martedì 22 novembre 2022

Amenità

di Franco Laner

 

Frantespizio del libro di Massimo Rassu, edizioni NOR, Oristano, 2021 

L’aggettivo che mi vien meglio per sintetizzare il lavoro di Massimo Rassu “Ingegneria nuragica tecniche costruttive e organizzazione del cantiere” è ameno. Vanno bene anche alcuni sinonimi come divertente, giocondo, spassoso. La lettura mi ha infatti divertito per una serie di bizzarre considerazioni, fuori del tempo e soprattutto fantasiose. Attenzione, fantasia non è sinonimo di immaginazione. Fantasia è la parte patologica dell’immaginazione che, al contrario, è logica e consequenziale, mentre fantasia è al massimo un auspicio, un banale desiderio, un sogno con una probabilità su un milione di avverarsi.

Ho seguito molte tesi di laurea nella mia attività accademica e quando mi veniva presentata la bozza della ricerca andavo alla bibliografia e poi leggevo l’introduzione, per me indici del profilo del laureando, dei contenuti e dei possibili esiti del lavoro.

Ebbene, scorrendo la copiosa bibliografia del libro di Rassu, evinco che manca del riferimento di testi fondamentali sulla storia delle tecnologie costruttive in generale (es. Auguste Choisy, André Leroi Gourhan, J. Kip Finch, Charles Singer,…) e in particolare per i nuraghe (Taramelli, Spano, Della Marmora,…), mentre è ricca di articoli di archeologia generica: del pubblicista G. Manca (Gabriele, Giacobbe, Giuseppina, Giovanni, Giulio…? Bisognerebbe mettere il nome per intero!) sono riportati 40 titoli solo in parte tecnologici e per lo più di varia umanità archeologica.

Non voglio dire che sia necessario leggere i testi della disciplina. Ognuno può trovare ispirazione e conforto da altre discipline, ma senza riferimento ai testi di tecnologia antica di Leroi Gourhan sarebbe come occuparsi di nuraghi senza conoscere Lilliu!

Per capire qualcosa sulle tecnologie costruttive del passato io stesso mi sono letto ciò che lo storico delle religioni, Mircea Eliade, ha scritto sulla sacralità dell’atto costruttivo, ma ho avuto fondamentali confronti con Raffaele Santillo, straordinario conoscitore di macchine, organizzando seminari all’Iuav con altri studiosi.

Le due pagine di introduzione sono un frammento delle amenità che saranno riprese ed ampliate nel testo.

Rimane irrisolto – scrive Rassu – il quesito su come si potevano alzare così in alto pietre di un nuraghe senza macchinari moderni.

Nonostante questo potente e decisivo quesito che pone la drammaticità di assenza del ricorso a macchinari moderni, l’autore sembra comunque rassicurare il lettore che la soluzione è stata trovata.

Prosegue: Pur sprovvisti di computer e di altri sistemi evoluti di calcolo, i costruttori di nuraghi non erano privi di capacità adeguate…Affermazioni totalmente pleonastiche, ma subito vien fuori la parola calcolo, che sarà ripresa sovente nel testo. I nuragici, secondo l’autore, facevano calcoli, semplici e rudimentali, come per il dimensionamento delle fondazioni.

Suggerirei, per ciò che riguarda le costruzioni del passato, dalle origini a prima di Galileo, di eliminare la parola calcolo. Nessuno a mai fatto calcoli. Calcolo è un concetto moderno. Il dimensionamento e la sicurezza costruttiva ha seguito nel passato altri paradigmi, empirici, analogici, intuitivi, ma mai il calcolo come inteso nel libro.

Grave errore dovuto all’incapacità di contestualizzazione concettuale, che genera corollari, appunto, ameni.

Per aver un’idea, sempre restando in tema di fondazioni, della portanza del terreno, l’autore suggerisce il ricorso ad una prova empirica: si può avere la quantificazione della resistenza misurando l’abbassamento dell’impronta del piede di un uomo nel terreno!

Nasce così – conclude l’autore – un manuale pratico per la fabbricazione dei monumenti sardi dell’Età del Bronzo … dall’approvvigionamento del materiale edile, all’organizzazione del cantiere, alla tecnica costruttiva, al capitolato d’appalto con tutte le lavorazioni speciali.

Il capitolato d’appalto, con l’elenco delle lavorazioni speciali, mi pare sia il vero scoop di questo libro.

E’ una novità assoluta nel panorama della discipline sulle tecnologie costruttive del passato e ne va preso atto!

Nonostante il mio preconcetto di valutazione, introduzione e bibliografia, ho letto l’intero libro, che lo ha comunque confermato, anzi peggiorato.

Prima di chiudere voglio dire di un forte disagio, sicuramente dovuto ad una mia stupida autoconsiderazione. Rassu riprende un bassorilievo assiro con l’immagine del trasporto di un grande carico. Descrive il meccanismo per vincere in particolare l’attrito di primo impatto citandolo dal mio “Sa Ena”, Condaghes, Cagliari, 2011, ma senza la ricerca che ha condotto Santillo a capire la funzione della leva e senza le figure, si perde la meraviglia della sinergia che può derivare dall’accoppiamento della leva e del cuneo e lo stupefacente disvelamento dell’arcano non avrebbe nessuna inferenza concettuale.

Nella figura del rilievo del bassorilievo assiro si vede la leva che avrebbe la funzione di sollevare il peso facendo avanzare la slitta a scatti. Chi ha eseguito il rilievo – sbagliato – ha disegnato ciò che sapeva, non ciò che vedeva. Solo quando ho visto e fotografato il particolare al British Museum ho capito che abbassando la leva non si alzava il peso, bensì lo si spingeva in avanti.

Bellissimo!

 

a) Nel cerchietto blu si vede come il rilievo del particolare sia sbagliato

 

b) La foto dell’originale mostra la straordinaria combinazione leva-cuneo per spingere la slitta con grande vantaggio, specie per superare l’attrito di primo impatto.

 

c) Schematismo del meccanismo cuneo-leva di spinta della slitta

Occuparsi di tecnologie del passato è un esercizio che presume un atteggiamento mentale particolare: “dimenticare” tutta la moderna tecnologia, i suoi mezzi e strumenti, anche il lessico, e calarsi nelle conoscenze dell’epoca che viene analizzata. In una parola questa difficile operazione si chiama contestualizzazione.

Molti celebri ricercatori si sono occupati di restituire teorie e proposte di storia delle tecnologie delle costruzioni che non si possono ignorare se si vuole aggiungere una mezza pagina a quanto è stato già detto e per cercare di restringere l’area ancora molto vasta della nostra ignoranza in questo settore.

Venezia, 23 nov. 2022

 

 

mercoledì 11 agosto 2021

Pazienza, prima o poi si toccherà il fondo!

di Franco Laner

Osservazioni al numero monografico di Archeo, agosto 2021

“Il cammino dei nuraghi”


L’amico Giuseppe Camarda mi ha segnalato questa pubblicazione che ho subito acquistato perché nel titolo c’era la parola cammino, ovvero “andar a piedi”, che associavo al progetto di un gruppo che abbiamo recentemente costituito per una proposta di turismo lento in Ogliastra. Mi sbagliavo, perché per cammino si deve intendere itinerario e ne vengono proposti sei che includono nuraghi, pozzi e fonti, tombe di giganti e musei.

Giustifico intanto il titolo con una storiella che circolava ai miei tempi negli atenei. Recitava:

Un professore ordinario non farà mai ordinario uno studioso bravo. Il nuovo ordinario deve essere “un fià più mona di lui”, altrimenti lui sarebbe offuscato. I bravi se ne andavano e i più zelanti portaborse, pappagalli ripetitivi delle teorie del maestro, diventavano ordinari.

Il nuovo ordinario applicava la regola aurea.

Fino a quando?

Fino a quando arrivava il nuovo ordinario, così mona che non applicava la regola e metteva in cattedra uno studioso con le palle.

Nello sfogliare la rivista, senza mai trovare qualcosa di diverso dal punto di arrivo di Lilliu, pensavo ai diversi cattedratici, tipo Lilliu, Ceruti, Atzeni, Tanda, Cicilloni… o Contu, Moravetti, Depalmas…se ci spostiamo a Sassari.

Siamo ancora al nuraghe fortezza, madre di ogni sciocchezza

Prima o poi, non dispero, verrà quella successione sopra auspicata. Nel frattempo, però, ogni tentativo di innovazione viene bloccato. Chi critica non conosce l’abc della disciplina, dilettanti che pensano che basti il buon senso comune per affermare che un capitello quadrato - v. Monte Prama – non possa essere un modello di nuraghe, ma appunto, semplicemente, un capitello.

Sfoglio la rivista: si apre con una ricostruzione del nuraghe-fortezza.

Impressionante l’enfasi turrita, chiusa in sommità con una decorazione a chevron. Il supposto ballatoio diventa semplice decorazione.

La muratura delle torri è realizzata con malta. La caratteristica costruttiva di tutti i nuraghi è la muratura a secco che è lontanissimo parente della muratura con malta, sconosciuta ai nuragici e che impone diversa concezione strutturale e quindi diversi risultati formali. Ballatoi, scale esterne al nuraghe, cammini di ronda completano lo stereotipato paesaggio nuragico di stampo taramellilliano.

Si può ricavare una nota interessante: Sardegna opulenta con grasso che cola, il celebrato porcheddu trova la sua atavica origine. Manca il vino, che la curatrice della monografia aveva documentato esistere in alcune sue memorie del 2008-2010.

La notizia che nella Sardegna nuragica si coltivasse la vite è uno scoop. In tutto il Mediterraneo si coltivava l’olivo e la vite, financo nell’Isola al centro di questo grande lago. Ma no!

Noè molto tempo prima, aveva già cercato, invano, di disintossicarsi, ma il fegato era, ahimé, già in cirrosi. Un giornalista mi diceva che uno scoop non è scrivere che un cane ha morso una persona, ma che una persona ha morso un cane!

Parlo di giornalismo, perché mi è parso di capire che la monografia fosse un tentativo di comunicazione turistica. Invece, forse, sbagliando mi sto, è il resoconto di una ricerca scientifica finanziata con fondi europei.

O entrambe le cose. Frammistione pericolosa. Sia che si tratti di comunicazione turistico-archeologica, sia che si tratti di ricerca archeologica. Comunque, opterei nel primo caso per tante guide turistiche come quella del Touring Club e Repubblica, o qualche diffusa guida della Regione Sardegna tipo “Benvenuti in Sardegna” e nel secondo caso mi riguarderei “La civiltà dei sardi”, 1963, molto più attuale della monografia.

Prima o poi dunque, si toccherà il fondo.

Purtroppo, non sentirò i rintocchi a morte della campana dell’archeologia nuragica che ha fatto leva sul nuraghe fortezza e quand’anche sarà sepolta ci saranno le fiammelle fatue della decomposizione del cadavere a ricordare i danni, nell’estremo tentativo anche dopo morta, di rivendicare la funzione militare dei nuraghi.

Morire dunque per rinascere.

Questa è l’unica condizione per il rinnovo dell’archeologia sarda.

Nel frattempo, l’assistenzialismo che mantiene in vita i minuscoli musei sparsi nel territorio e anche i grandi, alimenterà l’illusione dei tanti giovani che pensavano che l’enorme patrimonio archeologica sardo fosse una risorsa e hanno investito studio e soldi. Sui suoi scrigni sono purtroppo seduti i pesanti culi di un’archeologia preconcetta, incapace di inserirsi in un circuito non dico europeo, ma nemmeno mediterraneo, autoreferenziale e miope.

I giovani speranzosi e bravi si dovranno inserire nelle vetrine di inutili pubblicazioni dei cosiddetti maestri e perpetuare preconcetti e luoghi comuni, chini, quando va bene, ad osservare ciò che brilla sulla punta del piccone.

Questo statu quo è un danno enorme allo sviluppo della ricerca, stupide teorie non possono che essere ostacoli e concorrere all’affossamento della baracca e togliere la speranza dei giovani, delitto della peggior specie.

Suvvia, archeologi sardi, è tempo di quel cambio di paradigma, maturo e decisivo, di rivalutazione di quella civiltà che dei nuraghi fortezza non avrebbe saputo davvero cosa farsene!


 

Il paesaggio nuragico è quello immaginato dalla prof. Depalmas. Il disegno è dell'architetto Pettinau


 

sabato 13 febbraio 2021

Archeologi Sardi e valorizzazione del patrimonio archeologico sardo

di Mauro Peppino Zedda

La Soprintendente alle antichità Maura Picciau ha denunciato il sindaco di Cabras, Andrea Abis, che martedì mattina 9 febbraio le ha vietato l’ingresso al museo dei Giganti.


 

Perché si è arrivati a questo punto? Perché la comunità di Cabras si oppone alla richiesta di portare le statue a Cagliari per restaurarle. Per il semplice motivo che teme che non le riporteranno più a casa loro.La mancanza di fiducia dei cabraresi non è fuori luogo, le soprintendenze di Cagliari e Sassari si comportano con le zone interne della Sardegna come se fossero territori da cui depredare i beni culturali, e di queste “rapine” sono responsabili gli archeologi sardi non certamente i politici

La comunità cabrarese ha ricevuto la solidarietà di tanti sindaci e del Governatore della Sardegna Cristian Solinas che afferma:

«I Giganti di Mont'e Prama sono un bene identitario, una ricchezza di tutta la Sardegna e patrimonio storico e archeologico di un territorio che è e deve restare la loro casa naturale, non solo da un punto di vista simbolico ma anche in chiave di sviluppo. […] Le stesse operazioni di restauro possono rappresentare un'attrazione turistica, come avviene di consueto in molte aree archeologiche, e fornire un'occasione di sviluppo per le comunità locali» (fonte Ansa).

Penso che sia maturo il tempo in cui gli archeologi sardi comprendano che il patrimonio archeologico e culturale della Sardegna debba essere valorizzato nei territori in cui viene rinvenuto. Tutte le statue di Monti Prama dovrebbero stare in un unico Museo, a Cabras ovviamente.

 

sabato 6 febbraio 2021

Tombe di Giganti a Sos Lados de Pruna, Bultei

di Franco Laner

Prendo lo spunto per riesumare un mio articolo del 2002 che scrissi su “La Voce del Logudoro”, organo della diocesi di Ozieri, da alcune foto postate da Giovanni Sotgiu su suo sito Facebook a metà novembre 2020.

Non sono un frequentatore di social, ma ogni tanto mi arrivano delle notifiche sulla posta ed allora vado a vedere. Ebbene ho visto le belle foto di siti archeologici di Sotgiu, con commenti vari, anche di amici, come l’ing. Angelo Saba. Belle foto, ma quasi sempre prive di commenti, tal che il primo intervento è sempre: E inue est? Dov’è ‘sta tomba? Dov’è ‘sto nuraghe? E mi chiedo se ha senso una bella foto senza commento, descrizione, impressione. Poi si scatenano i commenti più o meno deliranti: una foto di una interessantissima sperimentazione forestale, voluta dal grande forestale Pavari nel 1935, a Sa Fraigada, ad un tiro di schioppo dalle TdiG di cui tratto, che piantò sperimentalmente alberi di Pino laricio nel terreno granitico, come quello calabrese dove il pino laricio è autoctono, viene preso per Sequoia. Sequoia in Sardegna? Ebbene sì, ma sul Limbara, piantati (si dice il Sequoia, in onore del capo Sioux, che aveva imparato l’inglese) a metà del 1800.

 

Foto di apertura dal sito di Giovanni Sotgiu, sa Presone I

Così dunque scrivevo a proposito del bellissimo sito archeologico ed ambientale.

Gli occhi curiosi ed indagatori dell’archeologo Mackenzie, che girò l’Isola all’inizio dello scorso secolo, si sono posati sulla tomba dolmenica di Su Coveccu, appena sotto la caserma Sa Pruna, in agro di Bultei, forse non accorgendosi che solo a qualche decina di metri più ad est c’erano due Tombe di Giganti e poco più a Nord un’altra Tomba. La zona è altresì ricca di nuraghi (Sa Paule, Puleju, Chiricuzzu…) ed altri indicativi resti di manufatti preistorici. 

Di Su Coveccu, il Mackenzie ci ha lasciato una pianta e due sezioni, disegni che descrivono i resti di un dolmen, caratterizzato appunto da lastre ortostatiche e lastra apicale.

Il luogo è molto suggestivo e credo che a molti piacerebbe starci per l’eternità: dolce nella morfologia, ricco d’acque sorgive (ad esempio la Fontana S’Abba ‘e Selighe), riparato dai venti e ora regno di promettenti sughere e buoni pascoli. L’Amministrazione comunale di Bultei ha inserito tale sito in un percorso turistico-archeologico per valorizzare sia l’ambiente naturale –altre volte ho parlato del “cuore verde della Sardegna nuragica”, che ha il suo fulcro a Sa Fraigada- e le preesistenze archeologiche, numerose e singolari, che il territorio bulteino conta, assieme ai limitrofi Comuni del Goceano.


 
Le Tombe di Giganti di Sas Presones si trovano appena sotto la caserma della Forestale di Sa Pruna, fra Nughedu e Bultei. Nel particolare IGM: 1. Su Coveccu, 2. Sa Presone I, 3. Sa Presone II

 Su Coveccu. Il disegno di Meckenzie e lo schizzo assonometrico interpretativo dello stesso. Ora la lastra di copertura giace rotta qualche metro più sotto e non ci sono più le pietre ortostatiche. Non è facile dire se questo monumento fosse un dolmen successivamente riadattato o se sia già nato come Tomba di Giganti

 Rilevo di Sas Presones eseguito dallo studio del geom. Vincenzo Lai di Ozieri. La datazione cronologica fra le due Tombe potrebbe essere di grande aiuto per la comprensione di questi monumenti

Il percorso che l’amministrazione voleva valorizzare interessa appunto anche la necropoli –esagero, ma non è facile trovare tante tombe così vicine- è stato oggetto di scavo, iniziato nel 2001, delle due Tombe, Sa Presone I e Sa Presone II.

Ecco, è proprio sugli scavi che voglio esprimere il mio pensiero, che è un pensiero che si è venuto formando soprattutto da quando ho visto lo strazio del nuraghe Sa Mandra de sa Jua a S. Nicola di Ozieri.

Individuato un sito, ottenuti i finanziamenti, gli ingordi archeologi portano alla luce ciò che il tempo, lento giardiniere, ha sepolto e conservato. Si procede “scientificamente”, mettendo in evidenza i vari strati, registrando i reperti ed i cocci, fin che, ad un certo punto, come una scure, si abbatte una notizia ferale: non ci sono più soldi! Laddove si udiva appena il frusciare della scopina che ripuliva l’affiorante curva di un coccio, con l’inevitabile aumento del pulsare cardiaco, piomba il silenzio e l’abbandono.Anche se l’evento era annunciato, pure è tale che ogni azione si arresta. Il labile recinto dello scavo rimane l’unico custode di un corpo semisvelato che ricomincia ad essere protetto dal tempo, che con nuova pazienza ricopre il luogo e con lui, l’oblio.A volte c’è un sussulto, dato dall’ultima visita di tombaroli che trovano la strada aperta…Cosa ha prodotto lo scavo? Oltre all’evidente danno dato dalla nuova esposizione all’ingiuria del tempo, ci dovrebbe essere almeno il conforto della relazione di scavo, dell’elenco dei reperti, dalle nuove acquisizioni. Campa cavallo…A Sas Presones si è ripetuta la sceneggiata. Il sito è stato scavato, si è evidenziata la consistenza delle due tombe ed il luogo è stato quindi abbandonato…Sono finiti i soldi? No! E allora? Siamo al punto che la prassi di abbandonare gli scavi intrapresi, dovuta alla mancanza di fondi, diventa regola anche se i fondi ci sono ancora!A volte ho maliziosamente pensato che anche gli archeologi siano mentalmente dei tombaroli: l’interesse è per il ritrovamento, per lo scoop. Se non c’è, non ne deriva riconoscimento… Di piantare in asso un lavoro è dunque una regola assai diffusa. Ma anche se un solo scavo fosse impropriamente interrotto sarebbe deplorevole, perché mai avrebbe dovuto iniziare. In gran parte del mondo si chiede con forza una moratoria degli scavi e si chiede a gran voce di catalogare le tante casse di reperti abbandonate nei depositi delle Soprintendenze, di scrivere le relazioni di scavo e di cercar di tutelare e proteggere i tanti siti buttati per aria in questi ultimi anni. Trovato ciò che si sperava, o viceversa delusi, il monumento non riveste più alcuna importanza, tanto meno ci si cura di proteggere ciò che si è scoperto. E si abbandona al degrado.

Ciò - per me - è, culturalmente e socialmente, sacrilego ed immorale.

Si vada, e concludo con questo discorso, a far visita al già citato Sa Mandra de sa Jua, che da sito protetto dalla madre terra, ora è un cesso a cielo aperto (la parola non è volgare, è volgare chi ha fatto si che tale diventasse un monumento) e neanche una riga è stata scritta sull’esito di questo scavo. Diversi anni fa, venti circa, chiesi la pianta del nuraghe, sia all’assessore alla cultura del Comune di Ozieri che finanziò lo scavo, sia alla Soprintendenza di Sassari. Ancora sto aspettando!Tornando a Sas Presones penso che, per chi abbia scelto di fare l’archeologo, le (è una signora che ha diretto gli scavi, tale Chiara Satta, archeologa della Soprintendenza di Sassari)) sia stata offerta una opportunità. Come dicevo all’inizio, il luogo induce, proprio dal punto di vista archeologico, morfologico ed ambientale, alla ricerca, all’acquietamento spirituale, alla calma e serenità. Le tre tombe lo rendono enigmatico ed entusiasmante, sicura premessa a nuove conoscenze. 

Infatti, oltre alla presenza di Su Coveccu, ci sono due tombe, l’una che quasi si sovrappone all’altra. Una che è più grande ed è del tipo senza la cosiddetta stele centinata e probabilmente anche l’altra, forse precedente, ma è solo un giudizio non supportato da altri elementi, come quelli di scavo.

Fra Su Coveccu e Sas Presones, più vicino a Su Coveccu, c’è un concio a dentelli. Da quale delle tombe provenga è difficile ipotizzare, può darsi benissimo anche dall’ex dolmen, riutilizzato a tomba, poiché se anche il disegno del Mackenzie raffigura un dolmen, i resti indicano piuttosto una pianta di Tomba di Giganti, come peraltro si legge anche nel disegno, dove si vede la parte absidata, impropria per un dolmen.

Il concio a dentelli. Sarebbe interessante conoscere se proviene da Sas Presones o da Su Coveccu


Entrambe le tombe scavate mettono in luce l’apparecchio murario classico del nuragico: filari con grandi conci che progressivamente sbalzano verso l’alto, restringendo la luce libera fra i due muri, chiusi superiormente da lastre semplicemente appoggiate.

Il corpo sepolcrale di Sa Presone I, così si può leggere superficialmente, è caratterizzato da un tumulo, enfatizzato da grandi massi e lastre, a mò di guscio di tartaruga. Nella piccola, il tumulo è caratterizzato da pietre più minute.

Tante altre sono le domande che pongono i resti di questi straordinari monumenti, unicum al mondo e forse un po’ trascurati dagli archeologi che si interrogano più sui nuraghi che sulle Tombe di Giganti.

 

Sa Presone II al momento dell’abbandono degli scavi.  

 

 Si noti la grande cura nel chiudere l’apparecchio murario

 

 Sa Presone I a dicembre 2002. L’esedra è stata pulita ed il monumento si può leggere nella sua interezza. Nella foto dal monumento si notano i cosiddetti “sedili”, che affiancano un corno dell’esedra

I due rami dell’esedra hanno un raccordo col terreno che viene definito “sedile”, immaginando che lì si sedesse chi assisteva alle cerimonie funebri. Ho provato a sedermi: come sedile è decisamente scomodo e dopo un po’ fanno male le parti molli: forse i nostri progenitori erano così diversi?

L’apparecchio murario della “piccola”, pur appartenendo alla tecnica muraria nuragica e ciclopica, ha particolare cura nella chiusura delle connessioni di sovrapposizione dei conci, quasi a voler ricreare la lastra liscia e continua, di dolmenica memoria. E’ forse un anello di passaggio fra dolmenico e nuragico? Il pavimento della “grande” è di terra battuta, o ci sono lastre? Che reperti sono venuti alla luce? Che frequentazione temporale hanno avute le Tombe? Si può sapere di più sui betili che si infilavano nei dentelli del concio? Ecc., ecc. Certo pretendere da uno scavo tante risposte sarebbe velleitario. Ma nemmeno il silenzio mi pare giustificato. 

Se si vuole valorizzare un sito - e questa è l’intenzione dell’Amministrazione di Bultei - è necessario avviare un processo di conoscenza ed un confronto serrato: solo in questo modo si potranno far parlare le pietre di Sas Presones e Su Coveccu, che altrimenti resteranno mute e nulla diranno ai visitatori e studiosi. 

Saranno, come sono stati fin’ora, mucchi di pietre. 

Sono però convinto che parleranno, ma prima dobbiamo convincerci che fare l’archeologo non è un mestiere: è una missione.