venerdì 10 luglio 2015

Perché i cosiddetti modelli di nuraghe sono in realtà "segni" cosmologici


di Franco Laner





1 Rappresentazioni cosmologiche (imago mundi ) Se fossero state rinvenute in Sardegna, anziché in Africa, sarebbero considerate modellini di nuraghi quadrilobati

Molti sono i cosiddetti modelli di nuraghe, sia di bronzo, di pochi centimetri, sia di pietra, di alcuni decimetri, esibiti nei musei sardi e documentati in tantissime pubblicazioni. Il libro di F. Campus e V. Leonelli “Simbolo di un simbolo” li contiene tutti.
Gli archeologi ravvisano due tipi di modelli di nuraghe: quelli monotorre e quelli quadrilobi.
Mi pare che “modello” sia inequivocabilmente da intendersi come riproduzione in scala dei nuraghi.
Modello dunque come sinonimo di “plastico” o di “maquette”.
Ciò premesso mi chiedo intanto: “Perché fare un modello di una fortezza, o di una reggia fortificata? Potrei al massimo fare un modellino di un tempio, anche se questa è una categoria moderna: i miei portarono da Roma dal viaggio di nozze un modello di S. Pietro”.
Comunque accetto che si faccia un modello di un edificio sacro, più difficile, anzi impossibile, pensare ad un modello di un luogo profano.
Chi si è reso subito conto di questa contraddizione è stato l’archeologo G. Ugas, sostenendo la trasformazione del nuraghe-fortezza in nuraghe-tempio avvenuta tra la fine del X e IX secolo (pag. 28, libro sopraccitato). Così facendo non nega la funzione militare del nuraghe e giustifica la dizione “modello di nuraghe”
Supero questa banale domanda e vediamo come viene giustificata la definizione di modello di nuraghe:
a) per la somiglianza morfermica fra il reperto ed il nuraghe quadrilobo o monotorre
b) l’ha detto Lilliu (ipse dixit)
c) le perplessità sono poste da dilettanti, outsider, non archeologi. Pertanto si delegittima la persona e quindi la teoria sostenuta.
d) anche costruttivamente il modello è realizzabile al vero

a) La somiglianza è molto tirata. L’invito per cogliere l’assonanza è di astrazione e non fermarsi alle proporzioni e nemmeno ai particolari. Ma un modello è tale perché riproduce, pur con le semplificazioni dovute alla scala, proprio la materialità dell’oggetto riprodotto. Da questo punto di vista il modello di nuraghe di Ittireddu o di Olmedo riproducono proporzioni e particolari assai distanti dai nuraghi. Si osservi lo schizzo che identifica i particolari apicali di vari oggetti con le sommità dei nuraghi.



2. Sommità apicali di modelli di nuraghe di varia foggia


b) Ipse dixit. Difficile sottrarsi e criticare ciò che G. Lilliu ha detto e scritto. Sulle ragioni di tale sudditanza culturale e accademica non mi voglio fermare, perché accettare questa critica, significherebbe buttare a mare non una teoria, che ha nella visione feudale e militarista della civiltà nuragica la sua stessa filosofia, ragione e ideologia, ma significherebbe rigettare la teoria, ovvero un secolo di archeologia isolana.
c) In questi ultimi anni si è intensificata la lotta ad ogni tipo di studio che non sia legittimato dall’archeologia sarda. Studi che si inseriscono in armonia con l’archeologia ufficiale mondiale, come quelli che afferiscono all’archeoastronomia, alla storia delle costruzioni, all’epigrafia, alla navigazione, alla religione, alla psicogenesi dell’arte, ecc. sono state sistematicamente ignorati nell’ultimo ventennio. Ora vengono messi alla berlina gli studiosi che si sono posti criticamente di fronte ad affermazioni risibili e vengono combattuti sul piano personale, denigrati e gratuitamente vilipesi. Vigliaccamente perché gli attacchi sono anonimi e mai entrano nel merito delle questioni (“Prima ti ignorin, poi ti ridin, poi ti combatin, poi tu vincis”).
d) Nonostante tentativi di giustificare sbalzi e forme costruttivamente irrealizzabili –non dimentichiamoci che i nuraghi sono costruiti a secco e qualsiasi sbalzo, a meno di mensole di pietra e legno che in pratica possono portare solo sé stessi, ipotizzare muri in aggetto è possibile solo sulla carta, non nella realtà. In altre parole gli aggetti delle torri dobbiamo scordarceli.

Capisco la sinteticità dell’analisi e le tante domande possibili. Su molte ho già scritto in “Sa ‘ena” e il prof Pittau ha scritto nella sua condivisibile memoria “Ballatoi e modelli di nuraghi mai esistiti”. Veniamo allora all’ovvia domanda: “Se non sono modelli di nuraghe, cosa sono?”
Anche qui non posso scrivere un trattato. Mi limito a sintetizzare i risultati dei lavori di molti antropologi, etnologi, storici delle religioni, anche archeologi, che hanno documentato come la figura, in pianta ed in alzato, ricorrenti nell’iconografia di antiche civiltà orientali e africane, mediterranee e nordiche, i quattro pilastri ai vertici del quadrato (4 punti cardinali, 4 pilastri che sorreggono la volta celeste, l’axis mundi, ecc.), con il pilastro centrale altro non è che una rappresentazione cosmologica. E’ un “Imago mundi”.
Come tali ospitano la divinità.
Una raccolta di immagini e realizzazioni è contenuta nel 4° capitolo del mio libro citato. Valga per tutte l’osservazione che nel Convegno di Archeologia tenutosi in Sardegna nel 1926, l’etnologo tedesco Leo Frobenius paragonava il bronzetto di Ittireddu alle numerosissime rappresentazioni cosmologiche africane e lo stesso Taramelli nella didascalia del bronzetto lo definisce modello di tempio.
In conclusione credo che la questione dei cosiddetti “Modelli di nuraghe” debba essere rivista perché difendere posizioni acritiche significa screditare la disciplina archeologica e sostenere l’esclusione della Sardegna dal contesto mondiale.





3. Tipologie di nuraghe di cui non sono stati fin’ora trovati modelli


Prima di concludere desidero ancora osservare che ci sono ancora in piedi nuraghi bilobati, trilobati ed anche polilobati. Se saranno rinvenuti modelli di nuraghe di qualcuna delle tipologie schizzate mi ricrederò sull’ipotesi che i modelli di nuraghe non siano tali!
E poi alla fine mi chiedo: che male ci sarebbe se il cosiddetto modello di nuraghe fosse descritto come modello cosmologico e rientrare nel circuito mondiale di tale definizione?

martedì 5 maggio 2015

La Dea bipenne

di Fabrizio Sarigu

Nel libro “La Dea Bipenne” Donatello Orgiu ci conduce per mano nel mondo del simbolismo arcaico, fornendo le coordinate per poterci districare entro il complessissimo immaginario simbolico di quelle antiche genti, spaziando dal simbolismo neolitico europeo alle culture prenuragiche, nuragiche e fino all’età del ferro, nella nostra isola.
L’opera quindi, analizzando compiutamente questo così vario universo simbolico, individua nel tempo ciclico, scandito dai ritmi lunari/astrali e dal ciclo della vita, quel dinamico processo che inesorabilmente ispirò l’uomo all’elaborazione di questa complessa simbologia. Tale servì ad un tempo a descrivere il mondo che lo circondava, a comprenderlo e non ultimo a fornire in qualche modo l’illusione di poterlo gestire e controllare. La diffusione e la capillarità con la quale avvenne, potendola riscontrare in tutta Europa e come detto immancabilmente in Sardegna, rendono conto dell’importanza che ebbe nello sviluppo del pensiero umano.
Dall’analisi emerge una sorta di “alfabeto della metafisica”, molto più antico dei primi tentativi di scrittura sumerici, costituito dai simboli che adornavano gli oggetti di culto di quelle epoche (e anche posteriori). Tali simboli, grazie alla perizia dell’artigiano, decoravano l’opera non con mere funzioni ornamentali ma dovevano infondere prestigio e pregnanza religiosa alla stessa, la qual cosa avrebbe potuto ottenersi solo se il simbolo usato avesse avuto esso stesso un profondo significato e una relazione precisa con la sacralità e quindi con la divinità cui era dedicato.
Apparirà quindi chiaro il significato ad esempio della doppia spirale, della dea dalla forma di croce, delle protomi, dei segni geometrici che adornano vasi e sculture e più in generale di tutte quelle simbologie che ritroviamo sovente nei reperti e che ci lasciano scoraggiati e interdetti, convinti che il loro significato sia ormai andato perduto per sempre, quando invece le risposte sono a portata di libro.
Il panorama archeologico e culturale sardo aveva proprio bisogno di un’opera capace, in maniera molto concisa e diretta, di dare risposta a quelle domande che fino ad oggi parevano essere senza soluzione. Quasi una bussola quindi che, laddove ci si senta sperduti, giunge in soccorso guidandoci e fornendo un’immancabile occasione per comprendere meglio il nostro passato.

sabato 18 aprile 2015

Il nome etrusco dell'acqua


di Giovanni Feo

Quando diversi ricercatori giungono ad una medesima proposta, in seguito a differenti percorsi di ricerca, diventa forte la possibilità che quella proposta abbia colto nel segno.
È questo il caso di un’importante radice etimologica etrusca, UR, tradotta in modo identico da diversi autori, ciascuno seguendo una propria personale via di decifrazione.
Il primo è il linguista ed etruscologo Zacharie Mayani, il cui lavoro è stato esageratamente contestato per alcune sue erronee interpretazioni (ma chi non sbaglia mai?), mentre non sono state accolte le sue tante e positive decifrazioni di molti testi etruschi.
In un suo libro (The Etruscan begin to speak, 1961, pag. 227), Mayani spiega come sia giunto, grazie alla comparazione con l’antico “illirico”, a stabilire che il radicale etrusco UR abbia significato di “acqua”. A tale proposito l’autore cita il caso della dea etrusca Uthur, a Roma chiamata Giuturna, dea delle fonti e delle acque.
A medesimi risultati è giunto l’insigne filologo Giovanni Semerano che, nel suo libro “Il popolo che sconfisse la morte”, alla voce “Orcia” (pag. 85) scrive che l’etrusco URCH ha il significato di “acqua”. Semerano, per le sue decifrazioni utilizzava particolarmente la comparazione con l’accadico, il sumero e le lingue semitiche.
Un valente linguista sardo, Massimo Pittau, è giunto ad analoghe conclusioni (vedi www.pittau.it), pubblicando un testo dal significativo titolo: “etruschi, urina, uri, vri – svizzero e sardo Uri – basco UR”.
Pittau mette in risalto alcuni nessi filologici ed etimologici tra diverse lingue – etrusco, basco, sardo, svizzero – così da scrivere: “Di questa quadruplice convergenza linguistica a me sembra che l’unica spiegazione sia questa: la base UR, “acqua”, è ascrivibile al sostrato linguistico mediterraneo…”
A quanto sostenuto dagli studiosi fin qui citati, posso infine aggiungere il nome dell’etrusca dea della “fortuna”, venerata al Fanum Voltumnae di Volsinii e chiamata in età etrusca-romana Northia; alla dea risaliva la bolsanese gens Nursina (vedi La dea di Bolsena, ed Effigi, 2014).
Il nome Northia deve derivare da un termine più antico, in quanto nella scrittura etrusca non è presente la vocale O. la parola originaria sarebbe quindi URTHIA, presente nelle varianti Ursia e Urcla, da cui le città etrusche di Norcia, Norchia, Vitorchiano e il fiume Orcia (come già evidenziato da Semerano). La dea della Fortuna, nel mondo etrusco e romano (e non solo) ebbe quale suo elemento primario l’acqua. La dea fu raffigurata anche come sirena bicaudata e i suoi simboli furono il timone e la vela, strumenti con i quali poteva salvare i naviganti dai pericoli dei “fortunali", le insidiose tempeste del mare.

venerdì 27 marzo 2015

Religione e Spiritualità nella Sardegna Nuragica


di Fabrizio Sarigu

Il libro Religione e Spiritualità della Sardegna Nuragica (2014) di Alessandro Mannoni, prima opera dell’autore formatosi in filosofia e storia delle religioni, si prefigge l’obbiettivo della ricostruzione della fenomenologia del sacro in Sardegna nel periodo tra il II millennio a.C e il I millennio a.C , che vede, secondo gli inquadramenti cronologici più accreditati, l’estrinsecarsi della principale civiltà autoctona dell’isola, la civiltà nuragica.
Gli studi condotti in ambito accademico sulla civiltà Nuragica non sono a ogni buon conto giunti a formulare in maniera compiuta una “storia della religione protosarda” , nonostante i dati paleoetnologici, archeologici e filologici fin qui acquisiti. In effetti è possibile menzionare il pionieristico lavoro di Raffaele Pettazzoni, fra i più eminenti storici delle religioni degli inizi del ‘900, che per primo si cimentò nell’impresa di delineare una preliminare organizzazione e interpretazione, nell’ottica della fenomenologia del sacro, del materiale archeologico fin li riscoperto. Dopo questo primo ammirevole tentativo, ancorché da contestualizzarsi nei limiti scientifici e nei pregiudizi evoluzionistici tipici delle teorie antropologiche dell’epoca, il mondo accademico sembra aver trascurato la necessità di analizzare in modo più approfondito le forme della religiosità arcaica sarda accontentandosi di una comprensione sommaria e pressapochista, accostandosi ad essa con una certa superficialità e frettolosità. Infatti non si riscontrano altri specialisti in storia delle religioni che si siano accostati al problema e l’ambiente archeologico sardo continua a palesare dei limiti di formazione (e quindi preparazione)consistenti, accanendosi nello snobbare, entro i curricula universitari previsti per gli archeologi, la creazione di almeno un corso di storia delle religioni o di fenomenologia del sacro. Questo affinché gli specialisti del settore siano preparati a riconoscere i segni della spiritualità nei segni materiali che i nostri antenati ci hanno lasciato, sulla cui analisi si concentra piuttosto tutta la loro professionalità (fortunatamente alcuni avvertono la lacuna colmandola autonomamente). Invero alcuni autori come Zervos e Lilliu si sono cimentati in queste problematiche all’interno però di un discorso descrittivo più ampio inerente l’esposizione della civiltà sarda nel suo complesso, limitandosi quindi a qualche capitolo, quantunque in alcuni casi non manchino interessanti intuizioni. Pare quindi riscontrare uno strano vuoto conoscitivo e di settore di interesse che lascia straniti e confusi, potendo cogliere quanto sia fondamentale la comprensione della spiritualità di un popolo per la ricostruzione storica e archeologica dello stesso.
Questa sorta di silenzio è stato così colmato da studiosi di altre discipline, architetti, archeoastronomi, antropologi, linguisti, psicologi che, sensibili al fascino di questo argomento e attraverso la ricchezza di un approccio multidisciplinare, hanno cercato di apportare contributi di crescita e di innovazione alla ricostruzione del sacro arcaico sardo.
L’autore può dunque essere inserito entro questo filone di ricerca, non prettamente accademica, ma che è stata capace comunque di apportare contributi estremamente interessanti alla comprensione di questo fenomeno, contributi di cui anche il mondo accademico, timidamente, inizia ad interessarsi. L’argomentazione di Mannoni muove a partire dalla constatazione, condivisa anche da altri autori, che la civiltà nuragica debba essere meglio divisa in due macroperiodi, il cui momento di discontinuità si individua nel passaggio a cavallo tra i secoli del bronzo finale e dell’età del ferro. In questa fase vi sarebbe stata una vera e propria rivoluzione religiosa che segnò il passaggio da una religiosità aniconica e tendente all’astratto verso una palesemente iconica tipica delle civiltà affacciantisi nel mediterraneo dell’epoca. A partire da ciò, l’opera si articola in due parti, ciascuna delle quali cerca di analizzare le specificità, nelle manifestazioni del sacro, delle suddette fasi storiche. Così, la prima fase, che interessa la maggior parte del II millenio e che potrebbe dirsi propriamente nuragica, appare fondata su una visione aniconica e astratta del sacro, tipica del megalitismo occidentale, centrata su un culto cosmico/astrale legato alla struttura dello spazio e del tempo e delle relazioni fra essi, attraverso un processo quasi ossessivo di cosmizzazione del territorio (che automaticamente ne ottiene l’antropizzazione). Tale cosmizzazione concretamente fu ottenuta mediante la riproduzione di un modello geometrico astratto quale icona cosmica ideale, il nuraghe come “montagna sacra”, che avvicinando “il cielo in terra” consente all’uomo arcaico di sentirsi partecipe in maniera totalizzante del creato. Per contro la fase seguente, come precisato collocabile temporalmente nell’età del ferro in cui crebbero i contatti con l’oriente, si caratterizza per un costante ma inarrestabile passaggio verso un’ antropomorfizzazione della divinità. Cade il tabù della rappresentazione della divinità, l’iconicismo si fa imperante e viene a delinearsi un pantheon più simile alla moda orientale, quindi ora necessariamente più ricco di relative specializzazioni in termini di culti e riti e con una divisione ormai netta e marcata fra sacro e profano.
Proprio nella difficoltà di riconoscere la forma di una spiritualità aniconica nei segni materiali e nell’evoluzione dello spirito arcaico verso l’iconicismo dei vecchi luoghi di culto nell’età del ferro, con l’effetto di indurre in errore l’accademia giacché gli stessi segni materiali si fanno ora invece più facilmente riconoscibili, risiede l’equivoco di non aver potuto riconoscere nel nuraghe il valore cultuale che ebbero fin ab origo, violentando la spiritualità di una civiltà e rendendola irriconoscibile nascosta dentro un “nuraghe fortezza”.
L’opera, qui necessariamente semplificata e si rimanda ad una approfondita lettura al fine di poter cogliere le compiute argomentazioni proposte, si presenta con un linguaggio preciso, tecnico ma comunque di facile lettura, che accompagna il lettore in un viaggio all’interno della spiritualità dell’arcaico sardo, restituendo, finalmente ad una civiltà così importante, anche la dignità religiosa e spirituale che il paradigma tamarel-lilliano del nuraghe fortezza ha inevitabilmente mistificato e confuso. Tuttavia allo stesso tempo a parere di chi scrive l’opera non presenta ancora quelle caratteristiche di compiutezza di cui si auspica l’arrivo all’interno della ricerca del sacro arcaico sardo. Si tratta di un ulteriore passo avanti, ma si sente la mancanza entro l’opera di un dialogo e un confronto fra le idee precedenti, con spirito critico e analitico, che oltre a riportare la propria visione del problema giunga a delineare un quadro d’insieme di tutte le proposte, anche precedenti temporalmente, dell’arcaico sacro, restituendone una cornice unitaria della storia della religione protosarda.

venerdì 6 febbraio 2015

Rubens D'oriano e l'archeosardismo


di Mauro Peppino Zedda

L’archeologo Rubens d’Oriano, è sceso in prima linea per combattere il fenomeno del fantarcheosardismo (il neologismo è suo) pubblicando un articolo “Le statue di Monte Prama e il fantarcheosardismo” nel libro Le sculture di Monte Prama a cura di M. Minoia e A. Usai, Roma 2014.
Il contributo di Rubens è totalmente slegato dal contenuto scientifico del testo e mi chiedo perché gli archeologi Alessandro Usai e Marco Minoia abbiano acconsentito ad inserire in quel libro, un contributo che tende a confondere e a mistificare la realtà delle vicende scientifiche, culturali e archeologiche che hanno caratterizzato l’ultimo venticinquennio del panorama archeologico della Sardegna.
D’Oriano dà l’idea di essere un dilettante allo sbaraglio,che non ha compreso né i contorni né i veri protagonisti del fenomeno che lui definisce archeosardismo.
D’Oriano assomiglia a colui che vede il gregge in fuga piuttosto che a quello che individua le cause della fuga (voglia di nuovi pascoli e individuazione del varco). Il suo scritto (definirlo saggio è un'offesa alla saggezza) rappresenta un clamoroso passo indietro rispetto al Le Torri di Atlandide di F. Frongia (a cui ho dedicato una critica in questo blog), che seppur caratterizzato da tanti difetti (ha completamente travisato i contenuti dei miei studi di archeoastronomia, spero in buona fede) rappresenta un interessante lavoro.
Ma torniamo a D’Oriano, che inizia col dire che i sardi attuali si sentono discendenti dei soli nuragici, a me pare che D’Oriano enfatizzi un fenomeno irrisorio, penso, infatti, che i sardi siano coscienti di essere il frutto di tutte le genti che in Sardegna sono arrivate, come insegna Grazia Deledda. Ma anche ammettendo che D’Oriano avesse ragione, certamente le cause non sono da ricercarsi nei fantarcheologi alla Leonardo Melis . La quasi totalità dei lettori di Leonardo, ben sa che i suoi libri sono di fantasia. Se vi son Sardi convinti di essere discendenti dei soli nuragici le colpe bisognerebbe attribuirle a Giovanni Lilliu invece che ai fanta! È Lilliu che ha scritto che i pastori della Barbagia sono i discendendi diretti dei nuragici. Sarebbe stato giusto che D’Oriano avesse dato a Cesar-Lilliu ciò che è di Cesar-Lilliu.
D’Oriano è maldestro anche nell’osservare, valutare e comprendere il fenomeno che vedrebbe i sardi attuali come degli indemoniati sostenitori dell’idea che i loro progenitori nuragici-shardana-atlantidei dominassero il mediterraneo e pure l’intero Pianeta! Forse D’Oriano non capisce che se qualcuno dice queste cose lo fa per ridere, e se qualcuno lo dice seriamente gli altri ridono di lui. Ma al di là della sopravalutazione di un fenomeno irrisorio è assolutamente scandaloso e inaccettabile scientificamente il modo in D’Oriano mistifica le cause di questo fenomeno. Le attribuisce a Melis e compagnia tralasciando di dire che è Lilliu il responsabile di aver sentenziato in modo aprioristico l’equazione Nuragici=Shardana (invece di confrontarsi con le ipotesi della Sandars 1978), dimentica di dire che un altro accademico, Giovanni Ugas, sostiene quell’equivalenza (argomentando). En passant mi piace dire che Giovanni Ugas è un Signore con la ESSE maiuscola, nell’esame che ho sostenuto con lui, la discussione è finita sugli shardana e dopo avergli illustrato le sue tesi, aggiunsi che mi parevano più verosimili le tesi contrarie, cioè l’arrivo degli shardana in Sardegna nel XIII sec. A.C., la mia posizione critica verso la sua tesi non impedì a Giovanni di mettermi 30 e Lode).
Rubens d’Oriano appare come un servo “sciocco” quando analizza la questione Sardegna = Atlantide conseguente alla pubblicazione Sergio Frau, già redattore della pagina culturale della Repubblica, ovvero si dimentica di dire che a presentare il libro di Sergio Frau ci sono andati molti archeologi sardi con Giovanni Lilliu in prima fila. In altra occasione in un convegno alla Università di Cagliari cui partecipavano Fantar, Bernardini e Lilliu (nel 2004), uno studente universitario chiese a Lilliu cosa ne pensava delle tesi di Frau e dell’equazione Sardegna=Atlandide, Lilliu rispose che la questione avrebbe fatto bene alla Sardegna. E nessuno degli archeologi presenti disse nulla, che conigli!
Mi piace pure specificare che chi scrive è uno dei 238 studiosi che hanno firmato un documento in cui si metteva in chiaro che i sottoscrittori non condividevano le tesi di Sergio Frau. Sergio Frau fu bravo ad etichettare quel documento come una sorta di scomunica, credo per incapacità di Alessandro Usai a gestire la questione e di andare a criticare il suo maestro.
Ricordo pure con “tenerezza” la chiusura della campagna elettorale di Renato Soru nella aula magna dell’università di Cagliari, a suo sostegno tiscalimen nonché attuale leader in Sardegna del PD e il suo assessore alla Cultura, archeologa Maria Antonietta Mongiu, chiamarono a parlare Giovanni Lilliu e Sergio Frau!
Rubens d’Oriano, sei un uomo o un caporale? Prenditela coi padroni del vapore e non coi frilli!
Nel suo scritto Rubens d’Oriano cita pure lo storico della scienza Thomas Khun (mia autentica passione) e dimostra di travisare e non capire neppure lui! Se gradisce ne possiamo discutere nei commenti.
In chiusura mi piace citare una sua frase di D’Oriano: “L’archeologia e la storia sono discipline rigorose, come la matematica e la biologia che seguono i principi della ricerca scientifica come tutte le altre”.
A D’Oriano rispondo che mi piacerebbe che l’archeologia fosse una scienza come tutte le altre! Quello che è certo è che gli archeologi sardi nell’ultimo quarto di secolo hanno dato prova di non essere stati scientifici nei riguardi degli studiosi, tra cui ci sono anch’io, che hanno studiato l’orientamento dei monumenti della Sardegna preistorica e protostorica. Gli archeologi sardi,purtroppo palesemente ignoranti in geometria, matematica e statistica, Rubens D’Oriano compreso, continuano a confondere l’archeoastronomia con l’ufologia.

sabato 24 gennaio 2015

Un pomeriggio al museo archeologico di Cagliari

di Franco Laner

Martedì 21 gennaio 2015 ho visitato, assieme a Mauro Zedda ed altri, architetti ed ingegneri, il Museo archeologico di Cagliari. Ovvio l’oggetto: le cosiddette statue di Monte Prama.
Dico prima di un piccolo disguido. La visita l’avevo programmata e mi ero documentato per non aver sorprese di chiusura o orari strani (in occasioni precedenti non avevo potuto visitare il Museo: una volta per infiltrazioni d’acqua dalla copertura ed un'altra per ristrutturazione).
Ho cliccato ed immediatamente ho tutte le informazioni:
Informazioni
Indirizzo: Cittadella dei Musei, piazza Arsenale, 1 - 09124 Cagliari
tel. +39 070 684000
Ente titolare: Ministero per i Beni e le Attività Culturali
Orari: 9.00 - 20.00; lunedì chiuso
Biglietto: € 4,00 (dai 25 ai 65 anni ); € 2,00 (dai 18 ai 25 anni); € 5,00 (biglietto cumulativo Museo Archeologico Nazionale + Pinacoteca). Esenzione biglietto fino ai 18 anni e oltre i 65 anni

Peccato però che, nonostante abbia superato i 65 da quel dì, mi impongono il pagamento di 5 euro, perché non dovevo guardare il sito della regione, bensì quello del Ministero…Anche gli altri pagano 5 euro e non 4. Della serie: sciatteria e specchio di come funzionino le cose.
Le cosiddette statue sono diversamente ubicate: due subito e altre con cosiddetti modelli di nuraghe in altro piano.
La vista non ha emozionato nessuno, anzi il contrario. Perciò credo che sia da partire da questo dato di fatto, inequivocabile ed immediato. Ha ragione Mauro, non dobbiamo guardare all’arte, alla proporzione, alla plasticità, in sintesi se sono belle o no, bensì superare tutte le categorie e pensare solo che sia un iniziale tentativo di significare, di semantizzazione, di raffigurazione. Ad esempio, qualche testa ha le orecchie poste non all’altezza degli occhi, bensì 6-8cm più in alto. Non si guardi alla proporzioni delle parti, alla mostruosità delle fattezze: sarebbero categorie improprie!
E’ necessario anche superare l’idea che i frammenti accostati abbiano seguito criteri di coerenza, una testa perfetta con sotto un busto rozzo e diversamente finito, piedini sotto gambe possenti, scudo in testa dove i frammenti sono il 15-20% ed il resto resina…Mai ho trovato migliore definizione: Frankenstein. Ma forse è proprio questa la forza delle cosiddette statue: la comprensione è possibile se si abbandona di fatto ogni categoria di giudizio che la nostra cultura assegna ad una statua.
Uno splendido capitello, con un aggetto enorme, finemente lavorato, ovviamente è definito modello di nuraghe. D’altra parte c’è chi definisce modello di nuraghe anche capitelli quadrati.
Peccato che nel blog di Mauro non si possano mettere foto, perché potrei mostrare la foto del plastico di un nuraghe in scala intorno 1:20 dove i conci stanno su perché incollati, con folli idee costruttive. Insomma una ricostruzione per chi pensa che le pietre stiano su per magia. O per turisti di bocca buona…Ma la cifra di un Museo si misura credo anche con l’aggiornamento scientifico. O si pensa che i visitatore debbano solo divertirsi a constatare corbellerie?
Ho scritto comunque queste due righe per dare ragione a chi contesta l’instabilità di statue su due piedi: le statue romane di marmo mostrate nel Museo hanno oltre alle due gambe, altri sostegni: drappi fino a terra, un cane, un albero, ecc., pero c’è anche la statua di Bes, dio fenicio, quella rinvenuta a Bithia (comune di Domus de Maria), alta un metro e con gambe di almeno trenta cm di diametro. Ebbene ammetto: essa sta su due piedi!

sabato 13 dicembre 2014

Archeoastronomia e turismo culturale

Agorà Nuragica 2014
conferenze, visite guidate.

Cagliari, 18 Dicembre, sala settecentesca Biblioteca Universitaria, via Università, 32/a
Ore 9.30 Apertura lavori, presentazione del progetto Agorà Nuragica
Ore 9.45 saluti di Francesco Morandi Assessore regionale al Turismo, artigianato e commercio Regione autonoma della Sardegna
Ore 10.00 Paolo Littarru: Handbook of Archaeoastronomy and ethnoastronomy
Ore 10.20 Nicola Manca: Turismo culturale in Sardegna
Ore 10.40 Armando Serri: Patrimonio culturale, specchio e vetrina di identità
Ore 11.00 Daniele Congiu: Archeoastronomia e turismo culturale
Ore 11,20 Franco Laner: Ricadute culturali e turistiche della valorizzazione del patrimonio nuragico
Ore 11.40 dibattito
Pausa pranzo
Ore 15,30 ripresa lavori
Ore 15.40 Paolo Littarru: Il significato astronomico del pozzo sacro di Santa Cristina a Paulilatino
Ore 16.00 Marco Sanna: Analisi della disposizione del santu Antine e dei nuraghi circonvicini
Ore16.20 Mauro Peppino Zedda: Il significato astronomico dei nuraghi
Ore 16.40 Franco Laner: Cambio di paradigma nella ricerca archeologica in Sardegna
Ore 17.00 dibattito


Meana Sardo, 19 dicembre , presso salone Parrocchiale
Ore 17,00 apertura lavori
Ore 17,10 Paolo Littarru: Studi archeoastronomici sulla sardegna, nel panorama scientifico internazionale
Ore 17,30 Mauro Peppino Zedda : Orientamento astronomico del nuraghe Nolza
Ore 17,50 Augusto Mulas : Analisi preliminare dell’orientamento delle “capanne delle riunioni” nuragiche
Ore 18.10 Franco Laner: Nuraghi Icona del Cosmo
Ore 18.30 dibattito

Thiesi, 20 Dicembre, presso sala Aligi Sassu
Ore 17,00 apertura lavori
Ore 17.10 Paolo Littarru: Handbook of Archaeoastronomy and Ethnoastronomy
Ore 17,30 A.Mulas e M. Sanna: Analisi della disposizione del Santu Antine e dei nuraghi circonvicini
Ore 17.50 Mauro Peppino Zedda: Il significato astronomico del nuraghe Santu Antine
Ore 18.10 Franco Laner: Funzione, simbolo e costruzione dei nuraghi
ore 18.30 dibattito

Isili, 21 Dicembre, presso sala conferenze Centro Sociale
Ore 9.20 apertura lavori
Ore 9.30 Efisio Santi, presenta il film documentario Astronomia Nuragica
Ore 9.45 proiezione del documentario
Ore 10.30 dibattito


Nei giorni 19, 20 e 21 Dicembre, si potrà assistere a fenomeni archeoastronomici , con visite guidate, nei seguenti luoghi:
Al nuraghe Nolza di Meana Sardo, appuntamento presso il nuraghe fissato per le 7.30.
Al nuraghe Santu Antine di Torralba, appuntamento presso il nuraghe fissato per le 7.30.
Al nuraghe Jua di Aidomaggiore, appuntamento presso il nuraghe fissato per le 7.30.
Alle Domus de Janas Sant’Andrea Priu di Bonorva, appuntamento fissato per le ore 14.00.
Al nuraghe Antine di Isili , appuntamento presso il nuraghe Is Paras per le 7.00 e da li si raggiungerà il nuraghe Antine.