militari? Oppure se fonda la sua cultura su una ideologia, una morale, una religione dove prevalgono miti e divinità eroiche, valori fondati sul coraggio e lo sprezzo del pericolo, e sistemi educativi orientati a trasmettere tale cultura?
E’ importante definire questo quadro, perché, storicamente, numerose sono state le culture e civiltà che sono state definite “guerriere”, ma che spesso presentavano caratteri anche molto distanti tra loro.
Penso ai pellerossa americani, agli Aztechi, ai Giapponesi, ai Romani, al medioevo feudale, ai Micenei, a Sparta, ai Germani, ai Mongoli e … l’elenco potrebbe continuare.
Come si vede ciascuna di esse ha declinato il suo essere “guerriera” in maniera almeno in parte differente dalle altre. E’ evidente però come nessuna di esse, e in genere nessuna società, si sia talmente focalizzata su una sola funzione tanto da escludere altri aspetti. Se nel medioevo costruivano castelli, riempivano anche l’Europa di cattedrali; i Romani più che costruire forti pensavano a costruire strade, acquedotti e città, oltre a basare tutta la loro civiltà su una scrupolosa osservanza delle regole della pietas religiosa; gli Aztechi edificavano splendide città e grandi piramidi sacre e per timori religiosi sono scomparsi; i Samurai Giapponesi basavano il loro codice etico, il Bushido, sui valori del buddismo zen e dello shintoismo tradizionale.
Trovare una civiltà che escluda del tutto la funzione guerriera o quella sacerdotale e religiosa penso sia difficile. Così come trovare una civiltà guerriera che si esprime in una guerra continua di tutti contro tutti o passi il tempo ad edificare sistemi difensivi.
Tradizionalmente molte culture guerriere hanno fatto a meno, per ragioni ideologiche o strategiche, dei sistemi difensivi. La miglior difesa è sempre l’attacco! O il terrore imposto con la forza delle armi o degli eserciti ben organizzati ed addestrati: Sparta docet.
Non c’è bisogno di edificare migliaia di castelli per mantenere un ordine sociale ed un equilibrio pacifico in una società a sfondo guerriero: i pellerossa e i Mongoli c’è lo ricordano. Basta spesso un codice etico guerriero da tutti riconosciuto e accettato (il codice barbaricino vi ricorda qualcosa?)
Mentre una società guerriera, quale poteva essere, perché no, quella nuragica e post-nuragica, poteva ben edificare un sistema di migliaia di strutture sul territorio aventi un valore e/o una funzione sacrale.
Perché migliaia di castelli avrebbero più senso di migliaia di edifici sacri? Perché una costante guerra interna, che conduce solo ad una iperframmentazione sociale e politica e, alla lunga, all’implosione, sarebbe più logica di uno sforzo costruttivo collettivo durato centinaia d’anni e diretto verso il Cielo. Se ci pensiamo l’Egitto o le popolazioni megalitiche europee lo hanno fatto per millenni! E nessuno se ne meraviglia.

giovedì 9 settembre 2010

Gli Eroi del piccone

di Massimo Pittau

Due storici di rilievo, Ettore Pais e Raimondo Bachisio Motzo, avevano invitato Antonio Taramelli a dare una delineazione della civiltà nuragica non dall’unico angolo visuale dell’archeologia, ma anche da quello di altre discipline dell’antichistica. Ma il Taramelli non se l’era data per intesa, tanto è vero che in due differenti occasioni, in implicita polemica coi due storici, aveva scritto testualmente: «L’archeologia preistorica è oggi matura nei suoi metodi e nelle sue ricerche; non è più la modesta ancella sussidiaria, ma raggiunge le sue proprie conclusioni in base alle osservazioni proprie ed ai suoi propri metodi. Se queste si accordano con quelle raggiunte dalle scienze affini, tanto meglio; se no tanto peggio per quelle» (anno 1929). «Con tutto il rispetto alle fonti ed ai loro sagaci commenti, sia permesso a me archeologo, di avere fede, speranza ed amore principalmente nell’indagine archeologica. Nell’indagine del passato tenebroso, lontano ed incerto la mia luce è quella della punta luminosa del mio piccone» (anno 1934).
Probabilmente anche in polemica implicita col Taramelli, ecco cosa ha scritto più tardi Sabatino Moscati, studioso di larga fama nazionale e internazionale: «Se mai vi dedicherete all’archeologia, ricordate una massima: il piccone è l’ultima cosa. E cioè, per spiegarci meglio, il successo di un’impresa archeologica dipende in misura decisiva dalla conoscenza delle antiche fonti, dallo studio della geografia storica, in una parola dalla ricostruzione della vita del passato in cui la nuova ricerca si inserisce; quanto al fatto materiale dello scavo, esso è solo il coronamento di un’opera in cui la dottrina e l’intuizione hanno parte essenziale» (S. Moscati, Archeologia mediterranea, Milano 1966, pag. 138).
A distanza di circa 80 anni da quando il Taramelli scriveva i suoi citati inequivocabili convincimenti personali, c’è da osservare che «la fede, la speranza e l’amore principalmente nell’indagine archeologica», nonché attenuarsi negli archeologi successivi, forse si sono ulteriormente accentuati. Nulli o quasi nulli sono i loro richiami alle antiche fonti scritte, soprattutto quelle greche. Sia sufficiente citare un esempio solo, ma molto significativo: a cominciare dal Taramelli fino ai giorni nostri nessun archeologo ha mai citato la testimonianza dello storico greco Diodoro Siculo (Biblioteca historica, V 15, 2), il quale, parlando dei nuraghi della Sardegna li definisce «templi degli dèi» (cfr. M. Pittau, La Sardegna Nuragica, II ediz., Cagliari 2006, Edizioni della Torre, pagg. 25-26. 112).

martedì 7 settembre 2010

Sulla presunta “garitta” del corridoio d’ingresso

di Mauro Peppino Zedda

Nel 1977 Massimo Pittau in Sardegna Nuragica ha scritto:

Quasi tutti i nuraghi presentano nel breve corridoio d’ingresso una nicchia,posta quasi sempre a destra di chi entra. Gli studiosi militaristi hanno interpretato questa “nicchia” con la garitta nella quale avrebbe preso posto la sentinella di guardia al nuraghe.
Innanzi tutto si deve escludere che in tempo di pace la presenza di una sentinella situata nella celletta del corridoio d’ingresso dei nuraghi potesse avere una qualsiasi ragion d’essere. Non vale per nulla, infatti, il riferimento all’uso, seguito attualmente nelle caserme, di una sentinella che stanzia all’ingresso, vicina alla sua “garitta”: nelle caserme moderne la sentinella da una parte deve svolgere un’opera di controllo per le varie centinaia di uomini che entrano ed escono durante tutta la giornata, dall’altra assolve compiti di decoro militare, quali il saluto con l’arma da restituire ai militari di truppa e da fare ai sottufficiali alle personalità politiche e civili e alla bandiera; mansioni tutte della sentinella moderna, che sono assolutamente da escludersi per il nuraghe, dato il numero ridottissimo di militari che vi avrebbero potuto entrare ed uscire.
Ma a maggior ragione si deve escludere che la nicchia dell’ingresso dei nuraghi potesse costituire la “garitta” per la sentinella in servizio di guardia in tempo di guerra. In tale circostanza, infatti , evidentemente la sentinella sarebbe stata assai più funzionale sulla terrazza del nuraghe che non nel suo ingresso; tanto più che la porta della presunta “fortezza” nuragica sarebbe risultata chiusa in qualche modo, per cui non avrebbe avuto alcun senso la presenza di una sentinella dietro la porta sbarrata.
Vero è che gli studiosi militaristi pensano ad un’altra soluzione del problema costituito da questa presunta “garitta”, e si tratta di un’altra spiegazione che entra appieno nei termini del ridicolo: in occasione di operazioni belliche la sentinella, nascosta nella sua “garitta” situata dietro la porta lasciata aperta, attendeva l’entrata in fila indiana dei nemici ignari; ed essa lui avrebbe colpiti ed uccisi uno dopo l’altro, attaccandoli dalla destra, ossia dalla parte non protetta dallo scudo. Senonché una tattica bellica di questo tipo è concepibile solamente ad un patto: che quelli attaccanti non fossero stati uomini, cioè esseri ragionevoli, ma fossero stati semplicemente bestioni, sia pure in forma umana, che con tutta ingenuità si addentravano nel corridoio della morte, per farsi ammazzare uno dopo l’altro da una sola sentinella
…”

Le fantasie di Taramelli sull’efficacia bellica della nicchia d’andito fu condivisa dal Lilliu, che sulla sua scia teorizzò i fantasmagorici nuraghi trappola.
Non credo che quella nicchia fosse usata come “garitta” o come riparo per la sentinella che annientava gli ignari invasori, ritengo che la sua funzione la si debba cercare nella sfera del sacro.
Ovviamente con il nuraghe inteso come edificio aperto, il che non vuol dire che l’accesso fosse consentito a chiunque.

lunedì 6 settembre 2010

Mito antico (e moderno) e conoscenza astronomica (II parte)

di Fabrizio Sarigu

I diapason a fiato rientrano nella sfera di dominio dello Yin, ma regolano i processi dello Yang. Il calendario viene dalla sfera dello Yang, ma regola i processi dello Yin. I diapason a fiato e il calendario si impartiscono reciprocamente un ordine così rigoroso che non sarebbe possibile inserire tra essi un solo capello.” (Proverbio cinese)
Comprendere il significato nascosto dei miti è qualcosa di estremamente complesso, De Santillana individua questa difficoltà nell’assenza di un “sistema” come noi oggi lo intendiamo. Tale assenza è dovuta semplicemente al fatto che il mito nacque quando l’uomo non aveva ancora iniziato a strutturare in maniera sistemica il suo pensiero, quindi non è corretto cercare di individuarne uno.
Cosa è dunque il mito?
Il mito è una “fuga musicale pitagorica”, che nacque quando l’uomo cominciò a concepire il mondo come numero e misura (data di nascita della scienza). Infatti è proprio la musica l’allegoria che meglio può descrivere i contenuti astronomici nascosti nel mito, poiché l’astronomia degli antichi si basava proprio sul concetto di “ritmo” che evidentemente condivide con la musica appunto. Un brano musicale non è solo un insieme di note, ma è un insieme di note legate fra loro da un preciso ritmo. Se il ritmo cambia, nonostante le note possano restare le stesse, tutta la composizione cambia. Gli antichi osservavano il cielo con senso del ritmo (armonia delle sfere). Per esempio sappiamo che Venere sorge eliacamente cinque volte in un ciclo di otto anni formando un pentagono apparente. Questo significa che gli antichi astronomi, si accorsero prima, e tennero in gran conto con continue osservazioni poi, una lucetta nel cielo che cinque volte in otto anni (otto anni) sorgeva poco prima del sorgere del sole stesso. Solo in quei giorni il fenomeno si manifestava. Ecco cosa è il “ritmo” che intendiamo. Questo esempio, uno fra migliaia, ci dà l’idea dello sforzo intellettuale di cui furono capaci i nostri “primitivi” antenati. Saranno poi i greci ad interessarsi in senso geometrico all’astronomia, il problema principale dell’astronomia greca era infatti quello di ricondurre ad orbite circolari gli assolutamente incomprensibili movimenti planetari, qui nacque probabilmente la filosofia platonica. La dicotomia tra mondo delle idee e mondo dell’apparenza trae origini in prima istanza dalla dicotomia per eccellenza (ricordiamoci che l’astronomia era la scienza sacra) tra orbite planetarie circolari (idee) e moto apparente planetario (apparenza). Prima dei greci l’interesse era per il numero e per la misura.
Il contenuto astronomico del mito è dunque espresso come una fuga di idee non organizzate in maniera sistemica. Tuttavia è possibile cogliere alcuni aspetti che ci aiutano a costruirne uno (perché a noi serve visto che ormai è il nostro modo di ragionare).
L’analisi comparata dei miti condotta da De Santillana restituiscono una visione particolare del cosmo, che è insieme religiosa e scientifica.
Tale immagine è quella di una sorta di sfera armillare, con la terra (il nostro globo, sferica) al centro attraversata dal suo asse e dove la struttura/croce dei coluri avvolge (come l’armatura della sfera armillare appunto) le stelle fisse ed in particolare il piano dell’eclittica, inclinato di 23°26’ (attualmente, ma oscilla tra 23° e 25° in un ciclo 41.000 anni) rispetto al piano equatoriale. Rispetto all’eclittica la croce dei coluri individua quattro punti, due solstizi e due equinozi, che individuano a loro volta i quattro segni pilastro di una data era. A questo punto è necessario precisare la differenza tra segno dello zodiaco e costellazione dello zodiaco. L’eclittica, essendo una circonferenza, può essere divisa in molti modi, 360 spicchi di 1 grado, fino a due metà di 180°, con vari passaggi intermedi, 4, 8, 12, 16, 24 etc… sennonché gli antichi si resero conto che era facile dividere l’eclittica soprattutto in 12 parti da trenta gradi ciascuna, perchè casualmente entro questi trenta gradi (più o meno) rientrava una costellazione. Ecco che l’eclittica è quindi preferibilmente divisa in 12 spicchi, detti segni dello zodiaco, di trenta gradi ciascuno riferiti ad una delle dodici costellazioni. Le quali ovviamente possono essere più grandi o più piccole dello spazio di 30° loro assegnato e in alcune “ere”, come la nostra, possono essere anche 13 (ad esempio oggi la balena rientra nel piano dell’eclittica), ma quando si parla di segni, questi sono sempre 12 di 30° ciascuno, questo per evidenti aspetti matematici(30 per 12 uguale 360).
A causa della precessione degli equinozi i quattro punti individuati dai coluri, precedono, ossia si spostano di moto retrogrado rispetto al normale scorrere annuale dei segni, di 1° ogni 72 anni, di modo che dopo 2200 anni circa vengono ad essere individuati nuovi segni nei quattro punti, entrando così in una nuova era (solitamente il segno di riferimento è quello che sorge all’equinozio di primavera). L’altro macro effetto della precessione è il movimento circolare del polo nord (polo nord celeste) rispetto ad un punto fermo (polo nord dell’eclittica), così da marcare nei secoli diverse stelle polari, oppure addirittura nessuna in particolare. Molti indizi fanno invece ritenere che il polo sud fosse considerato coincidente col polo sud dell’eclittica e quindi non soggetto a mutamento (quindi non l’immagine di due coni sovrapposti come è oggi la nostra, bensì un unico cono con un vertice sul polo sud, indicato dalla stella remo/timone della nave argo, canopo). Questo grandissimo meccanismo era immaginato come una sorta di mulino che ruotando sul suo asse (l’asse della terra, che alla fine di ogni era si sgangherava.. ricordiamo che la stella polare cambia nelle ere) macina il tempo. Tale mulino, nel mito nordico, era in possesso di un tale Amleto, che diventerà poi proprio il principe di Danimarca che conosciamo. In realtà dietro Amleto si nasconde una precisa forza “planetaria” che tuttavia dovremo affrontare in un altro momento.
Esiste però, una più antica immagine di questo meccanismo, codificata in miti molto famosi e racchiusa entro una parola tecnica molto precisa ma per noi difficile da afferrare: l’idea del FUOCO e della sua accensione. Molti miti parlano di rubare il fuoco o accendere il fuoco, ma di che fuoco si parla? La difficoltà sta proprio nell’abbandonare l’idea che noi associamo alla parola fuoco (del caminetto magari) e ragionare come gli antichi. L’idea del cielo/mulino è evidentemente un’idea/allegoria che poteva nascere solo in un contesto agricolo, per ovvi motivi, tuttavia queste idee sono molto antiche, molto, forse risalenti a prima che l’uomo scoprisse/inventasse l’agricoltura. Come dare ragione allegoricamente allora del moto dei cieli? Ricordate come gli indigeni accendono un fuoco?
Con un bastoncino che fatto ruotare nel palmo delle mani sfrega su della paglietta, posta su una tavoletta piatta.
Questa divenne l’allegoria per eccellenza grazie alla quale spiegare il meccanismo di rotazione dei cieli, rubare o accendere un FUOCO divenne il termine per indicare la nascita di una nuova era, poiché l’asse della terra/bastoncino da fuoco doveva riprendere a ruotare su una nuova marcia stabilita dai coluri e quindi il “FUOCO” doveva essere riacceso. Ecco spiegato il mito di Prometeo, il cui termine non deriva tanto dal greco “vedo oltre” quanto dal sanscrito PRAMANTHA, che è appunto il nome del bastoncino “maschio” da fuoco (da cui deriva il latino mentula, ricordiamoci il mito di Uranos e Gaia, dove il pene asse della terra di Uranos univa cielo e terra, per cui l’idea che una “mentula” possa assurgere ad asse della terra non ci deve scandalizzare). Prometeo (asse della terra) rubando il fuoco agli dei non fece altro che accendere una nuova era del mondo.

domenica 5 settembre 2010

Ancora sul problema della chiusura dei nuraghi

di Alessandro Mannoni


Noto che il tema delle porte ha generato un dibattito molto acceso! Con proposte più o meno valide da entrambe le parti, finalmente si discute ed almeno si tiene conto del problema, che tradizionalmente nei testi classici dei nostri archeologi veniva ignorato o dato per scontato come risolto a priori, con una facilità che rasentava l’ingenuità.
A quanto pare la soluzione di chiusura prospettata nel caso di una funzione militare pare essere la pietra perché, se usate, le porte in legno potevano essere al massimo provvisorie e semplicemente poggiate, in quanto non in grado di reggere ad assalti nemici (risparmiamoci naturalmente i rovi della Tanda!!). Altro non appare al momento capace di assolvere alla funzione di chiusura solida.
Prima di discutere di tale proposta vorrei però si concordasse prima su un fattore: alcune soluzioni tecniche valide elaborate dai nuragici dovevano avere una diffusione generale, o almeno su grandi porzioni di territorio. Pertanto escludere la porta in legno e promuovere la chiusura in pietra significa potenzialmente estendere la tecnica a tutti i nuraghi intesi come fortezza. Ecco perché eventuali eccezioni che si possano riscontrare … non fanno testo! Aver trovato in alcuni nuraghi degli stipiti o degli incassi per eventuali porte o travi di blocco non dimostra che quello fosse il sistema di chiusura generalmente utilizzato: quali e quanti sono i nuraghi dove compaiono tali elementi? Poche eccezioni su migliaia non dimostrano certo la funzione militare del nuraghe. E siamo poi sicuri che tali elementi non siano frutto di rimaneggiamenti e riutilizzi successivi, di epoca romana ad esempio, o più recente?
A questo punto esaminiamo la pietra o le pietre di chiusura:
Un pietrone di grandi dimensioni e peso o un grande lastrone presentano elementi di scarsa praticità di utilizzo molto evidenti, ed inoltre nessun archeologo, a differenza dei chiusini di alcune domus de janas o delle tombe puniche, ne ha mai ritrovato uno in sito (altrimenti ritengo che l’avrebbe evidenziato e pubblicizzato adeguatamente!).
Quanto avanzato da Pisineke sembra più logico e probabilmente meritevole, oltre che di una analisi dettagliata, anche di una prova …sul campo!
Vediamo la fattibilità pratica di tale sistema. Per farlo credo si debba differenziare dapprima la tipologia di ingresso da proteggere, che per gli edifici nuragici penso si possa tripartire:
1) ingresso alla torre isolata o alle singole torri dei nuraghi complessi
2) ingresso al bastione del nuraghe complesso
3) ingresso/i alla cortina dell’antemurale
Distinguo i diversi ingressi perché ognuno di essi ha una sua specificità, formale e funzionale tale a mio parere da non consentire l’estensione del sistema di chiusura valido per uno di essi a tutti gli altri.
Se consideriamo la 1° tipologia di ingressi, quella senz’altro numericamente più ampia, la soluzione di Pisineke presenta a mio parere alcune difficoltà pratiche:

Supponendo che l’ingresso di un nuraghe abbia la misura di 1,15 x 1,70, e supponendo di utilizzare il granito come pietra , possiamo facilmente calcolare il peso dei blocchi necessari ( 9 ) ognuno delle dimensioni di 1,20m x 0,20m x 0,20m.
Il valore della densità in Kg/m3 del granito è di 2,500 (dato facilmente riscontrabile). Un blocco di granito di tali dimensioni (1,20m x 0,20m x 0,20m) ha un volume di 0,048m3; moltiplicando 0,048 m3 x 2500 (valore della densità del granito kg/m3) si hanno 120 Kg.
Due persone giovani sono in grado di sollevare tale peso anche ad una altezza di 1,60/1,70m. Otto blocchi di tale peso, preventivamente sistemati verticalmente vicino agli stipiti, 4 da una parte e 4 dall’altra, sono perciò facilmente sovrapponibili uno sull’altro (un blocco poteva essere sistemato permanentemente a formare un gradino). Sarebbe stato sufficiente poi sistemare verticalmente dietro tali blocchi 2 assi in legno puntellate con dei tronchi tagliati ad hoc...e di sicuro l’ingresso al nuraghe sarebbe stato assai difficoltoso
.”

Le torri con ingresso scala sul corridoio (e quindi una grande percentuale delle torri dell’isola, del centro nord come dimostrato da Mauro Peppino Zedda), avevano la necessità che la chiusura fosse impostata nella prima parte del corridoio che precede l’accesso alla scala, che doveva essere assolutamente difeso. Il blocco esclusivo della sala centrale, disponendo le pietre a ridosso dell’innesto del corridoio alla camera, oltre ad essere complicato dall’ampiezza e altezza di molte di queste luci (come nel caso dei nuraghi con l’innesto a forma di carena rovesciata - vedi il Piscu di Suelli) esponeva gli assediati ad una fine orribile poiché i nemici saliti al piano superiore o al terrazzo grazie alle scale non protette potevano, semplicemente sollevando le poche pietre di copertura del foro apicale della tholos, far piovere su di essi di tutto o affumicarli col fuoco.
Ora, la chiusura col sistema Pisineke della luce esterna di accesso al corridoio doveva essere realizzata con blocchi il più possibile squadrati e regolari, onde evitare spazi di gioco o di inserimento di legni o altri attrezzi di forzatura da parte del nemico. Questi blocchi poi, data l’abituale mancanza di riseghe o di stipiti nel vano porta dovevano anche essere delle esatte dimensioni, in larghezza, di tale vano. Il problema che si poneva ai “portieri” nuragici era quindi logistico: manovrare all’interno del ridotto corridoio per sollevare e trasportare, oppure trascinare, o spingere, tali blocchi e posizionarli uno sull’altro. Immagino che per porsi ai lati del blocco in due e sollevarlo avrebbero dovuto disporlo non nel senso della larghezza, perché sarebbero rimasti incastrati, ma nel senso della lunghezza del blocco, che una volta poggiato avrebbe dovuto essere ruotato in posizione (se possibile, visto le dimensioni esatte del blocco rispetto alla larghezza del vano). Per impedire però che anche i nemici, dall’esterno, spingessero tali blocchi facendoli ruotare e cadere, era necessaria la seconda parte del sistema di chiusura ipotizzata da Pisineke: i due assi verticali in legno per compattare la colonna di blocchi e impedire che venissero spinti singolarmente o fatti ruotare e i lunghi tronchi posti diagonalmente a puntello delle assi stesse per impedire che le assi cascassero facilmente (non sono visibili infatti incassi per il blocco delle assi sul soffitto). Forse al posto di assi e tronchi si sarebbe potuto utilizzare un secondo sistema di blocchi da appoggiare al primo, che avrebbe reso il sistema più solido. In tal caso però il rischio poteva essere quello di ….restare murati vivi! Sarebbe stato molto complicato infatti sfilare all’indietro i massi una volta incastrati senza poterli far ruotare su se stessi, a meno che non fossero di dimensioni più strette rispetto al corridoio. Questo sistema di chiusura avrebbe avuto un ulteriore vantaggio difensivo: se anche si fosse riusciti dall’esterno a scalzare e far cadere i due o tre blocchi più alti essi si sarebbero collocati immediatamente dietro gli altri rimasti rinforzandoli e lasciando quindi solo uno spazio di accesso ristretto a metà luce. La soluzione più praticabile dagli assalitori era allora tentare di farli ruotare e poi sfilarli dall’esterno.
Molto più complesso appare questo sistema di chiusura se applicato non alle torri classiche ma ai protonuraghi (secondo la terminologia adottata da Ugas) senza camera voltata. Nei lunghi corridoi di accesso del piano base gli spazi e di conseguenza i movimenti con tali blocchi, sarebbero stati quasi impraticabili. Dove collocare poi, i blocchi “ a riposo”, quando cioè inutilizzati per la chiusura, nei protonuraghi a corridoio passante che non disponevano solitamente di vani vicini all’ingresso di dimensioni tali da favorire il collocamento e la manovra di tali pietre? Negli altri nuraghi si potevano perlomeno collocare nella camera o, se abbastanza larga, nella famosa garitta; meno praticabile credo la collocazione verticale a ridosso degli stipiti nell’andito perché avrebbe portato via troppo spazio nel già angusto corridoio.
Il sistema, se ristretto a certe condizioni e ad una parte dei casi, pare ad ogni modo fattibile, benché non dovesse essere così rapido come descritto da Pisinike.
Ma a questo punto mi chiedo: se la funzione delle torri isolate era quella di sistemi di controllo ed avvistamento dall’alto perché non complicarne l’accesso al nemico ponendo l’ingresso ad una certa altezza, come nelle torri costiere spagnole? Ciò avrebbe evitato timori di sfondamento di qualsiasi genere senza bisogno di ricorrere a sistemi di chiusura complessi. Invece tale soluzione parrebbe una limitatissima eccezione nel panorama dei nuraghi sardi.
Resta comunque valida l’obiezione che un tale sistema di chiusura che rinchiudeva gli assediati come topi in un luogo angusto senza grandi mezzi di sopravvivenza (i pozzi interni alle torri sono pochissimi), poteva servire solo per breve tempo e sempre in attesa di rinforzi esterni.
Più semplice invece l’applicazione di tale sistema agli ingressi del bastione dei nuraghi complessi o dell’antemurale: qui l’appoggio dei blocchi poteva avvenire dall’interno del cortile sulla seconda luce di accesso, senza alcun bisogno di incastro e quindi utilizzando blocchi più larghi del vano, ed anche una doppia cortina di blocchi. Non c’erano motivi logistici di particolare impedimento.
Rimane a questo punto l’obiezione della mancanza di ritrovamenti, da parte degli archeologi, di tali blocchi di chiusura accanto alle porte, risolvibile, credo, solo ipotizzando che “evidentemente” siano stati tutti portati via nel corso dei secoli quale materiale edilizio già pronto o perché nel corso dello scavo scambiati sistematicamente per materiale di crollo e quindi scartati e accantonati dagli archeologi che ne ignoravano naturalmente la funzione! Che bel …. colpo di “fortuna” (per i militaristi naturalmente)!

giovedì 2 settembre 2010

Scienza e Irriverenza

di Mauro Peppino Zedda


I nuraghi a corridoio vennero da Giovanni Lilliu considerati dei nuraghi trappola, sentiamo cosa ha scritto:

Il nemico veniva attratto nella profondità di questi lunghi e lunghissimi corridoi, tenuti volutamente in uno stato di semioscurità, e, una volta addentratosi nel tranello di quegli angusti passaggi, veniva repentinamente assalito dai gruppi di armati annidati nelle garette dell’andito. L’incauto assalitore era preso in mezzo, aggredito di fianco e di spalle di garetta in garetta e veniva abbattuto a colpi di pugnale in una stretta colluttazione. Che se, poi, ad eliminare il pericolo dell’incursione nemica non fosse bastato il nerbo di uomini di guardia nel corridoio inferiore, accorrevano in soccorso, per le scale, i soldati di scolta appostati nel piano superiore o nel terrazzo, e annientavano l’ultima disperata resistenza con lo sterminio totale…..
Riconosciamo per lo più in questo tipo di nuraghe una costruzione di carattere militare, nel quale le cellette e i corridoi servivano per attrarre il nemico ed abbatterlo nell’angustia e nella semioscurità dei vani. Sono una sorta di nuraghi-trappola
….”

Insomma delle due l’una o erano cretini i nuragici o è cretina l’interpretazione del Lilliu.
Mi si dirà che sono Irriverente! La scienza pretende d’esser Irriverente!!

Richard Feynman (Il piacere di scoprire, Adelphi 2007), famoso scienziato americano (premio Nobel nel 1965) ebbe a scrivere: «la ricerca scientifica creativa richiede irriverenza» «La scienza sta nel credere nell’ignoranza degli esperti» «Di tutte le materie, solo la scienza contiene in sé l’insegnamento che è pericoloso credere nell’infallibilità dei più grandi maestri della precedente generazione. Impara dalla scienza che bisogna dubitare degli esperti».

Insomma è doveroso mettere in dubbio l’infallibilità dei Maestri, altrimenti la scienza diventa dogma.

Ora più che mai nel mondo archeologico sardo c’è un indispensabile bisogno di Irriverenza!

mercoledì 1 settembre 2010

Sugli ingressi dei nuraghi

di Alessandro Mannoni

Vorrei porre una questione ai sostenitori ad oltranza della funzione militarista, anche nella sua recente versione “annacquata taramel-lilliana”, (come la definisce M.P. Zedda in Archeologia del Paesaggio Nuragico).

Come mai gli abilissimi costruttori nuragici nel realizzare le loro poderose fortezze frutto di “un’arte militare molto evoluta” - nelle parole di Lilliu del 1988 - in cui confluivano formule e soluzioni costruttive interne e conoscenze e insegnamenti dell’arte fortificatoria di popoli esterni, tenevano però in così scarsa considerazione quello che tradizionalmente viene ritenuto il punto debole per eccellenza di un sistema difensivo murario chiuso, cioè l’ingresso?

Dove sono le tracce certe (non quelle derivanti da riutilizzo posteriore) di solidi portoni, grate, cardini; dove le ridotte, le mura angolari, i fossati e tutti gli altri stratagemmi che storicamente sono stati utilizzati dagli architetti militari per proteggere gli ingressi delle fortezze dal “prolungato attacco di eserciti invasori, forse in possesso di congegni militari tra i più efficaci, come arieti e altre macchine di attacco e tiro”(Lilliu cit. pp. 505 e seg.)?

Possibile che questo “sistema di massima sicurezza” si basasse esclusivamente sulle ridotte dimensioni degli ingressi (comprensibili peraltro sulla base di esigenze statiche di molte delle strutture) e sulle torri tangenti alle mura poste (e non sempre) a protezione dei varchi?

martedì 31 agosto 2010

Il nuraghe come modello cosmico

di Franco Laner

Qualche tempo fa, navigando in internet, mi sono imbattuto in una citazione di Giuseppe Lampis che nel suo libro “Sa bia de sa palla”, ed. Mythos, Roma, 1993, testualmente riporta: Frobenius riferisce (1933) di un modellino di nuraghe con quattro sostegni e un axis mundi centrale, lungo il quale sale lo sciamano.
Il nuraghe -continua- è una rappresentazione del cosmo perché i sostegni sono quattro precisamente come quelli con cui la terra regge il cielo secondo la tradizione africana.
Di corsa allora a consultare il libro di Leo Frobenius Storia delle civiltà africane, Bollati Boringhieri, Milano, 1950, che avevo conservato ancora dai tempi di un esame universitario sull’evoluzione delle tipologie edilizie africane.
Leo Frobenius (1873-1938), tedesco, compì numerosi viaggi di ricerca in Africa. Pioniere dell’etnologia, fu appunto autore di una grandiosa sintesi storico-etnologica della civiltà africana.
Nel capitolo Mondo e Uomo si occupa della rappresentazione dell’universo presso gli antichi.
Riporta anche la raffigurazione di un modello di bronzo di un tempio, conservato nel Museo di Cagliari in Sardegna. A. B. Cook fa risalire il culto ivi espresso alla civiltà eneolitica e al suo massimo sviluppo nell’età del bronzo. La cima della grossa colonna centrale è spezzata. SecondoTaramelli, un tempo c’erano delle corna di bue e una colomba, simbolo del pennuto dio del cielo.
Fra le figure disegnate di modelli cosmici del libro di Frobenius, spicca dunque il modello di tempio sardo di bronzo.
Il luogo di provenienza, Mandas, anziché Ittireddu, è errato, così come lo schizzo porta tre colombe, anziché due, sulla capanna.
Da dove ha preso Frobenius questa immagine? Gliela ha data W. Von Bissing, autore di Die Sardinischen Bronzen del 1924 e che partecipò al famoso Convegno Archeologico in Sardegna del giugno 1926. Negli atti del Convegno, la figura del modellino è riportata dal Taramelli, nella sua relazione con la seguente didascalia: Fig.111. –Modello di santuario nuragico, offerto in voto.
Orbene, lo stesso Giovanni Lilliu ha curato la presentazione nel 1990 della ristampa degli Atti del Convegno del ’26 dell’Editore Delfino.
Due sono le questioni che a questo punto si pongono. Non credo innanzitutto che sia possibile che Lilliu non conoscesse il testo di Frobenius. Negli anni cinquanta non c’erano molti libri né di archeologia, né di storia delle religioni e di etnologia. Il libro di Frobenius ha avuto una larga diffusione –addirittura nel ’70 lo acquistai per i miei studi di architettura, argomento trattato a margine nel famoso libro- e per di più veniva citato e disegnato il bronzetto di Ittireddu.
E’ impossibile anche che Lilliu non sapesse che Taramelli, a cui successe, considerasse il modellino non di nuraghe, bensì di santuario!
Ciononostante per Lilliu i nuraghi complessi furono considerati regge fortificate ed i modellini, modellini di nuraghe e non modelli cosmici o di santuari.
Da questo punto di vista non mi sembra totalmente corretto citare sempre Taramelli e Lilliu come padri della teoria nuraghe-fortezza.
Il merito va ascritto soprattutto, quasi esclusivamente, a Lilliu!
Comunque la teoria dei modelli di nuraghe, sia di bronzo (Ittireddu, Olmedo), sia di pietra (S. Sperate, Palmavera), sta portando al ridicolo. I capitelli di Monte Prama sono interpretati come modello di nuraghe monotorre e i basamenti colonnari sono interpretati come modelli di nuraghe polilobato. E così ogni volta che un reperto, piccolo o grande, abbia un elemento colonnare, viene immediatamente classificato come modello di nuraghe, anche se è il sostegno di un braciere, un offertorio, un capitello!
Nell’anno accademico 2003-2004 fui relatore della tesi di laurea di Paola Zantedeschi “Modellini di nuraghi come rappresentazione cosmica”. La tesi è in gran parte incentrata sulla rappresentazioni cosmiche mandaliche e yantra, e sull’impianto dei templi orientali. Tutte hanno per base la torre, montagna centrale e le quattro torri agli angoli della terra, sempre raffigurata come un quadrato.
Ovviamente anche il nuraghe quadrilobato è compreso in questa rappresentazione cosmica.
Un capitolo della tesi è dedicato all’impianto dei bronzetti di navicella votiva dove è ripetuta la rappresentazione cosmica: albero centrale con quattro torricelle agli angoli.
Che il grande Frobenius abbia visto in questa rappresentazione la sintesi della visione cosmologica non può che confortarmi sulla bontà delle mie deduzioni. I cosiddetti modelli di nuraghe sono imago mundi, modelli universalmente diffusi nella preistoria ed ancora residuali in molte culture, fino a diventare archetipo inconscio. Guardavo le costruzioni di sabbia dei bambini -e dei grandi- in riva al mare. La più ricorrente è un quadrato, con quattro torri (secchiello rovesciato) agli angoli e una torre più grande centrale.
Il riferimento africano di Frobenius mi ha molto confortato –la Sardegna guarda poco all’Africa,ha origini sicuramente più nobili- e per quanto uno sia convinto dei suoi ragionamenti, c’è bisogno -un umano bisogno- del consenso dei “superiori”!
Il passaggio successivo che mi auguro, è che al Museo di Cagliari, una mano pietosa sostituisca il cartellino sotto il bronzetto e scriva: Modello di rappresentazione cosmica al posto di modello di nuraghe.
Il bronzetto è un modello cosmico.
Il nuraghe è un modello cosmico.
Ma il bronzetto non è un modello di nuraghe!
Se A è uguale a C e B è uguale a C, A non è uguale a B in questo caso!
La regola transitiva matematica mal si adatta alla simbologia cosmica!
Infine, e non so darmi risposta, che finalità ci può essere nel rappresentare una fortezza, così ancora è interpretato un nuraghe, con un modello?
Nuraghe fortezza, madre di ogni sciocchezza!
O ci vorrà un altro secolo per capirlo?

domenica 29 agosto 2010

Sulla funzione dei nuraghi: alcune obiezioni

di Alessandro Mannoni

Dal momento della sua apparizione la teoria del nuraghe/tempio, pur con tutte le sue diverse sfumature e varianti interpretative, è stata accolta e per decenni ignorata, avversata silenziosamente o liquidata sbrigativamente dalla quasi totalità degli esponenti dell’archeologia nostrana.
Una delle maniere più rapide e “definitive” per sbarazzarsi di essa è stata per lungo tempo sostenere semplicisticamente, come mi capitava frequentemente di leggere o di ascoltare, che i nuraghi non potevano avere una funzione templare perché i nuragici “i templi ce li avevano già: i pozzi sacri!”.
Fortunatamente ora che anche i più strenui difensori del modello militarista o civilista dedicano almeno qualche pagina dei loro lavori nel tentativo di confutare il modello del nuraghe/tempio tali ingenue affermazioni sono molto più difficili da trovare. Però spesso resta, non chiarita e risolta, la premessa interpretativa che dietro quella obiezione critica si nascondeva.
Gli inquadramenti cronologici attuali, anche quelli che restringono a pochi secoli l’attività di edificazione dei nuraghi, dimostrano infatti proprio il contrario di quel che l’osservazione dava per scontato: i pozzi sacri compaiono in Sardegna tardi, quando i nuraghi, a bastione e a torre perlomeno, esistevano già da alcuni secoli. Quindi per qualche centinaio d’anni, almeno sino a quando non hanno “inventato” il pozzo sacro, le popolazioni nuragiche avrebbero tranquillamente fatto a meno di costruire strutture religiose. Per citare Giovanni Ugas, nel suo lavoro “L’Alba dei nuraghi” egli ascrive con certezza al Bronzo Medio quali edifici di culto solamente il Tempietto di Malchittu ad Arzachena e il recinto a ferro di cavallo di Monte Baranta, che interpreta in funzione religiosa e non più difensiva. Anche la fonte di Su Runcu Mannu di Orroli, primo esempio vero e proprio di tempio delle acque – “se non è stata sottoposta a ristrutturazioni moderne” aggiunge Ugas prudentemente – viene attribuita a tale periodo, ma in maniera solo probabile perché l’attribuzione è fondata su basi unicamente formali e strutturali in quanto il sito non è stato ancora sottoposto a scavo. Le altre, rarissime, testimonianze di culto comprenderebbero solo luoghi naturali senza la presenza di edifici realizzati dall’uomo: le due fonti di Sos Malavidos di Orani e di Abini presso Teti, precedenti però l’edificazione dei templi a pozzo, la Grotta di Su Benatzu a Santadi e qualche altro anfratto dell’iglesiente.
Migliaia di edifici funerari, civili e militari frutto di un’ansia edificatoria tipica della civiltà nuragica, a fronte di ben.… tre templi, di cui uno molto incerto, due sorgenti sacre e qualche grotta: evidentemente la Sardegna viveva all’epoca un singolare periodo di “ateismo” diffuso! Che, però, inspiegabilmente non genera alcun interrogativo in buona parte degli studiosi che lo propongono! Anche Lilliu, che pure notava la stranezza: «nei tempi in cui si costruivano i nuraghi a unica torre, i monumenti di culto sembrano assai rari», non chiarisce l’anomalia se non rimandando ad una ricerca «lontana anni luce dall’essere compiuta» (La Civiltà dei Sardi, 1988, p.490), chiarendo però subito dopo di escludere il tentativo logico e consequenziale, viste queste premesse, di attribuire ai nuraghi la funzione di luogo di culto.
Ora un tal “vuoto” religioso potrebbe forse essere riempito o attribuendo ai nuragici di quell’epoca un tipo di religiosità del tutto priva di forme visibili, o ritenendo che la loro religiosità si esaurisse, tolte le pochissime eccezioni citate da Ugas, nel culto generale degli antenati svolto presso le tombe dei giganti, o attraverso il modello della polifunzionalità dei nuraghi, che farebbe di essi più o meno occasionalmente anche dei luoghi di culto.
Ora coloro che sostengono modelli alternativi a quello del nuraghe/tempio dovrebbero però chiarire come mai il percorso evolutivo della civiltà nuragica, alla fine del Secondo Millennio, proprio quando di nuraghi se ne costruiscono sempre meno per poi scomparire, conduce improvvisamente ed inaspettatamente i nuragici a decidere di rifarsi dei precedenti secoli di insensibilità religiosa attraverso una vera frenesia costruttiva templare, per cui si assiste in Sardegna a tutto un fiorire di edifici sacri di ogni genere: santuari, pozzi e fonti sacre, templi a megaron, capanne lustrali e cultuali, riutilizzo in senso sacrale dei nuraghi. Curiosamente l’obiezione prima inconfutabile - “se il tempio nuragico è rappresentato dal pozzo sacro a che serve l’inutile doppione del tempio/nuraghe?” - sembra a questo punto non essere più sensata: nella testa dell’archeologo ormai possono contemporaneamente convivere senza alcuna contraddizione, fatto prima improponibile, differenti forme di strutture architettoniche aventi tutte una funzione religiosa.
Ma avrebbe bisogno di un adeguato chiarimento anche il passaggio da una forme di struttura polifunzionale che divide la propria funzione tra il tempio, la casa, il magazzino, il fortino e via dicendo e l’improvviso moltiplicarsi sul suolo sardo di edifici specializzati per il culto religioso e per giunta particolarmente originali.
In effetti uno schema storico che vede la strana trasformazione di una civiltà nuragica guerriera, a questo punto di stampo quasi “laico”, tipica del Bronzo Antico e Medio, in una successiva civiltà addirittura “templare” (per usare un termine molto significativo adoperato se ricordo bene da Stiglitz nel corso di una visita guidata al Nuraghe S’Uraki di Uras) presenta elementi di contraddizione evidenti. In questo caso più che di “cambiamento nella continuità” all’interno della civiltà nuragica sarebbe meglio parlare di un vero e proprio capovolgimento rivoluzionario che si dovrebbe però spiegare e giustificare molto più estesamente ed approfonditamente di quanto finora non si sia fatto!

lunedì 23 agosto 2010

La società nuragica: elitaria o egualitaria?

di Mauro Peppino Zedda


La seconda parte dello scorso secolo l’interpretazione dei nuraghi e della società nuragica è stata dominata dal pensiero di Giovanni Lilliu che in questi termini si espresse: «Opere e giorni di piccoli popoli aggregati dal vincolo religioso e di sangue, che hanno superato lo stadio di società strettamente parentelare e hanno maturato quello tribale, con emergenza di un capo-eroe. Non ancora però una società con potere politico di stato, ma poteri diffusi nella comunità, centro del vero potere. Se il nuraghe suppone e pretende un leader, per così dire “amministrativo” e “tecnico” per la scelta del sito, la gestione della costruzione, la garanzia funzionale di controllo del territorio, la tomba megalitica continua a rivelare, in quanto tomba collettiva, il potere comunitario.» (Lilliu 1988).
Per Lilliu: «La storia della Sardegna (e quella in specie dei suoi popoli più remoti) non giunse al di là della storia del cantone, quando non si fermò alla storia del villaggio e dentro del villaggio, a quella del clan e, dentro del clan a quella del gruppo familiare. Le sue genti, come non riuscirono mai ad evadere egemonicamente dalla stretta dell’Isola, espandendosi verso altre terre, limitarono più spesso il loro mondo e le loro conoscenze alla minuta cerchia geografica d’un peripiano e d’un altipiano di poche miglia quadrate, vedendo nel rilievo tabulare fronteggiante a minima distanza quasi un regno lontano e diverso e nel solco vallivo interposto, percorso talvolta da un misero fiumiciattolo, una sorta di frontiera fra stato e stato.» (Lilliu 1988).
E conclude: «Il nuraghe è anche, e soprattutto, uno strumento potente e terribile di guerra, in cui i sardi esprimono le più sottili arti della loro intelligenza e del loro animo bellicoso. Le sezioni preistoriche dei musei sardi sono veri e propri arsenali di armi di ogni specie; e un enorme deposito segreto di armi sono gli strati archeologici non ancora dissepolti del sottosuolo nuragico della nostra terra.» (Lilliu 1988: 667).
Ma qualche pagina prima aveva detto: «Si coglie nel Bronzo finale, una forte impronta metallurgica alla quale concorrono modelli che arrivano da parti diverse del Mediterraneo e dell’Europa. Sono utensili e armi di bronzo di foggia caratteristica e di valore indicativo circa l’età che copre vari secoli. Anzi sono proprio questi oggetti che, per la prima volta consentono di riconoscere il vero tono del bronzo nella civiltà nuragica la quale, nei secoli precedenti al millennio, più che altro, a causa del raro apparire del bronzo ed anche del metallo in genere, era una civiltà della pietra in grande ritardo
Ben più profondi sono gli interrogativi che si è posto Ercole Contu sulla complessità del mondo nuragico: «Ma socialmente come era organizzata questa complessità? Come era in tal senso la divisione del lavoro? Chi provvedeva all’organizzazione? Chi raccoglieva i beni prodotti e si occupava della loro prima distribuzione entro l’ambito tribale o del clan? Chi si occupava degli scambi in ambito sardo insulare e fra la Sardegna ed il mondo mediterraneo? Come era la divisione del lavoro artigianale? Era l’artigiano (come sembra suggerire l’alta qualità di certi prodotti dell’architettura e della bronzistica) dedito a tempo pieno ad una sola specifica attività, mentre altri provvedeva al suo sostentamento? Erano liberi o schiavi tali artigiani ed in particolare gli operai dediti al pesante lavoro minerario? Infatti non per nulla, più tardi i Romani inviarono i loro nemici ad metalla proprio in Sardegna. Era una società governata da nobili e principi oppure da capi eletti temporaneamente fra gli anziani ed aventi ciascuno funzioni di primis inter pares? O si trattò comunque di caratteristiche che andarono modificandosi, col tempo, per propria interna evoluzione o per influssi esterni provenienti da Micenei, Fenici ed Etruschi? E quale era la posizione dei mercanti stranieri o –se c’erano- dei loro prospettori minerari in ambito isolano?
Di fatto - a parte quel che potrebbe essere indicato dal possesso, fonte e conseguenza di prestigio, di alcuni oggetti di importazione ai quali si è già accennato - non riesce agevole riconoscere, in ambito regionale, nel periodo in esame, altri elementi netti di chiara differenziazione sociale. Ci pare perciò che possa escludersi sia la presenza della schiavitù che quella di una nobiltà (àristoi), che pure altri studiosi hanno ipotizzato. Non appaiono tali elementi negli abitati né sono presenti nelle tombe. Quando una costruzione civile e militare o una costruzione funeraria presentano caratteri di maggiore monumentalità, ciò sembra solo da attribuirsi ad una funzione sociale collettiva. Il carattere generalmente austero ed egualitario di questa civiltà sembra confermato dagli oggetti, che sono di uguale semplicità ed uniformità in qualunque monumento o situazione archeologica si rinvengano.[…] L’assenza di nette divisioni sociali, specie se ereditarie, potrebbe essere legata anche al fatto, riscontrabile in ambito etnologico attuale, che ciascun gruppo umano, in cui l’insieme delle genti della regione era diviso, aveva una consistenza numerica piuttosto modesta; tale da non superare neanche i cinquecento individui e soprattutto da non raggiungere quel limite al di là dei quali in genere tali forme aristocratiche risulterebbero maggiormente ipotizzabili
.» (Contu 1997).
Proviamo a discuterne?

giovedì 19 agosto 2010

A che serve l’archeoastronomia?

di Mauro Peppino Zedda


L’archeoastronomia è una disciplina a cavallo tra l’archeologia e la storia dell’astronomia, unisce ed amplia il fascino di entrambe.
Attraverso l’archeoastronomia si studiano le conoscenze astronomiche delle società che non hanno lasciato testimonianze scritte.
Tra i molteplici aspetti che l’archeoastronomia indaga, vi è lo studio dell’orientamento delle antiche costruzioni, siano esse di carattere funerario, sacro o profano. Cercando di capire se l’orientamento possa essere figlio di motivazioni astronomiche.
Quando si studia l’orientamento di antiche costruzioni si deve tener presente che il target astronomico è una possibilità tra altre (una montagna sacra, un insediamento privilegiato, un luogo sacro speciale, ecc.).
Se nell’impianto urbanistico di una città romana, è facile riscontrare la razionalità degli assi viari che intersecano parallelamente e perpendicolarmente l’abitato, è altrettanto facile notare che il cardo e il decumano sono orientati secondo i punti cardinali. La città romana è incardinata col cosmo.
Stesso discorso per le piramidi egizie, i cui lati sono orientati lungo i punti cardinali.
E via di questo passo sino ad inglobare quasi la totalità dei monumenti realizzati nella preistoria. Ma non solo, anche le chiese romaniche sono orientate verso il punto ove sorge il sole il giorno della natività del santo a cui sono consacrate.
Viceversa le moschee sono orientate verso La Mecca, si tratta dunque di un orientamento rivolto verso il luogo più sacro del Islam.
Anche i nuraghi sono stati costruiti seguendo dei parametri astronomici.
L’impianto planimetrico dei nuraghi complessi è astronomicamente orientato verso il sorgere del sole o della luna ai solstizi e lunistizi.
L’ingresso dei monotorre è delle torri centrali dei complessi è orientato verso tre target (sorgere del sole al solstizio d’inverno, della luna al lunistizio maggiore meridionale, e della costellazione del Centauro/Croce del sud, specificando che il target stellare vale solo se i nuraghi sono stati costruiti nel II millennio a.C.), con una anomalia (che conferma le regola) presente nella metà meridionale dell’Isola, dove vi sono orientamenti anche verso il culminare e il tramontare della costellazione del Centauro/Croce.
Sulla disposizione astronomica dei nuraghi vi è il caso della valle di Brabaciera, dove la totalità dei nuraghi presenti risultano allineati lungo angolazioni coincidenti con le linee solstiziali e lunistiali. Il matematico Marco Sanna, ha dedotto che applicando il teorema di Bayes (o delle cause), il caso di Brabaciera dovrebbe essere la norma piuttosto che un caso isolato.
Nel libro S’Ena (che ho avuto modo di leggere in bozze), prossima pubblicazione di Franco Laner, si dimostra che vi sono allineamenti con significato astronomico anche nella piana di Ozieri; inoltre che la disposizione dei nuraghi seguisse delle regole geometriche lo aveva messo in luce anche Mauro Maxia (Un tesoro riscoperto, 1991) in Anglona.
Vogliamo iniziare a chiederci, in tanti, per quale motivo i nuraghi sono stati orientati secondo parametri astronomici?