sabato 23 agosto 2014
Cambio di paradigma?
di Franco Laner
Prime impressioni di lettura del libro di Alessandro Mannoni “Religione e spiritualità nella Sardegna nuragica” Ed. Agorà nuragica, Cagliari, 2014
Metto in atto uno dei tre consigli che Massimo Pittau mi ha dato: quello di occuparmi di archeologia con gli strumenti della mia disciplina, ovvero la costruzione. Gli altri due consigli, che ovviamente seguo, riguardano la vecchiaia (non smettere mai di studiare, altrimenti sei finito e l’altro –ottimo- di indossare le mutande lunghe di lana appena inizia l’inverno, come presidio a tanti guai fisici!)
Ecco che il libro di Mannoni sfugge al mio giudizio, poiché di religione, antropologia, archeologia, astronomia, epigrafia, ecc. ecc., tutte materie che concorrono ad una visione del paesaggio nuragico, sono solo un lettore. Pure alcune riflessioni sul libro appena edito, le pongo in discussione.
La prima –e come non potrei entusiasmarmi?- è che il meticoloso ragionamento e la puntuale e ponderosa ricognizione bibliografica di Mannoni lo porta ad escludere la funzione militare dei nuraghi. Spazza definitivamente una teoria a cui ancora si aggrappano archeologi isolani nostalgici e che tanto danno ha arrecato allo sviluppo della conoscenza e alla ricerca. Niente come la teoria militare ha nociuto alla conoscenza e alcuni corollari, figli di quell’errata e risibilissima visione, purtroppo ancora impestano recenti pubblicazioni e convegni, specie nel lessico fuorviante e nell’interpretazione dei materiali di scavo.
Messa dunque una pietra tombale su questo infausto paradigma -la storia della conoscenza in ogni settore ha degli sbandamenti- si apre un largo campo per filosofare.
In questo quadro inserirei il contributo di Mannoni poiché l’apertura al sacro si presta a nuovi interrogativi. Ad esempio la visione del nuraghe-tempio, inaugurata da Pittau, va meglio specificata.
C’è infatti l’evidente rischio –anche se Mannoni cerca in qualche modo di superarlo- di bloccare e ridurre la complessità del nuraghe alla destinazione di luogo di culto, assembleare e rituale. Insomma al tempio-chiesa, al tempio luogo di riti, al tempio edificato al dio nuragico o pantheon. Sarebbe riduttivo e fuorviante.
Per capire la costruzione fisica del nuraghe, riportata in “Accabadora” e aggiornata in “Sa ‘ena”, mi è stata di fondamentale aiuto la lettura di Mircea Elide. Senza, mai avrei capito come l’atto costruttivo non potesse essere scisso dalla sua sacralità e tantomeno ne avrei capito le intenzioni. Né avrei capito il profondo significato della sacralità dell’atto fondativo, del “centro”, dell’elevazione, della tholos, della separazione sacro-profano. Nemmeno della tecnica piegata al fine di aprire l’apice della cupola dove passa l’axis mundi, che collega inferi-terra-cielo. Allora ho ammirato l’abilità costruttiva a secco, innovativa e sofisticata, impiegata per raggiungere finalità semantiche, spirituali, cosmogoniche, astronomiche.
Finalità –tutte congelate nel nuraghe- soprattutto intese a mettere ordine, cosmizzare lo spazio ed il tempo, con riferimento al cielo, preciso, iterato, ineludibile e rassicurante.
L’altra grande categoria, che grazie al grande storico delle religioni, che anche Mannoni ha posto al centro della sua ricerca sulla spiritualità nuragica, è la concezione del tempo circolare, che permeava la visione del mondo, la religione appunto, l’arte, la vita.
In questo complessissimo quadro si innesta il nuraghe, luogo sacro, ierofanico, gnomone e metronomo, marcatore territoriale, “confine” con l’accezione di riferimento di derivazione dolmenica che ho descritto in “Sa ‘ena”. Se “tempio” racchiude tutto ciò, allora mi sta bene la destinazione a tempio del nuraghe!
Il nuragico –come premette Mannoni- è caratterizzato dall’aniconicità, ovvero porta ad una spiritualità che intendo come una sorta di animismo, non ad un dio creatore, o un dio da adorare o temere: la spiritualità permea ogni cosa, la natura, la vita e l’uomo.
La fase iconica è per me per certi versi preceduta da quella aniconica. Ad esempio i betili mammilliformi di Tamuli, che assommano maschio e femmina, l’ermafrodita, è per certi versi ancora aniconica, anche se tenta di raffigurare la perfezione, la spiritualità che non può aver attributi maschili o femminili. A questa aniconicità mi pare doversi assegnare gli antropomorfi precipitanti stilizzati in alcune Domus che lo stesso Lilliu definisce “anime”.
La visione di tempio in onore di dio anche da questo punto di vista andrebbe meglio specificata, perimetrata, definita. Ora ne ho ancora un contorno indeciso, ma mi sembra riduttivo pensare semplicemente al nuraghe come tempio.
Un notevole contributo deriverà, come penso, dall’epigrafia nuragica, oggi difficilmente negabile, visto che grazie a Sanna e Losi sta presentando una cifra di forte inferenza.
Da queste primissime notazioni al libro di Mannoni sento la necessità del confronto, che scenda anche nei particolari e dettagli che sostengono la visione della religiosità nuragica e dei modi con cui si esplicitava.
Ad esempio, ovviamente a mio parere, è ora di smetterla con la visione del nuraghe che in sommità si allarga a sbalzo. Questo ipotetico aggetto prima era congeniale alla difesa piombante, ora diventa una terrazza rituale allargata. Per questo profilo si portano a prova fantomatici modellini di nuraghe, oppure colonne con capitello che possono avere svariate funzioni, ma mai mi convincerò che siano maquette di nuraghi. Che bisogno c’era di fare un modello di nuraghe?
L’allargamento apicale è costruttivamente illogico ed impossibile per la muratura a secco. Al massimo si possono ammettere singoli mensoloni, che portano solo se stessi.. Lo stesso Pittau, che non è un tecnico ma ha il senso del grave, risolve originalmente la questione dei rarissimi nuraghi con possibili , rari, mensoloni.
Le leggi della gravità, che soggiacciono alla costruzione, si fanno rispettare senza le nostre fantasiose ipotesi!
E così lascerei perdere presunti scoop topografici, triangolazioni, conoscenze tecniche improprie non solo al nuragico, ma anche a qualsiasi civiltà coeva. Il pericolo di usare strumenti moderni e contemporanei per risolvere problemi del passato deve essere costantemente tenuto presente, pena la decontestualizzazione e risibilità delle deduzioni.
Libro da meditare e quindi rileggere, ma che soprattutto che apre al confronto, non solo sui blog, ma è necessario organizzare conferenze, perché il tema della religione nuragica è fondamentale.
Ora non si può più snobbare, ignorare e tacere.
Nuove discipline e reinterpretazioni, come l’archeoastronomia, la linguistica (ora anche l’epigrafia), la costruzione, la religione, non più ferma a Pettazzoni, e tante altre, hanno sdoganato l’archeologia nuragica. Muore il paradigma taramel-lilliano –bella la definizione di Zedda!- e si apre un nuovo paradigma per l’interpretazione del paesaggio nuragico.
mercoledì 30 luglio 2014
Attilio Mastino e i capitelli di Monte Prama
di Mauro Peppino Zedda
Qualche giorno fa (29 Luglio), su L’Unione Sarda è stato pubblicato un articolo di Attilio Mastino, che tesse le lodi alla sinergia messa in campo dalla Soprintendenza di Cagliari e Oristano e delle Università di Cagliari e Sassari, nella gestione degli scavi archeologici nel sito di Monte Prama a Cabras.
Su un passo dell’articolo di Mastino mi piace discutere, quando scrive: “Il giorno 30 Giugno si è rinvenuto un grande frammento di modello di nuraghe a terrazzo quadrangolare, noto in un altro esemplare nel Museo di Cabras. Per questi due modelli di nuraghe monotorri non si può ancora escludere una loro funzione architettonica come capitelli”.
Come noto Mastino si occupa del periodo romano, dunque anche di capitelli, mentre gli archeologi nuragologi sardi sembra non sappiano distinguerli da un modello di nuraghe.
Nel Museo e nelle pubblicazioni di Campus e Leonelli resti di colonne con capitello quadrato vengono confusi ed interpretati come modelli di nuraghe a terrazzo quadrato! Su questo importante (ai fini dell’interpretazione del sito) fraintendimento nessun archeologo nuragologo ha mosso delle critiche, per loro è normale che uno spezzone di colonna con capitello quadrato venga considerato alla stregua di modello di nuraghe a terrazzo quadrato!
Peccato che non esistano nuraghi a terrazzo quadrato!
La questione della pessima interpretazione delle colonne con capitello quadrato rinvenute in quel di Monte Prama, era stata messa in luce da Franco Laner nello splendido libro Sa’Ena, Sardegna Preistorica dagli antropomorfi ai telamoni di Monte Prama (ed. Condaghes 2011).
Laner definì la maldestra interpretazione degli archeologi nuragologi come “una delle più solenni cantonate”.
Dopo le critiche feroci di Franco Laner, ora arriva il delicato segnale da Attilio Mastino, sono curioso di capire quanti anni ci impiegheranno gli archeologi nuragologi a correggere la loro cantonata o meglio capitellata!
Qualche giorno fa (29 Luglio), su L’Unione Sarda è stato pubblicato un articolo di Attilio Mastino, che tesse le lodi alla sinergia messa in campo dalla Soprintendenza di Cagliari e Oristano e delle Università di Cagliari e Sassari, nella gestione degli scavi archeologici nel sito di Monte Prama a Cabras.
Su un passo dell’articolo di Mastino mi piace discutere, quando scrive: “Il giorno 30 Giugno si è rinvenuto un grande frammento di modello di nuraghe a terrazzo quadrangolare, noto in un altro esemplare nel Museo di Cabras. Per questi due modelli di nuraghe monotorri non si può ancora escludere una loro funzione architettonica come capitelli”.
Come noto Mastino si occupa del periodo romano, dunque anche di capitelli, mentre gli archeologi nuragologi sardi sembra non sappiano distinguerli da un modello di nuraghe.
Nel Museo e nelle pubblicazioni di Campus e Leonelli resti di colonne con capitello quadrato vengono confusi ed interpretati come modelli di nuraghe a terrazzo quadrato! Su questo importante (ai fini dell’interpretazione del sito) fraintendimento nessun archeologo nuragologo ha mosso delle critiche, per loro è normale che uno spezzone di colonna con capitello quadrato venga considerato alla stregua di modello di nuraghe a terrazzo quadrato!
Peccato che non esistano nuraghi a terrazzo quadrato!
La questione della pessima interpretazione delle colonne con capitello quadrato rinvenute in quel di Monte Prama, era stata messa in luce da Franco Laner nello splendido libro Sa’Ena, Sardegna Preistorica dagli antropomorfi ai telamoni di Monte Prama (ed. Condaghes 2011).
Laner definì la maldestra interpretazione degli archeologi nuragologi come “una delle più solenni cantonate”.
Dopo le critiche feroci di Franco Laner, ora arriva il delicato segnale da Attilio Mastino, sono curioso di capire quanti anni ci impiegheranno gli archeologi nuragologi a correggere la loro cantonata o meglio capitellata!
mercoledì 11 giugno 2014
Gigi Sanna e Aba Losi, epigrafisti acrobati
di Mauro Peppino Zedda
Da una ventina d’anni Gigi Sanna sostiene l’ipotesi che i nuragici utilizzassero la scrittura.
Le sue ipotesi sono state pubblicate in libri e nei blog di Gianfranco Pintore e Monte Prama, gestito da Atropa Belladonna pseudonimo di Aba Losi, Biofisica nell’Università di Parma.
Per quanto mi consta gli studi di Sanna non sono mai stati ospitati in nessuna rivista scientifica di epigrafia e nessun epigrafista accademico ha mostrato segnali di plauso alle tesi di Sanna.
Le più antiche attestazioni di segni che rimandano ad una scrittura nella preistoria isolana sono presenti nei lingotti ox-hide rinvenuti in gran copia in Sardegna, ma è ormai certo, salvo impreviste retromarce da parte dei chimici di mezzo mondo, che i lingotti ox-hide ritrovati in Sardegna sono costituiti da rame cipriota e sono stati fusi o a Cipro o nelle dirimpettaie coste siriane.
Qualche altra iscrizione è stata rinvenuta in manufatti appartenenti al Bronzo Finale (1150-1000 a.C.) e all’età del Ferro (1000-750 a.C.), di cui hanno trattato gli archelogi Paolo Bernardini, Giovanni Ugas, Raimondo Zucca e Maria Ausilia Fadda.
Faccio notare che nel Bronzo Finale è terminata l’epoca in cui si costruivano i nuraghi e in Sardegna arrivarono popolazioni dal Levante Mediterraneo come ha ampiamente dimostrato Sandars (per approfondire v. Archeologia del Paesaggio Nuragico).
Gigi Sanna e la sua fedele assistente Aba Losi, attraverso il blog Monte Prama sono fortemente critici verso gli archeologi sardi, rei, secondo loro, di nascondere i reperti e di non convalidare l’autenticità di iscrizioni ritrovate da boys scout loro seguaci.
Ho provato a cercare di capire le proposte di Sanna e Losi, ma di fronte a delle procedure che hanno più a che fare con l’enigmistica piuttosto che con l’epigrafia non riesco ad accettare la loro proposta. Mi par di intendere che utilizzando il sistema Sanna-Losi si riesce a leggere tutto ciò che si vuole. Formidabile esempio di quanto affermo lo si può rilevare nel libro che Sanna ha dedicato all’interpretazione della stele di Nora. Il modo con cui presenta la decifrazione dell’iscrizione è di tipo enigmistico-acrobatico.
Volendo assimilare un normale epigrafista ad un maratoneta, Gigi Sanna e Aba Losi rappresenterebbero degli eccellenti acrobati.
Qualche giorno fa Gigi Sanna ha pubblicato la sua ultima acrobazia epigrafica (Mistras di Cabras. Il magnifico pozzo sacro scritto di Yabal Yan’a Toro della Luce) nel blog Monte Prama, si tratta della sua decifrazione delle iscrizioni presenti nel bordo delle pietre sommitali nel pozzo di Mistras a Cabras.
Secondo Sanna il pozzo di Mistras sarebbe un pozzo sacro nuragico, e da ciò si comprende che Gigi Sanna non conosce come sono costruiti i pozzi sacri nuragici.
Per far intendere la differenza ai profani è come scambiare una farfalla con un elefante!
Ho chiesto a Sanna chiarimenti sui motivi per cui definiva nuragico quel pozzo (palesemente non nuragico), e mi ha risposto in malo modo.
Poi, quando gli ho fatto notare che nelle iscrizioni si legge, chiarissimamente, la scritta 1942 S.V. ha iniziato a sciorinare acrobazie epigrafiche, balbettando puerili risposte alle puntuali osservazioni di Franco Laner.
Confesso che nel momento in cui segnalavo che sulla lastra vi è palesemente scritto 1942 S.V. mi aspettavo che Sanna avrebbe ammesso la svista, ma così non è stato.
Pur in presenza di un pozzo non nuragico e di una data, Sanna ha continuato imperterrito a sostenere che si trattava di una iscrizione nuragica.
Infine Aba Losi mi ha bannato dal suo blog quando facevo notare che la sequenza numerica 1942, ha un inequivocabile significato calendariale in quanto il numero 1 si trova in prima posizione, mentre con qualsiasi altro segno in testa a numeri a quattro cifre non si otterrebbe un numero avente un significato calendariale. Insomma anche la logica dei numeri corroborava il fatto che1942 rappresenti una data.
Credo proprio che Aba Losi abbia capito che l’impalcatura teoretica del suo maestro rischiava di affondare nel pozzo di Mistras e non sapendo che pesci pigliare mi ha tolto la possibilità di fare commenti e infine ha chiuso a chiunque la possibilità di commentare la fantasmagorica acrobazia epigrafica di Gigi Sanna.
Prendiamo atto che Gigi Sanna non sa distinguere un pozzo sacro nuragico da un pozzo comune di epoca recente e che non tiene conto che è usanza comune incidere delle date sugli archi e sulle fontane, in occasione della costruzione o ristrutturazione.
Nonostante il ruzzolone, spero proprio che questa non rappresenti l’ultima acrobazia epigrafica di Gigi Sanna, spero proprio di no, leggere Sanna (unitamente alla sua discepola Aba Losi) e come leggere un bel testo di Pindaro! Sanna scrive bene e possiede una sfrenata fantasia, per riuscire a trovare il paleonuragico in una data bisogna essere veramente bravi, quasi eccelso direi
domenica 15 dicembre 2013
Astronomia nella Sardegna Preistorica
di Franco Laner
La prima considerazione che mi è venuta da fare, solo sfogliando il nuovo libro di Mauro Peppino Zedda, riguarda l’enorme mole di dati rilevati. Ho contato più di 600 DdJ (Domus de janas) e più di 300 TdG (tombe di Giganti) e poi dolmen, pozzi, megaron, senza contare la caterva impressionante di nuraghi e mi chiedo: quanti erano i rilevatori? Quanto è costata questa ricerca, viaggi, ordinare e interpretare i dati, scrivere ed impaginare?
Qual è l’Istituzione o l’Ente che ha finanziato la ricerca?
E soprattutto a fronte di quale impegno finanziario è stata possibile la pubblicazione?
La domanda è ovviamente pleonastica. La risposta è che Mauro se l’è pensata, fatta e pubblicata da solo! Fosse stata commissionata dall’Istituzione, mettiamo Università o Soprintendenza, avremo una sola voce: cospicuo finanziamento: resoconti in qualche remoto cassetto, che non vedranno mai la luce, forse una pubblicazione, sicuramente un convegno sponsorizzato!
In sintesi: chi fa, lo fa a sue spese. Chi non fa, lo fa coi soldi dello Stato!
L’ immediata considerazione è subito confortata dalla presentazione di Juan A. Belmonte, dell’Instituto de Astrofisica de Canaries che giudica straordinario il lavoro di Mauro per la gran mole di dati: "esta es sin duda la maestra de datos arqueastronomicos mas estensa recogida jamas en un intorno geografico tan limitado" (questa è senza dubbio la raccolta di dati archeoastronomici più estesa mai raccolta in un ambito geografico ristretto).
Questa caterva di dati interpretati ed analizzati, consentono a Mauro, continua l’astrofisico spagnolo, di legittimare le teorie che ha sostenuto negli ultimi 25 anni, in particolare il contributo che l’archeoastronomia ha dato all’archeologia, alla storia delle religioni e alle sue decisive implicazioni per la comprensione del paesaggio archeologico sardo.
Appena per inciso ricordo che Zedda ha voluto e trovato fin dall’inizio delle sue ricerche interfaccia e confronto con i contemporanei cultori di archeoastronomia, come Hoskin (università di Cambridge), Ruggles (università di Leicester), Arnold Lebeuf (università di Cracovia) e ovviamente Belmonte. Inserito in questo consesso internazionale le sue ricerche hanno avuto il conforto scientifico e convalida dei risultati.
A fronte ai dati rilevati non parlerei nemmeno più di interpretazione statistica di campioni, perché il campione è una parte casuale della totalità dell’intera popolazione tipologica che si vuol analizzare. I dati rilevati per analizzare l’orientamento dei monumenti sono estesi a tutta la popolazione e quindi più che di interpretazione di un campione si deve parlare di inferenze deduttive, logiche e consequenziali con riferimento alla totalità dei dati di orientamento.
Fra le teorie che vengono validate dall’approccio archeoastronomico inaugurato da Mauro e che mi stanno particolarmente a cuore, è che d’ora innanzi non si potrà più parlare, a meno di non farlo a vanvera, di nuraghe con destinazione diversa dalla sfera del sacro.
Le considerazioni che l’Autore svolge nel capitolo 12 a questo proposito, totalmente condivisibili, aggiungono altre ragioni per abbandonare definitivamente le teorie militari sulla funzione del nuraghe, che sembrano comunque trovare nuovi adepti purtroppo anche nell’Archeologia ufficiale isolana, aggiungendo nuovi danni e fuorvianze a quelle già consumate da Taramelli e Lilliu e discepoli, sia appartenenti all’Accademia sia alla Soprintendenza, che non meritano nemmeno la citazione dei nomi.
Sarebbe comunque riduttivo giudicare il lavoro come censimento e misurazione dei monumenti sardi dal punto di vista archeoastronomico e relative inferenze.
Il libro apre un nuovo e vasto campo di indagine che riguarda la dislocazione territoriale dei monumenti e le possibili considerazioni che ne derivano (capitolo 8). La storia degli studi in questo settore è assai recente, meno di 20 anni. Mauro riprende le considerazioni di Mauro Maxia sulla dislocazione dei nuraghi dell’Anglona, riprende le sue considerazioni sul territorio di Isili, fino ai recenti studi di Augusto Mulas e Roberto Serra. L’eccezionale scoperta di Mulas sulla coincidenza fra la posizione in cielo delle Pleiadi e in terra dei nuraghi che fanno capo al S. Antine è comunque valida -qui dissento dal giudizio di Mauro (pag. 149)- anche se fosse unica. In questo caso l’unicum, proprio per la sua assolutezza probabilistica, diventa prova scientifica, per chi pensa, come da tempo penso, che ciò che è in cielo così in terra, con i tanti corollari che ne seguono, in primis quello di cosmizzare spazio e tempo, funzione primaria dei nuraghi, strumento di razionalizzazione per gli uomini che hanno nella geometria celeste, nell’astronomia, il riferimento sicuro e logico con cui operare la ri-creazione dei riferimento spazio-temporale.
Voglio dire che se l’unicità di un reperto non consente deduzioni generali, proprio per il pericolo di casualità’ e quindi di inattendibilità e generalizzazione, lo sovrapposizione della mappa celeste delle Pleiadi con quella terrena, non lascia scampo al dubbio scientifico.
Considero infine il lavoro di Mauro con doppia valenza.
Da una parte mette un macigno sulla questione della legittimità del giudizio -anche, ma non solo- archeoastronomico dei monumenti della presistoria sarda (Belmonte si esprime così: Es mi opinion sincera che està destinada a ser un hito (pietra miliare) en la arquelogia sarda), ma dall’altra apre intelligentemente l’angolo visuale dal monumento al territorio, ovvero lo apre sul paesaggio, definizione a lui cara, da non intendersi come “panorama”, bensì paesaggio come insieme del risultato di antropizzazione, fisica e culturale, ipostasi della storia del territorio, palinsesto che restituisce, se sapientemente “grattato” , la possibilità di ricostruire il passato dell’Isola.
Venezia, 24 novembre 2013
mercoledì 27 novembre 2013
Archeoastronomia alla Cabizza-Forteleoni
di Mauro Peppino Zedda
Alcuni giorni fa un archeologo mi ha chiesto perché nel libro Astronomia nella Sardegna Preistorica non abbia citato lo studio sull’orientamento delle domus de janas eseguito dai due astrofili Turritani, Gian Nicola Cabizza e Michele Forteleoni.
Credo che la risposta che ho dato all’archeologo possa interessare tutti coloro che sono interessati all’archeoastronomia.
La ragione di fondo consiste nel fatto che in Astronomia nella Sardegna Preistorica ho scelto di non citare le pubblicazioni che non rispondano a criteri di scientificità tra le quali rientra anche il lavoro di Cabizza e Forteleoni (“La misura del tempo”, risultati preliminari, in Cronache di Archeologia, vol 8, 2011).
Cabizza e Forteleoni hanno analizzato l’orientamento di 156 domus de janas distribuite in 19 necropoli della Sardegna Nord-occidentale, buona parte delle quali rientra tra le 300 (circa) che avevo esaminato e pubblicato assieme a Juan Antonio Belmonte (“From Domus de Janas to Hawanat: on the orientations of rock carved tombs in the Western Mediterranean” in proceedings of the SEAC 2005 Lights and Shadows in Cultural Astronomy, Isili).
Tra il 2005 e il 2012, ho continuato misurare l’orientamento delle domus de janas, e in Astronomia nella Sardegna Preistorica vi è l’analisi archeoastronomica dell’orientamento di 649 domus de janas.
Delle 156 domus de janas esaminate da Cabizza e Forteleoni, una quarantina non rientrano tra le 649 sulle quali ho basato le mie analisi.
Se Cabizza e Forteleoni avessero misurato l’orientamento delle domus de janas attenendosi ai criteri che seguono gli archeoastronomi di tutto il mondo, avrei potuto confrontare le mie misurazioni con le loro e sommare al campione di 649 quella quarantina di domus da loro misurate ed inedite.
Purtroppo la procedura di misurazione seguita da Cabizza e Forteleoni è superficiale almeno quanto l’apparato bibliografico che presentano a corredo del loro articolo.
Dell’orientamento delle 156 domus, presentano infatti solo l’azimut, che non sarebbe il vero azimut geografico, ma un azimut corretto con l’altezza dell’orizzonte visibile (cfr pag. 31 dell’articolo citato).
Vi è da chiedersi perchè i due astrofili Turritani non abbiano seguito le procedure comunemente seguite dagli studiosi di archeoastronomia di tutto il mondo?
Perché Cabizza e Forteleoni, non presentano i dati relativi all’azimut geografico, all’altezza dell’orizzonte e alla declinazione di ogni singolo orientamento?
Forteleoni e Cabizza si sono “dimenticati” di presentare i dati fondamentali dell’orientamento ovvero l’azimut geografico e l’altezza dell’orizzonte. Sarebbe come se un archeoastronomo serio non citasse i dati relativi all'azimut geografico e all'altezza d’orizzonte e impostasse la sua disquisizione citando solo i dati in termini di declinazione.
Per meglio intenderci Cabizza e Forteleoni hanno operato come un architetto che dopo aver misurato un nuraghe indicasse solo il volume, dimenticandosi di indicare la larghezza e l’altezza del monumento. Anzi Cabizza e Forteleoni hanno fatto di peggio perchè invece della declinazione hanno adottato un “azimut corretto”, come se un architetto ci indicasse il volume con un sistema diverso da quello internazionale.
Il loro azimut corretto potrebbe rappresentare una sorta di maldestro surrogato della declinazione, ma la mancata presentazione dell’azimut geografico e dell’altezza dell’orizzonte che caratterizzano ogni singolo orientamento fa in modo che i dati della loro analisi non siano cumulabili e confrontabili con quelli derivanti da procedure ortodosse.
Il loro studio oltre ad essere bizzarro dal punto di vista procedurale, non aggiunge niente all’interpretazione dell’orientamento delle domus de janas proposta da me e da Juan Antonio Belmonte nel 2005 e riproposta nel libro Astronomia nella Sardegna Preistorica.
Certamente mi sarebbe piaciuto confrontare i risultati delle mie misurazioni con le loro, ma il loro modo di procedere, una sorta di archeoastronomia alla Turritana, contrasta con le procedure comunumente seguite in tutto il mondo. Nel loro opuscolo hanno citato Clive Ruggles come esempio da seguire nelle ricerche archeoastronomiche e su questo sono pienamente d’accordo, ma probabilmente è solo una dichiarazione d'intenti dato che il loro modo di procedere non tiene minimamente conto di quanto suggerito dal Presidente dell’ISAAC (International Society for Archaeoastronomy and Astronomy in the Culture).
Dopo queste spiegazioni, l’archeologo curioso sulla mancata citazione dello studio sulle domus de janas eseguito dei due astrofili Turritani, mi disse che avrei dovuto citarli e criticarli nel libro. Avrà forse ragione l’archeologo, ma stà di fatto che ho preferito non citare criticamente uno studio archeoastronomico alla “cabizza-forteleoni” che dal punto di vista interpretativo niente aggiunge a quanto già noto e dal punto di vista metodologico è inadeguato.
Ovviamente spero che Cabizza e Forteleoni presentino i loro futuri eventuali studi in accordo con i dettami e le procedure dell’archeoastronomia internazionale, invece che nella loro indigeribile salsa turritana.
Alcuni giorni fa un archeologo mi ha chiesto perché nel libro Astronomia nella Sardegna Preistorica non abbia citato lo studio sull’orientamento delle domus de janas eseguito dai due astrofili Turritani, Gian Nicola Cabizza e Michele Forteleoni.
Credo che la risposta che ho dato all’archeologo possa interessare tutti coloro che sono interessati all’archeoastronomia.
La ragione di fondo consiste nel fatto che in Astronomia nella Sardegna Preistorica ho scelto di non citare le pubblicazioni che non rispondano a criteri di scientificità tra le quali rientra anche il lavoro di Cabizza e Forteleoni (“La misura del tempo”, risultati preliminari, in Cronache di Archeologia, vol 8, 2011).
Cabizza e Forteleoni hanno analizzato l’orientamento di 156 domus de janas distribuite in 19 necropoli della Sardegna Nord-occidentale, buona parte delle quali rientra tra le 300 (circa) che avevo esaminato e pubblicato assieme a Juan Antonio Belmonte (“From Domus de Janas to Hawanat: on the orientations of rock carved tombs in the Western Mediterranean” in proceedings of the SEAC 2005 Lights and Shadows in Cultural Astronomy, Isili).
Tra il 2005 e il 2012, ho continuato misurare l’orientamento delle domus de janas, e in Astronomia nella Sardegna Preistorica vi è l’analisi archeoastronomica dell’orientamento di 649 domus de janas.
Delle 156 domus de janas esaminate da Cabizza e Forteleoni, una quarantina non rientrano tra le 649 sulle quali ho basato le mie analisi.
Se Cabizza e Forteleoni avessero misurato l’orientamento delle domus de janas attenendosi ai criteri che seguono gli archeoastronomi di tutto il mondo, avrei potuto confrontare le mie misurazioni con le loro e sommare al campione di 649 quella quarantina di domus da loro misurate ed inedite.
Purtroppo la procedura di misurazione seguita da Cabizza e Forteleoni è superficiale almeno quanto l’apparato bibliografico che presentano a corredo del loro articolo.
Dell’orientamento delle 156 domus, presentano infatti solo l’azimut, che non sarebbe il vero azimut geografico, ma un azimut corretto con l’altezza dell’orizzonte visibile (cfr pag. 31 dell’articolo citato).
Vi è da chiedersi perchè i due astrofili Turritani non abbiano seguito le procedure comunemente seguite dagli studiosi di archeoastronomia di tutto il mondo?
Perché Cabizza e Forteleoni, non presentano i dati relativi all’azimut geografico, all’altezza dell’orizzonte e alla declinazione di ogni singolo orientamento?
Forteleoni e Cabizza si sono “dimenticati” di presentare i dati fondamentali dell’orientamento ovvero l’azimut geografico e l’altezza dell’orizzonte. Sarebbe come se un archeoastronomo serio non citasse i dati relativi all'azimut geografico e all'altezza d’orizzonte e impostasse la sua disquisizione citando solo i dati in termini di declinazione.
Per meglio intenderci Cabizza e Forteleoni hanno operato come un architetto che dopo aver misurato un nuraghe indicasse solo il volume, dimenticandosi di indicare la larghezza e l’altezza del monumento. Anzi Cabizza e Forteleoni hanno fatto di peggio perchè invece della declinazione hanno adottato un “azimut corretto”, come se un architetto ci indicasse il volume con un sistema diverso da quello internazionale.
Il loro azimut corretto potrebbe rappresentare una sorta di maldestro surrogato della declinazione, ma la mancata presentazione dell’azimut geografico e dell’altezza dell’orizzonte che caratterizzano ogni singolo orientamento fa in modo che i dati della loro analisi non siano cumulabili e confrontabili con quelli derivanti da procedure ortodosse.
Il loro studio oltre ad essere bizzarro dal punto di vista procedurale, non aggiunge niente all’interpretazione dell’orientamento delle domus de janas proposta da me e da Juan Antonio Belmonte nel 2005 e riproposta nel libro Astronomia nella Sardegna Preistorica.
Certamente mi sarebbe piaciuto confrontare i risultati delle mie misurazioni con le loro, ma il loro modo di procedere, una sorta di archeoastronomia alla Turritana, contrasta con le procedure comunumente seguite in tutto il mondo. Nel loro opuscolo hanno citato Clive Ruggles come esempio da seguire nelle ricerche archeoastronomiche e su questo sono pienamente d’accordo, ma probabilmente è solo una dichiarazione d'intenti dato che il loro modo di procedere non tiene minimamente conto di quanto suggerito dal Presidente dell’ISAAC (International Society for Archaeoastronomy and Astronomy in the Culture).
Dopo queste spiegazioni, l’archeologo curioso sulla mancata citazione dello studio sulle domus de janas eseguito dei due astrofili Turritani, mi disse che avrei dovuto citarli e criticarli nel libro. Avrà forse ragione l’archeologo, ma stà di fatto che ho preferito non citare criticamente uno studio archeoastronomico alla “cabizza-forteleoni” che dal punto di vista interpretativo niente aggiunge a quanto già noto e dal punto di vista metodologico è inadeguato.
Ovviamente spero che Cabizza e Forteleoni presentino i loro futuri eventuali studi in accordo con i dettami e le procedure dell’archeoastronomia internazionale, invece che nella loro indigeribile salsa turritana.
lunedì 21 gennaio 2013
Dolmen e nuraghi versus nozione di confine
di Franco Laner
Nel capitolo 3 sui dolmen in Sardegna (“Sa ’ena”, Condaghes ed. 2011) dedicato in particolare alle possibili tecnologie di trasporto e posa in opera, introducevo due categorie di giudizio: una sulla loro estetica, l’altro sul loro significato territoriale.
I dolmen -scrivevo- introducono ad una nozione di confine, in una accezione alquanto diversa da quella corrente, che per confine intende il limite definito, ad esempio di un terreno, oppure di una regione geografica o di uno stato. Il confine è oggi la zona di transizione in cui scompaiono le caratteristiche individuanti di un territorio. Il confine può essere naturale, quello che si identifica con linee stabilite dalla natura, es. una costa, un fiume o un crinale di montagna, oppure politico, quello convenzionale stabilito dai governi.
La nozione di confine ha occupato e tutt’ora occupa gli studiosi.
Kant ha dedicato spazio nella Critica al concetto di confine. In sintesi definisce il concetto di confine avvicinandolo al concetto di limite, conferendogli una nozione negativa, inibente, incardinante, ponente vincoli e quindi barriere.
Zygmunt Bauman (sociologo e filosofo polacco) preferisce non vedere barriere nei confini. Sono piuttosto interfacce tra i luoghi che separano. In quanto tali, sono soggetti a pressioni contrapposte e sono perciò fonti potenziali di conflitti e tensioni. Parla di confini spontanei, costituiti dal rifiuto di una commistione, anziché da cemento e filo spinato. Essi svolgono una doppia funzione: oltre ad avere lo scopo di separare, hanno anche il ruolo/destino di essere delle interfacce, di promuovere quindi incontri, interazioni e scambi, e in definitiva una fusione di orizzonti cognitivi e pratiche quotidiane. Il confine protegge (o almeno così si spera o si crede) dall'inatteso e dall'imprevedibile: dalle situazioni che ci spaventerebbero, ci paralizzerebbero e ci renderebbero incapaci di agire. Più i confini sono visibili e i segni di demarcazione sono chiari, più sono «ordinati» lo spazio e il tempo all'interno dei quali ci muoviamo. I confini danno sicurezza. Ci permettono di sapere come, dove e quando muoverci. Ci consentono di agire con fiducia.
Altri studiosi contemporanei, Giacomo Marramao, Marilena Casella (Complessità antropologica della nozione di confine), Gian Primo Cella (I confini come distinzione e fonte di significato) hanno scritto importanti saggi su questo intrigante concetto e comunque si capisce facilmente come questa nozione debba essere declinata, se riferita alla preistoria, con uno sforzo di storicizzazione, assolutamente non facile.
Ritornando dunque ai dolmen, ne ipotizzo la loro funzione di un particolare confine. Laddove c’è un dolmen, lì c’è una comunità identificata. Il territorio è posseduto, abitato, conosciuto. Il dolmen è il CENTRO, irremovibile, attaccato agli inferi, che si mostra in terra ed ha per tetto il cielo. Il territorio è così marcato, anche se non esattamente definito da termini o precisi confini naturali.
Manifesta la capacità di compiere azioni importanti e collettive, di essere coesi e di riconoscersi, di rivendicare e difendere. Identifica un riferimento, lo spazio sacro per i riti, a partire da quelli della fertilità, a cui secondo alcuni autori il dolmen è associato.
Mi pare che questa visione possa ben inquadrarsi nella funzione che alcune costruzioni assumono nel processo, per me ancora in atto, di mettere ordine nel territorio, nello spazio in cui l’uomo vive. Di cosmizzare in altre parole l’ambiente, uscire dal caos, dal disordine e mettere ordine.
L’altra categoria che necessita di ordine è il tempo. E qualora ci sia ordine, riferimento, iterazione e misura, l’uomo è rassicurato.
Ebbene non ho esitazione ad assegnare anche ai nuraghi questa funzione di cosmizzazione dello spazio e del tempo. Questa visione ha contrassegnato tutta la mia ricerca sulla preistoria sarda.
Nel capitolo sui nuraghi (dal caos al cosmo) reintroduco il concetto di confine, molto pertinente per capire il ricorso alla loro realizzazione ed edificazione e per assegnarlo alla sfera del sacro.
Stabilire un confine significa per me non solo fondare e delimitare uno spazio, non è dunque mera questione geografica.
E’ la storia, è la cultura e la civiltà che si sono sviluppate in quel determinato territorio. E’ la dichiarazione che quel territorio è qualcosa di diverso da cui si proviene ed esprime identità.
Nulla meglio della pietra, della pesantissima ed irremovibile pietra, può esprimere la comunità, l’identità, i legami col passato e col futuro.
“La conferma dello spazio assume quindi un ruolo molto importante all’interno di una comunità e il sapere dove si trovano i suoi confini diventa uno degli elementi che può determinare l’appartenenza o meno e in alcuni casi, anche il tipo di appartenenza alla stessa. Le iniziazioni - continua Pietro Zannini, autore de “I significati del confine”- sono spesso legate a soggiorni marginali, all’allontanamento dal centro o dal gruppo per un dato periodo di tempo, anche oltre i limiti della comunità.”
Il nuraghe è il marcatore del confine, nell’accezione che ho cercato di definire con l’aiuto di Zannini. Non è solo elemento tettonico, ha i requisiti della durabilità temporale che la pietra esprime, ha le radici anche sotto il terreno, in cui la pietra è incastonata e sopra “confina” col cielo e lo ingloba. Non potrebbe avere un tetto, perché si creerebbe una frontiera! La terra non può avere sopra di sé un tetto. Il nuraghe ha il tetto aperto (pietra apicale removibile: dalla chiave della cupola passa l’axis mundi, entra il raggio solare…)
Questa notazione è ricca di inferenze, proprio sul piano-simbolico cosmologico che il nuraghe a mio avviso possiede.
Senza un potente marcatore dello spazio e del tempo, lo spazio si presenterebbe vuoto, terrificante, caotico. Il centro è condizione, ma spesso non sufficiente. Ho necessità di una linea, di linee di
espansione, per togliere possibile confusione. Credo che l’allineamento dei nuraghi in un territorio risponda alla necessità di “incidere” il suolo, di “solcarlo” secondo una geometria, che è tale se è riferita ad un ordine magistrale, ripetibile, certo, come quello che l’astronomia può offrire.
L’ordine celeste è materializzato nel concetto di confine.
Così in cielo, così in terra.
Da qui la mia incondizionata affezione all’archeoastronomia, scienza che aiuta a districarmi e dare finalità alla funzione dei nuraghi. Aggiungo che il periodo nuragico coincide con l’uscita dal neolitico e quindi con il grande cambio di paradigma dovuto all’osservazione scientifica di cui l’astronomia era portatrice. L’astronomia è dunque in relazione con le due grandi categorie, spazio e tempo, che devono essere comprese e possedute.
L’impianto ordinato, geometrico, è capace di generare corollari rassicuranti e precisi, ierofanici, con eventi, allineamenti, congiunzioni che si iterano ed inverano con scadenze certe e prevedibili.
Metronomo che segnala lo scorrere del tempo, lo misura ed indica l’inizio e la fine delle attività vitali di comunità ormai stanziali.
Ho usato l’aggettivo ierofanico per indicare, forse suggestivamente, l’apparizione del divino. Per cominciare a capire il nuraghe è necessario fermarsi per qualche ora all’interno. Dalla finestrella sopra l’ingresso entra la luce solare che staglia la testa taurina della forma della finestrella sulla parete buia della camera e lentamente descrive il percorso del sole. Si intuisce come questo possa variare a seconda dell’ora e della stagione. Sole e toro come forme della divinità. Lo scorrere del tempo si materializza nel nuraghe. L’eterno ritorno che trova fondamento e conferma annuale, precisa, certa, ineludibile.
E’ solo suggestione?
Ne aggiungo una seconda. Quando entro in un nuovo nuraghe, non ho mai troppe sorprese. L’impianto è lo stesso, ovviamente ci sono varianti, ma ogni nuraghe è profondamente simile anche se diverso per particolari, materiali, luogo in cui si erige.
Eppure è riconoscibile, familiare. Io penso che sia così perché la stessa Sardegna è confine, strutturata su una sommatoria di confini simili, dove le inevitabili differenze, dettate dal genius loci, epoca, dai diversi costruttori e materiali, si annullano.
Venezia, 21 gennaio 2013
mercoledì 5 dicembre 2012
Le torri di Atlantide
di Mauro Peppino Zedda
Fabrizio Frongia ne Le Torri di Atlantide cerca di spiegare le pulsioni sociali che hanno agito in parallelo alle ricerche storico-archeologiche degli ultimi 170 anni, il libro rappresenta uno sviluppo della sua tesi di laurea. Il testo è articolato in 4 parti (Nazioni preistoriche; Del desiderio del presente, dell’invenzione del passato: Miti, falsi e falsi miti «made in Sardinia»; Sardegna e Atlantide: genesi e diffusione di un “mito”contemporaneo; Un’altra storia è possibile).
Frongia prende in esame una serie di vicende. Il caso delle false carte d’arborea e dei falsi bronzetti, verificatosi nell’Ottocento, la glorificazione da parte del Taramelli del mito del sardo guerriero, la costante resistenziale di Lilliu, la tesi Atlantidea di Sergio Frau. E mette in un unico calderone le proposte di Sanna, Pittau, Zedda, Melis, Aresu, Polaschi-Murtas.
L’autore pensa di aver trovato nel desiderio di costruire una gloriosa immagine dell’Isola, il fil rouge che accomuna l’insieme dei fenomeni che descrive.
Ritengo che il suo teorema sia viziato da un’acerba superficialità di ricerca e da una perniciosa tendenziosità di analisi. Presumo che Frongia si sia lasciato condizionare dai suoi relatori, che l’hanno mandato allo sbaraglio facendogli pubblicare un testo palesemente incompleto, fuorviante e tendenzioso. Mi domando perché il tandem Cossu-Angioni non gli abbia segnalato la lettura di una serie di opere che avrebbero agevolato una analisi più ponderata. Chi decide di affrontare un tema come quello di Frongia non dovrebbe esimersi dal fare riferimento agli studi di Bruce Trigger (Storia del pensiero archeologico, 1996) o a quelli di Marvin Harris (l’evoluzione del pensiero antropologico, 1971), opere fondamentali per capire come una scuola archeologica o antropologica subisca i condizionamenti della società.
Penso che il fil rouge teorizzato da Frongia, trova un denominatore comune solo con le tesi di Taramelli, Lilliu, Frau e Melis.
Mi pare che tra le tesi di Taramelli, Lilliu e Melis che decantano le doti guerresche degli antichi sardi e gli autori dei falsi bronzetti o delle false carte di Arborea vi siano profonde differenze. D’altro canto penso che Frongia abbia preso un grosso abbaglio nel ritenere che le tesi di Pittau, Sanna, Zedda, Aresu, Murtas-Polaschi, siano tese a glorificare il passato dell’Isola.
En passant, mi pare opportuno sottolineare che la questione delle false Carte d’Arborea e dei falsi bronzetti non è questione da assimilare agli altri casi e su questo bisognerebbe capire se Fabrizio Frongia non sia incorso in diffamazione. Accostare le tesi di gente perbene alle azioni delinquenziali di banditi, quali furono gli autori dei falsi ottocenteschi, mi pare una sciocchezza.
Nutro il dubbio che il povero Fabrizio Frongia sia stato mandato allo sbaraglio dai suoi relatori, notoriamente a caccia di fantasmi. Giulio Angioni a forza di scrivere romanzi confonde la realtà con le sue mirabolanti fantasie (cfr Giulio Angioni e il Cialtrone in questo blog).
Andiamo a scandagliare i casi che Frongia ha maldestramente accorpato nel suo teorema.
Riguardo al fatto che Taramelli tendesse a esaltasse i sardi (del passato e del presente) come una formidabile schiatta di guerrieri, concordo con Frongia, ma sarebbe meglio dire che Frongia concorda con me! Il concetto espresso da Frongia penso di averlo ben enucleato nel libro Archeologia del Paesaggio Nuragico (2009), sviluppando un’idea avanzata da Laner (Accabbadora 1999). Ma piuttosto che pensare ad un maldestro Fabrizio Frongia che copia, preferisco l’opzione di un Frongia superficiale, che non legge neppure i testi degli autori che troppo superficialmente inserisce nel suo strampalato teorema. Nel citare il Taramelli esaltatore dello spirito guerriero dei sardi Frongia cita Stiglitz 2011 e Cossu 2011, ma non doveva dimenticarsi di Laner 1999 e Zedda 2009. Specifico che con questo voglio solo mettere in luce che lo studente di Angioni e Cossu avrebbe dovuto studiare un pò di più!
Frongia è fortemente critico verso la cosiddetta Costante Resistenziale teorizzata dal Lilliu, ma anche in questo caso piuttosto che essere io a concordare con Frongia, sarebbe dovuto essere stato lui a concordare con me (cfr Zedda 2009), mentre Frongia si appoggia a Cossu 2011 e Madau 2010.
Che le tesi di Taramelli e Lilliu abbiano prodotto nefaste conseguenze è palese, ma mentre possiamo dire che quanto ha fatto Taramelli era quasi inevitabile (cfr Trigger per capire cosa animava le archeologie d’Europa sul finire dell’Ottocento e nel primo novecento), quanto proposto da Lilliu era evitabile, la costante resistenziale è una strampalata idea imposta da un Sardus Pater, se al posto di Lilliu ci fosse stato un altro la storia sarebbe andata diversamente.
Concordo con Frongia nell’analisi delle tesi avanzate da Frau e Melis.
Aresu è un rabdomante convinto che i monumenti nuragici siano collocati in particolari punti energetici, mentre il duo Murtas&Polaschi è convinto che la Sardegna preistorica era popolata da giganti. Ma non credo affatto che Aresu e Murtas&Polaschi le loro indimostrate e indimostrabili suggestioni le abbiano scritte al fine di glorificare il passato dell’Isola.
Per quanto riguarda le tesi di Gigi Sanna o per meglio dire di Gigi Sanna e Gianni Atzori, penso che spetti ai paleoepigrafisti entrare nel merito della proposta. Ma mi pare fuorviante, irrispettoso e sciocco sostenere che la tesi che i nuragici scrivevano sia animata dal desiderio dei proponenti (a Sanna si è affiancata la biofisica Aba Losi) di glorificare il passato dell’Isola. A coloro che sorridono per il fatto che in soccorso a Sanna invece che un paleoepigrafista sia arrivata una biofisica dell’Università di Parma con la passione e per scritture antiche, ricordo che Ventris era un ingegnere!
Frongia inserisce anche l’Emerito Massimo Pittau tra coloro che coi loro scritti operano per glorificare il passato dell’Isola, quella di Frongia mi pare una commedia dell’assurdo!
Massimo Pittau nel bellissimo libro Sardegna Nuragica (1977), confuta per filo e per segno la tesi taramel-lilliana del nuraghe fortezza, Frongia doveva essere ubriaco (assieme ai suoi relatori) quando ha deciso di inserire Massimo Pittau nella lista di coloro che coi loro scritti operano con l’intento di glorificare il passato dell’Isola. L’opera di Pittau rappresenta la brillante confutazione della teoria del nuraghe fortezza.
E ora a Zedda, leggiamo una frase di Frongia (pag 145): “Sempre caldo e imprescindibilmente legato a questo, è il tema del primato culturale ed etnico, per cui i Nuragici non sarebbero secondi a nessuno, in campo artistico e metallurgico, grazie ai bronzetti, nell’architettura ovviamente, ma anche in altre espressioni culturali fino ad ora costantemente negate dall’archeologia, Lilliu compreso, come la scrittura e l’astronomia, in cui i Nuragici sarebbero stati provetti. Vi sono poi delle teorie ancora più ingenue..”. Frongia considera le mie tesi (e quelle di Sanna) come ingenue, meno ingenue di altre ma pur sempre ingenue!
Osservare Frongia che accosta i miei studi archeoastronomici (faccio notare che la Società Italiana di archeoastronomia , di cui faccio parte, si è associata all’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria) a quelli di Aresu e Polaschi-Murtas, la ritengo una palese stoltezza da parte di Frongia, che, nella sua vacua conoscenza delle pubblicazioni archeologiche degli ultimi vent’anni, fa di tutta un’erba un fascio, confondendo i fischi per fiaschi e i fiaschi per fischi.
Nel valutare le mie proposte Fabrizio Frangia ha dimostrato un pressappochismo all’ennesima potenza. Quando ha deciso di inserirmi come caso esemplare per il suo teorema avrebbe dovuto leggersi tutte le mie pubblicazioni (monografie e articoli pubblicati in prestigiose riviste scientifiche). Frongia cita I nuraghi tra archeologia e astronomia (2004) e nel citarlo palesa una perniciosa incapacità a comprendere la mia proposta. Si vede che deve essere molto ignorante in geometria come il resto degli archeologi sardi!
Fabrizio Frongia ha preso un abbaglio enorme quando sostiene che i miei studi siano ingenui e figli del desiderio di glorificare il passato dell’Isola.
Più ci penso più mi convinco che il povero Fabrizio Frongia sia stato mandato allo sbaraglio dai suoi relatori. Inviterei Fabrizio Frongia a ragionare con la sua testa, e magari andare a leggersi cosa ne pensano dei miei studi i maggiori studiosi di archeoastronomia accademici del mondo, invece di ascoltare le stonate sirene dei provinciali archeologi di Cagliari e Sassari.
All’autore comunque il merito di aver consegnato al pubblico una ricerca che spero sarà foriera di sviluppi e approfondimenti finalizzati a cercare di comprendere quanto successo nel variegato mondo dell’archeologia sarda negli ultimi 20 anni.
Penso che un fil rouge targato “incompetenza” leghi tra loro gli studiosi accademici della Cagliari ottocentesca che si fecero ingannare dai falsari, con gli accademici sardi dell’epoca attuale, nell’Ottocento non seppero comprendere che si trattava di falsi e vennero studiosi (benvenuti) da altri lidi a spiegarglielo, così come gli archeologi sardi attuali non hanno ancora capito che il significato astronomico dei nuraghi è un dato di fatto, decretato dai maggiori studiosi accademici di archeoastronomia.
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