martedì 14 ottobre 2014

Atlandide: Sardegna?

di Fabrizio Sarigu


Ultima Cumaei venit iam carminis aetas
magnus ab integro saeclorum nascitur ordo.
Iam redit et Virgo, redeunt Saturnia regna,
iam nova progenies caelo demittitur alto.
(Bucoliche Ecloga IV, Virgilio)


Ultimamente in Sardegna si sta sviluppando un dibattito legato alla possibile identificazione dell’isola con l’Atlantide di Platonica memoria. Tale dibattito ha preso piede a partire dalla pubblicazione del libro di Sergio Frau “Chi ha spostato le colonne d’ercole”. La tesi del libro argomenta a partire dalla presunta scoperta di un “antico equivoco” per cui le famose colonne d’Eracle, limite del mondo conosciuto dei greci, originariamente si sarebbero trovate presso lo stretto di Sicilia e solo successivamente, con l’ampliamento delle esplorazioni, sarebbero state ricollocate presso Gibilterra. Se questo fosse vero, ne deriverebbe il corollario per cui l’oceano atlantico non sarebbe l’omonima distesa d’acque, bensì il mediterraneo occidentale. Qui la prima isola in cui ci si imbatte, isola di una certa grandezza e importanza, sarebbe proprio la Sardegna. La tesi si spinge inoltre a ipotizzare, per giustificare il racconto del disastro che si narra nel mito platonico, che un immenso tsunami abbia colpito l’antica Ichnusa, distruggendo la civiltà nuragica (identificata come la più verosimile candidata). Il ricordo, in seguito idealizzato di questo “evento”, si sarebbe conservato fino a trasferirsi nel mito Platonico.
Sento il dovere di precisare che chi scrive respinge totalmente questa ipotesi, anche per la totale assenza di prove geologiche a sostegno di qualsiasi congettura su tsunami et similia. Tuttavia, ciò a parte, potrebbe essere interessante procedere ad un’analisi più sistematica del mito platonico.
Il filosofo Platone, nei due dialoghi Timeo (421 a.C.) e Crizia, parla di "un'isola più grande della Libia e dell'Asia messe insieme" collocata oltre le Colonne d'Ercole. Un continente, una volta ricchissimo, potente e popoloso, inghiottito dall'Oceano nel giro di un giorno e una notte perché gli dei vollero punire i suoi abitanti, diventati malvagi ed empi.
Bisogna premettere che ricorrendo alla tecnica narrativa del mito, gli antichi, ovunque nel globo, costruirono un linguaggio tecnico capace di dar conto delle conoscenze scientifiche da loro acquisite, che chiamarono “scienza sacra” (propriamente la loro scienza astronomico/religiosa, da una prospettiva geocentrica). L’importanza e sacralità di questa scienza deriva dal possedere un doppio risvolto, da un lato psicologico/religioso, dando ragione dell’esistenza umana e della creazione del cosmo attribuendo all’uomo un ruolo in esso e alla sua anima un destino futuro, e da un lato pratico, consentendo la creazione dei calendari per la sopravvivenza quotidiana e guidando la costruzione di città e monumenti. Il cielo era il regno dell’essere, luogo sacro per eccellenza, sede del tempo (per Platone “immagine mobile dell’eternità”, ossia il tempo coincideva con i moti planetari) e delle anime, contrapposto alla caducità della vita reale, caratterizzata dalla morte e dal divenire. Il cielo si configurò, nella mente antica, come una sorta di maccanismo di cui la matematica e l’atto di “misurare” costituivano le chiavi per poter accedere alla sua intima comprensione. Questo, tuttavia, in un mondo dove la conoscenza e la sua trasmissione avvenivano per iniziazione. Il mito divenne quindi la tecnica attraverso cui criptare tali sacre acquisizioni di sapere, affinché le informazioni potessero circolare tranquillamente nella bocca delle genti senza che queste potessero tuttavia comprenderne i significati nascosti se non ammesse alla conoscenza. Siamo ben lontani dalla moderna idea dell’acquisizione democratica del sapere, fruibile per tutti.
Il mito atlantideo costituisce un perfetto esempio di come possano essere trasmesse in chiave mitica informazioni scientifiche molto precise. La concezione del cosmo che gli antichi possedevano, che emerge dall’analisi comparata dei miti di popoli nella storia, può essere resa attraverso l’immagine di una sfera armillare. In questa sfera possono individuarsi due cerchi massimi, che l’avvolgono, detti coluri (solstiziali ed equinoziali) e due piani, inclinati rispettivamente di 23° l’un con l’altro, il piano dell’eclittica e quello dell’orizzonte. I due coluri, posti fra loro a croce e perpendicolari al piano dell’eclittica, individuano in essa, intersecandola, quattro punti, i due solstizi e i due equinozi. Il piano dell’eclittica, definito dal moto apparente del sole e, per astrazione, di tutti i pianeti visibili luna compresa, viene cosi “quadrato”. Ancora l’eclittica risulta divisa in quattro spicchi di 90° ciascuno ed in essa congiungendo i quattro punti col centro si forma la croce, mentre congiungendoli fra loro si delinea un quadrato iscritto in una circonferenza. Per questo l’eclittica era sovente rappresentata dagli antichi con un’immagine particolare, che spesso è stata utilizzata nella realizzazione di templi, edifici talismano, ossia quattro torri ai vertici di un quadrato con una torre centrale più grande al suo centro (axis mundi). L’eclittica veniva cosi “quadrata” individuando i punti solstiziali ed equinoziali e assumeva il nome di “terra quadra”. Tale “terra quadra” aveva sullo sfondo le dodici costellazioni. Questo incredibile sforzo concettuale, che portò all’elaborazione di questo sistema, consentiva di interpretare alcuni fenomeni osservati dalla superficie del pianeta, avendo sempre come presupposto la concezione geocentrica dell’universo. Infatti, all’alba di uno qualsiasi dei giorni suddetti (solstizi e equinozi), è possibile osservare sorgere eliacamente una delle dodici costellazioni dello zodiaco di modo che quattro su tutte acquistino importanza giacché in grado di fungere da pilastri celesti, in un’immago mundi che vede, come prima precisato, quattro pilastri/costellazioni agli angoli di un quadrato iscritto nella circonferenza dell’eclittica, con un pilastro centrale più grande, l’axis mundi. Per via della precessione degli equinozi questi pilastri/costellazioni non sono eterni ma cambiano, sostituendosi l’un con l’altro nelle suddette posizioni, in un ciclo temporale (anno platonico) della durata di 25000 anni circa (da un segno A e ritorno) di modo che ogni segno permane nella sua posizione pilastro per 2160 anni circa. Poiché l’equinozio di primavera (in molte antiche civiltà l’anno iniziava a maggio in prossimità dell’equinozio stesso) era considerato il momento simbolo dell’era precessionale, si può affermare che la durata di un era sia di 2160(1) anni. Così 6000 anni fa il sole, all’equinozio di primavera, occupava la casa del toro (e altri segni occupavano l’altro equinozio e i solstizi), poi la casa dell’ariete, quindi i pesci e il prossimo candidato è l’acquario.
Questo fenomeno viene delineato in modalità criptata in molti miti sparsi un po’ ovunque nel mondo, in un sistema descrittivo che varia a seconda dell’effetto sul quale si intende porre l’attenzione. Quando si vuole porre l’accento sulla nuova costellazione che sorge all’alba dell’equinozio di primavera eliacamente (un nuovo pilastro celeste), il racconto assume i connotati della descrizione di una “nuova terra” o “monte” che spunta/sorge dal mare (orizzonte). Questo perché attraverso l’osservazione empirica dei cieli, gli antichi potevano notare in quella data una nuova costellazione (ad esempio i pesci) affiorare per un poco dall’orizzonte. Anno dopo anno, osservando il cielo sempre alla stessa data e momento, la figura celeste inizia a levarsi in maniera sempre più preponderante, finché definitivamente emerge in tutta la sua forma, spodestando di fatto la costellazione precedente (ariete), la quale non sorgerà più eliacamente. L’effetto che ne deriva, onde favorirne la comprensione moderna, è quello assimilabile al moto di un nastro trasportatore per cui la nuova costellazione “sposta” la precedente. A questo punto il sole è detto essere nella casa dei pesci (stando all’esempio) e l’era assume quel nome per i successivi 2160 anni. Il fenomeno che si osserva all’alba dell’equinozio di autunno è l’opposto. Ossia il grande nastro trasportatore dell’eclittica determina l’effetto contrario per cui mentre una costellazione sprofonda sotto l’orizzonte, anno dopo anno sempre un po’ di più, fino a non essere più visibile, quella immediatamente superiore ne prende il posto, calandosi sull’orizzonte divenendo la nuova casa del sole quando questo sorge all’alba dell’equinozio di autunno (nel caso dell’era dei pesci, la vergine come nota Virgilio nel carmen su riportato). Il mito da ragione di questo fenomeno descrivendo una terra o un monte che sprofonda nelle acque (l’orizzonte, il “telescopio” degli antichi, per eccellenza è il mare) a causa di cataclismi vari.
Il mito platonico di Atlantide può benissimo collocarsi fra le mitologie che cercano di dare atto di questo fenomeno apparente del cielo. Dunque non da conto di una geografia terrestre, ma di un’uranografia celeste.
“Innanzi a quella foce stretta che si chiama colonne d'Ercole, c'era un'isola. E quest'isola era più grande della Libia e dell'Asia insieme, e da essa si poteva passare ad altre isole e da queste alla terraferma di fronte. [...] In tempi posteriori [...], essendo succeduti terremoti e cataclismi straordinari, nel volgere di un giorno e di una brutta notte [...] tutto in massa si sprofondò sotto terra, e l'isola Atlantide similmente ingoiata dal mare scomparve.”
(Platone, Timeo, Capitolo III.)
Già le colonne d’Eracle sono un’immagine mitologica molto forte e precisa, giacché sovente gli equinozi sono descritti appunto come colonne, pilastri, porte o soglie che devono o abbattersi (Sansone) o comunque attraversarsi. La loro presenza nel racconto deve quindi far subito insospettire, non che si voglia negare l’esistenza anche geografica delle stesse, tuttavia gli antichi sovente cercavano di trasformare in un corrispondente geografico terrestre le componenti uraniche individuate, o viceversa (così in cielo così in terra). Inoltre, come sappiamo, Platone tende spesso nei suoi dialoghi a servirsi di racconti a carattere mitologico, come il mito della caverna ad esempio, per dar conto delle sue idee o teorie. Che poi il mito atlantideo sia un mito cosmologico ci aiuta a comprenderlo già una prima analisi di contesto. Il racconto infatti appare in due dialoghi, “Timeo” e nel suo continuo incompiuto “Crizia”, proprio i due dialoghi in cui Platone ci presenta la sua visione cosmologica dell’origine dell’universo, escatologica della natura umana e fisica della struttura della materia. Interpretare il mito atlantideo come una narrazione mitologico avente il fine di rendere conto in chiave allegorica della visione cosmologica dell’autore ci appare del tutto appropriato.
Inoltre non sembra neanche casuale il nome che Platone da alla sua isola utopica: L’isola di Atlante. Tale nome richiama immediatamente il titano Atlante, colui che regge la volta celeste, ossia l’allegoria dell’axis mundi.
A questo punto è infatti possibile introdurre la descrizione di un altro degli effetti che la precessione degli equinozi(2) determina nei meccanismi celesti: il mutare della stella che indica il polo nord celeste.
Il polo nord celeste è quella porzione della volta stellata che viene traguardata dall’asse ideale collocato al centro del piano dell’orizzonte, ossia l’asse immaginario attorno al quale il cielo pare ruotare la notte. Questo asse ideale non è però fisso, ma a sua volta ruota, come già detto, attorno ad un altro asse ideale che questa volta però passa per il centro del piano dell’eclittica, inclinato rispetto al precedente di 23° circa. La porzione di cielo traguardata dall’asse ideale dell’eclittica individua due punti (polo nord dell’eclittica e polo sud) che sono gli unici punti, da una prospettiva geocentrica ovviamente ma che grande presa dovette avere nell’immaginario delle prime genti, ad essere fissa, stabile, immota e immutabile nel tempo. Come precisato, per contro, l’asse del piano dell’orizzonte ruota intorno all’asse dell’eclittica e ne consegue che il polo nord e sud celesti non sono fissi ma appunto ruotano rispetto ai corrispondenti punti del polo nord e sud dell’eclittica. Per ciò le stelle indicanti il nord ed il sud cambiano(3) e a volte possono anche non esserci (oggi abbiamo una stella polare per il polo nord, ma non una visibile per il polo sud). Lo stesso Platone proprio nel Timeo, descrive questi meccanismi chiamando il piano dell’orizzonte e il piano dell’eclittica propriamente “l’altro” e il “medesimo”(4) e asserendo che fra loro stanno in un rapporto geometrico assimilabile alla conformazione della lettera X dell’alfabeto greco. Rendendo ragione in maniera estremamente chiara dell’inclinazione del piano dell’eclittica di 23° circa rispetto a quello dell’orizzonte.
L’isola di Atlante può quindi essere considerata come un particolare allegoria di un determinato “asse del mondo” definito secondo le coordinate temporali che Platone stesso, come vedremo, si preoccupò di definire.
Ancora la città capitale dell’isola ci viene descritta avente forma circolare, costituita da più isole separate le une delle altre sempre da canali circolari, in una sorta di progressione di porzioni di terra in forma di circonferenze concentriche sempre più piccole fino alla zona centrale dove si trova l’acropoli (monte-axis mundi) con il tempio. Questa immagine dei cerchi concentrici, il labirinto, o il moto di un gigantesco gorgo, sono sovente utilizzati per rappresentare il mondo dell’eclittica ed il moto vorticoso dei pianeti.
Platone, nel suo racconto, sembrerebbe quindi darci una visione di una città ideale, utopica, cosa che trova giustificazione nel fatto che il Timeo segue sia temporalmente sia nei temi la “Repubblica”. La città ideale, per essere tale, deve però essere fondata, quadrata, sulle dimensioni celesti al punto da divenire essa stessa un simbolo del cielo o un’allegoria del cielo stesso (così in cielo così in terra). Nel racconto quindi la componente politica finisce per cedere del tutto lo spazio alla componente cosmologica e cosmogonica. Infatti è Crizia che ci parla di Atlantide, avendo sentito il nonno commentare il fatto che Atene dovette affrontare 9000 anni prima del tempo di Solone, una terribile minaccia a causa delle forze di invasione atlantidee. Terminato il prologo(5), sarà Timeo a prendere la parola (per non lasciarla praticamente più, o quasi) e come su riportato verrà descritta la concezione Platonica dell’origine e struttura del cosmo. Il mito di Atlantide, la sua ipotetica collocazione spaziale e temporale sembrerebbe voler porre l’accento su una particolare configurazione astronomica, essere l’”axis mundi” di una particolare era, poiché colloca non indefinitamente nel tempo la sua isola ma circa 9000 anni prima del tempo di Solone (6). Ciò ci consente di ritornare a ritroso delle ere precessionali, nel tempo, fino alla fine dell’era del leone, era su cui probabilmente gli antichi astronomi e mitografi intesero fissare il momento zero dell’inizio del computo precessionale, che avrebbe visto al momento dell’era dei pesci la metà del grande anno, in quanto sesta era dall’era del leone, per poi completare il giro ritornando nuovamente verso la stessa. Poiché Platone riconduce il suo mito agli egizi, il nonno di Crizia l’avrebbe appresa da Solone il quale a sua volta ne venne a conoscenza in Egitto, si potrebbe ricondurre il tutto al mitico tempo dello “zep tepi” sorta di “saturnia regna” egizio, il mito dell’isola di Atlante renderebbe conto della fine di questa era, probabilmente così importante per i nostri antenati nel computo del grande anno precessionale.


NOTE
1. È necessario operare un distinguo fra costellazione dello zodiaco, le quali sono in misura di 12, 13 o 14 a seconda dell’inclinazione dell’angolo, poiché anch’esso oscilla su un valore medio di 23° circa, che l’eclittica assume rispetto al piano dell’orizzonte, e segni dello zodiaco. Questi ultimi sono meglio frutto di un’operazione geometrica che divide la circonferenza in 12 spicchi di 30 gradi ciascuno. La tradizione associò a questi spicchi una particolare costellazione simbolo, divenendone il corrispondente segno. Poiché il sole impiega 72 anni a percorrere 1° dei 360°, nel suo moto apparente nell’eclittica, basta una semplice operazione matematica per calcolare in 2160 gli anni che impiega a percorrere 30° e circa 26000 gli anni necessari a percorre tutti i 360° (72 per 360).
2. Il termine precessione rende conto del fatto che col tempo il segno che sorge all’alba dell’equinozio di primavera cambia, in un ordine opposto a quello del normale susseguirsi dei segni zodiacali durante l’anno, che in questo caso precedono appunto.
3. Ad esempio, 3000 anni fa la stella polare era la stella alfa della costellazione del drago, ora è alfa ursae minoris, fra 13000 anni sarà vega, in altri momenti semplicemente non c’è una stella visibile prossima al polo nord, che andrà individuato traguardando e allungando segmenti fra stelle diverse di modo da individuare il polo nord, cosa che già ora deve farsi per individuare il polo sud.
4. Da notarsi che anche dove la descrizione appare essere più lineare, Platone utilizza un linguaggio comunque criptico, giacché egli non nomina i due suddetti piani se non vagamente ricorrendo a pronomi “altro” e “medesimo”.
5. Notarsi anche la posizione che Platone sceglie per collocare il suo racconto mitologico dell’isola di Atlante, il prologo alla trattazione dell’origine e struttura dell’universo.
6. Notarsi anche la posizione che Platone sceglie per collocare il suo racconto mitologico dell’isola di Atlante, il prologo alla trattazione dell’origine e struttura dell’universo.

lunedì 8 settembre 2014

Sul terrazzo dei nuraghi

di Alessandro Mannoni

L’amico Franco Laner, nelle sue prime impressioni alla lettura del mio recente libro RELIGIONE E SPIRITUALITÀ NELLA SARDEGNA NURAGICA, formula un invito al confronto sulle tematiche coinvolte, confronto al quale non mi sottraggo in merito ad alcune delle puntuali osservazioni da lui formulate al riguardo.
In primo luogo l’importante questione delle “terrazze a sbalzo” dei nuraghi.
Franco, riprendendo anche l’analisi di Pittau, sembra escludere del tutto la possibilità di un allargamento a sbalzo della sommità del nuraghe per questioni di statica e logicità costruttiva nelle murature a secco.
Premessa la mia incompetenza in questioni di statica architettonica, vorrei però proporre alcune considerazioni in proposito, perché mi pare che il problema dell’allargamento a sbalzo della sommità delle torri non possa risolversi schematicamente con un tutto o nulla, tra fautori e negatori della sua presenza.
Penso che ormai nessuno neghi la problematicità e la difficoltà strutturale della realizzazione di tali terrazzi, ma noto che anche architetti di particolare “sensibilità” come Serena Noemi Cappai e Giuseppe Pulina propongono ultimamente delle ipotesi ricostruttive dei terrazzi a sbalzo poggianti sui famosi “mensoloni”, terrazzi naturalmente realizzati in legno (in AA.VV. SIMBOLO DI UN SIMBOLO – I MODELLI DI NURAGHE – GUIDA BREVE. 2013 ARA Edizioni – Siena – pp.22-23).
Poiché non ne posso valutare la fattibilità o meno dal punto di vista architettonico devo quindi attendere che la questione sia risolta dagli specialisti.
Ad ogni modo ritengo che almeno due punti fermi si possano dare:
• Presenza o meno dell’allargamento a sbalzo, a meno di escludere che la scala del nuraghe potesse arrivare in cima o supporre che la torre culminasse in forma cupolata e non piatta, le torri nuragiche terminavano con uno spazio sufficiente a lasciare la sommità libera e agibile; non per le fantasiose ipotesi di utilizzo di macchine belliche o per la presenza di una guarnigione di difensori, ma per possibili attività rituali e di osservazione a cui doveva prendere parte un numero ridottissimo di sacerdoti (uno o due di norma), poiché l’accesso alle parti più interne e/o elevate delle strutture templari in molte civiltà antiche era solitamente riservato a pochissimi sacerdoti e ne era rigorosamente escluso il popolo comune.
• La presenza in cima di mensoloni a raggiera, rari o molti che fossero, non può essere negata perché alcuni sono stati ritrovati in situ e diversi a terra. Per cui la loro funzione va interpretata, come correttamente tenta di fare Pittau.

Detto questo aggiungerei però che non si può escludere che i bronzetti, le colonne e i betilini “similnuraghe” riproducessero particolari costruttivi di questi edifici. Se infatti non ha senso interpretare ogni colonna con allargamento all’apice che venga ritrovata come un betilo/torre invece che come colonna con capitello, non ha ugualmente senso disgiungere del tutto tali “modellini” dalle strutture nuragiche. Concordo pienamente con Franco Laner (come riporto nel mio libro) sul fatto che tali modellini siano delle immagini simboliche e sacrali del cosmo e non delle copie di nuraghi dal valore semantico di genere esclusivamente “politico”, ma essendo stati realizzati da una popolazione che, almeno in parte, era erede dei costruttori delle torri nuragiche, che tali torri poteva ancora vedere ovunque in buona parte intatte, e di cui probabilmente conservava il valore simbolico e sacrale connesso all’immagine cosmica che esse rappresentavano, non vedo perché avrebbe dovuto modificare il modello dell’icona miniaturizzata che amava costruire, quando tale modello, in grande, se lo trovava ovunque intorno!
Se le popolazioni postnuragiche non riuscivano più a mantenere in vita e a sfruttare, o più probabilmente a comprendere a fondo l’intero sistema degli edifici nuragici, almeno erano in grado di riprodurne a livello miniaturistico una parte della funzione iconica di simbolo religioso.
Questo non vuol dire che si debba considerare un modellino come il plastico esatto di un nuraghe! Le dimensioni sono sempre approssimative, il rapporto tra le altezze delle torri, lo sbalzo dei mensoloni, il fatto che si riproducano esclusivamente monotorri o quadrolobi fa capire che non si tratta di copie di strutture, ma di copie di un modello ideale di icona simbolica, i cui particolari però assumono un senso religioso innegabile.
Che nuraghi e modellini fossero in rapporto tra loro ed analoghi ad un modello cosmico idale che riproducevano lo farebbero pensare gli esemplari realizzati in bronzo, che certo non potevano avere la funzione pratica di colonna capitello (che giustificherebbe lo slargo funzionale in cima, ma che comunque non negherebbe una possibile funzione anche simbolica di riproduzione della torre/i colonne di sostegno del cosmo), né potevano avere la funzione pratica di altarino o bruciaprofumi come molti modelli in pietra (che giustificherebbe lo slargo in cima quale vaschetta rituale). Basti pensare al perfetto esemplare proveniente da Olmedo, o al famosissimo modello bronzeo trovato ad Ittireddu, che presenta il particolare di essere collocato a lato del modellino di un altro edificio, rettangolare e col tetto a spiovente, interpetato solitamente come un tempietto a megaron, o da Mauro Zedda come un tempio a pozzo. Ora se uno è l’immagine di un megaron o di un pozzo sacro, perché l’altro non dovrebbe essere un nuraghe? Entrambi edifici templari, attinenti alla sfera sacrale, e riprodotti con attenzione ai particolari simbolici più che alla resa realistica, come farebbero chiaramente pensare le due colombelle poste in cima agli spioventi del tetto del megaron/pozzo in posizione perpendicolare tra loro a rappresentare chiaramente gli influssi spirituali che giungono al tempio (e io direi ad “entrambi i templi” che presentano lo stesso orientamento degli assi principali) da direzioni astrali tra loro perpendicolari di cui una è l’asse d’ingresso (si veda quando dice Mauro Zedda in ASTRONOMIA DELLA SARDEGNA PREISTORICA 2013, p.186). E d’altronte nell’antichità non era infrequente rappresentare i templi sotto forma di modellini (ad esempio in argilla, come quelli risalenti all’epoca neolitica rinvenuti in Romania o nei Balcani – Eliade, STORIA DELLE CREDENZE E DELLE IDEE RELIGIOSE – vol.I p.63).
Ebbene, anche i modelli in bronzo, come quelli in pietra, riproducono chiaramente lo slargo in cima di “tutte le torri” e delle mura del quadrilobo, con evidenza chiara degli incavi dei mensoloni litici (dalle foto del modellino di Olmedo il numero dei mensoloni di ognuno dei due lati visibili nelle foto mi pare sia 7, cosa che, se confermata, potrebbe avvicinarsi alle tesi di Donatello Orgiu (La Dea Bipenne 2013), in relazione all’interpretazione delle fasi del ciclo lunare e annuale).
Le icone cosmiche miniaturizzate (i modellini) e maxi (i nuraghi) presentavano quindi quello strano particolare della raggiera e dello slargo (particolare anomalo perché se lo siano “inventato” i postnuragici dal nulla!), probabilmente accentuato eccessivamente nei modellini, e nella realtà delle torri meno sporgente, e magari anche privo della funzione pratica di sorreggere le assi in legno di un terrazzo, o di un semplice parapetto protettivo, ma dalla pregnante e rilevante funzione simbolica di rappresentare la corona radiante di corna/raggi che circonda la porta solare all’apice della cupola cosmica, come ho provato ad interpretare nel mio libro (p. 36), e che anche Pittau in qualche modo sembra confermare. Particolare, che se complicava inutilmente, dal punto di vista pratico, sia la realizzazione architettonica che quella scultorea, evidentemente doveva avere una funzione simbolica non eliminabile agli occhi di quelle popolazioni.

sabato 23 agosto 2014

Cambio di paradigma?


di Franco Laner

Prime impressioni di lettura del libro di Alessandro Mannoni “Religione e spiritualità nella Sardegna nuragica” Ed. Agorà nuragica, Cagliari, 2014

Metto in atto uno dei tre consigli che Massimo Pittau mi ha dato: quello di occuparmi di archeologia con gli strumenti della mia disciplina, ovvero la costruzione. Gli altri due consigli, che ovviamente seguo, riguardano la vecchiaia (non smettere mai di studiare, altrimenti sei finito e l’altro –ottimo- di indossare le mutande lunghe di lana appena inizia l’inverno, come presidio a tanti guai fisici!)
Ecco che il libro di Mannoni sfugge al mio giudizio, poiché di religione, antropologia, archeologia, astronomia, epigrafia, ecc. ecc., tutte materie che concorrono ad una visione del paesaggio nuragico, sono solo un lettore. Pure alcune riflessioni sul libro appena edito, le pongo in discussione.
La prima –e come non potrei entusiasmarmi?- è che il meticoloso ragionamento e la puntuale e ponderosa ricognizione bibliografica di Mannoni lo porta ad escludere la funzione militare dei nuraghi. Spazza definitivamente una teoria a cui ancora si aggrappano archeologi isolani nostalgici e che tanto danno ha arrecato allo sviluppo della conoscenza e alla ricerca. Niente come la teoria militare ha nociuto alla conoscenza e alcuni corollari, figli di quell’errata e risibilissima visione, purtroppo ancora impestano recenti pubblicazioni e convegni, specie nel lessico fuorviante e nell’interpretazione dei materiali di scavo.
Messa dunque una pietra tombale su questo infausto paradigma -la storia della conoscenza in ogni settore ha degli sbandamenti- si apre un largo campo per filosofare.
In questo quadro inserirei il contributo di Mannoni poiché l’apertura al sacro si presta a nuovi interrogativi. Ad esempio la visione del nuraghe-tempio, inaugurata da Pittau, va meglio specificata.
C’è infatti l’evidente rischio –anche se Mannoni cerca in qualche modo di superarlo- di bloccare e ridurre la complessità del nuraghe alla destinazione di luogo di culto, assembleare e rituale. Insomma al tempio-chiesa, al tempio luogo di riti, al tempio edificato al dio nuragico o pantheon. Sarebbe riduttivo e fuorviante.
Per capire la costruzione fisica del nuraghe, riportata in “Accabadora” e aggiornata in “Sa ‘ena”, mi è stata di fondamentale aiuto la lettura di Mircea Elide. Senza, mai avrei capito come l’atto costruttivo non potesse essere scisso dalla sua sacralità e tantomeno ne avrei capito le intenzioni. Né avrei capito il profondo significato della sacralità dell’atto fondativo, del “centro”, dell’elevazione, della tholos, della separazione sacro-profano. Nemmeno della tecnica piegata al fine di aprire l’apice della cupola dove passa l’axis mundi, che collega inferi-terra-cielo. Allora ho ammirato l’abilità costruttiva a secco, innovativa e sofisticata, impiegata per raggiungere finalità semantiche, spirituali, cosmogoniche, astronomiche.
Finalità –tutte congelate nel nuraghe- soprattutto intese a mettere ordine, cosmizzare lo spazio ed il tempo, con riferimento al cielo, preciso, iterato, ineludibile e rassicurante.
L’altra grande categoria, che grazie al grande storico delle religioni, che anche Mannoni ha posto al centro della sua ricerca sulla spiritualità nuragica, è la concezione del tempo circolare, che permeava la visione del mondo, la religione appunto, l’arte, la vita.
In questo complessissimo quadro si innesta il nuraghe, luogo sacro, ierofanico, gnomone e metronomo, marcatore territoriale, “confine” con l’accezione di riferimento di derivazione dolmenica che ho descritto in “Sa ‘ena”. Se “tempio” racchiude tutto ciò, allora mi sta bene la destinazione a tempio del nuraghe!
Il nuragico –come premette Mannoni- è caratterizzato dall’aniconicità, ovvero porta ad una spiritualità che intendo come una sorta di animismo, non ad un dio creatore, o un dio da adorare o temere: la spiritualità permea ogni cosa, la natura, la vita e l’uomo.
La fase iconica è per me per certi versi preceduta da quella aniconica. Ad esempio i betili mammilliformi di Tamuli, che assommano maschio e femmina, l’ermafrodita, è per certi versi ancora aniconica, anche se tenta di raffigurare la perfezione, la spiritualità che non può aver attributi maschili o femminili. A questa aniconicità mi pare doversi assegnare gli antropomorfi precipitanti stilizzati in alcune Domus che lo stesso Lilliu definisce “anime”.
La visione di tempio in onore di dio anche da questo punto di vista andrebbe meglio specificata, perimetrata, definita. Ora ne ho ancora un contorno indeciso, ma mi sembra riduttivo pensare semplicemente al nuraghe come tempio.
Un notevole contributo deriverà, come penso, dall’epigrafia nuragica, oggi difficilmente negabile, visto che grazie a Sanna e Losi sta presentando una cifra di forte inferenza.
Da queste primissime notazioni al libro di Mannoni sento la necessità del confronto, che scenda anche nei particolari e dettagli che sostengono la visione della religiosità nuragica e dei modi con cui si esplicitava.
Ad esempio, ovviamente a mio parere, è ora di smetterla con la visione del nuraghe che in sommità si allarga a sbalzo. Questo ipotetico aggetto prima era congeniale alla difesa piombante, ora diventa una terrazza rituale allargata. Per questo profilo si portano a prova fantomatici modellini di nuraghe, oppure colonne con capitello che possono avere svariate funzioni, ma mai mi convincerò che siano maquette di nuraghi. Che bisogno c’era di fare un modello di nuraghe?
L’allargamento apicale è costruttivamente illogico ed impossibile per la muratura a secco. Al massimo si possono ammettere singoli mensoloni, che portano solo se stessi.. Lo stesso Pittau, che non è un tecnico ma ha il senso del grave, risolve originalmente la questione dei rarissimi nuraghi con possibili , rari, mensoloni.
Le leggi della gravità, che soggiacciono alla costruzione, si fanno rispettare senza le nostre fantasiose ipotesi!
E così lascerei perdere presunti scoop topografici, triangolazioni, conoscenze tecniche improprie non solo al nuragico, ma anche a qualsiasi civiltà coeva. Il pericolo di usare strumenti moderni e contemporanei per risolvere problemi del passato deve essere costantemente tenuto presente, pena la decontestualizzazione e risibilità delle deduzioni.
Libro da meditare e quindi rileggere, ma che soprattutto che apre al confronto, non solo sui blog, ma è necessario organizzare conferenze, perché il tema della religione nuragica è fondamentale.
Ora non si può più snobbare, ignorare e tacere.
Nuove discipline e reinterpretazioni, come l’archeoastronomia, la linguistica (ora anche l’epigrafia), la costruzione, la religione, non più ferma a Pettazzoni, e tante altre, hanno sdoganato l’archeologia nuragica. Muore il paradigma taramel-lilliano –bella la definizione di Zedda!- e si apre un nuovo paradigma per l’interpretazione del paesaggio nuragico.

mercoledì 30 luglio 2014

Attilio Mastino e i capitelli di Monte Prama

di Mauro Peppino Zedda

Qualche giorno fa (29 Luglio), su L’Unione Sarda è stato pubblicato un articolo di Attilio Mastino, che tesse le lodi alla sinergia messa in campo dalla Soprintendenza di Cagliari e Oristano e delle Università di Cagliari e Sassari, nella gestione degli scavi archeologici nel sito di Monte Prama a Cabras.
Su un passo dell’articolo di Mastino mi piace discutere, quando scrive: “Il giorno 30 Giugno si è rinvenuto un grande frammento di modello di nuraghe a terrazzo quadrangolare, noto in un altro esemplare nel Museo di Cabras. Per questi due modelli di nuraghe monotorri non si può ancora escludere una loro funzione architettonica come capitelli”.
Come noto Mastino si occupa del periodo romano, dunque anche di capitelli, mentre gli archeologi nuragologi sardi sembra non sappiano distinguerli da un modello di nuraghe.
Nel Museo e nelle pubblicazioni di Campus e Leonelli resti di colonne con capitello quadrato vengono confusi ed interpretati come modelli di nuraghe a terrazzo quadrato! Su questo importante (ai fini dell’interpretazione del sito) fraintendimento nessun archeologo nuragologo ha mosso delle critiche, per loro è normale che uno spezzone di colonna con capitello quadrato venga considerato alla stregua di modello di nuraghe a terrazzo quadrato!
Peccato che non esistano nuraghi a terrazzo quadrato!
La questione della pessima interpretazione delle colonne con capitello quadrato rinvenute in quel di Monte Prama, era stata messa in luce da Franco Laner nello splendido libro Sa’Ena, Sardegna Preistorica dagli antropomorfi ai telamoni di Monte Prama (ed. Condaghes 2011).
Laner definì la maldestra interpretazione degli archeologi nuragologi come “una delle più solenni cantonate”.
Dopo le critiche feroci di Franco Laner, ora arriva il delicato segnale da Attilio Mastino, sono curioso di capire quanti anni ci impiegheranno gli archeologi nuragologi a correggere la loro cantonata o meglio capitellata!


mercoledì 11 giugno 2014

Gigi Sanna e Aba Losi, epigrafisti acrobati


di Mauro Peppino Zedda

Da una ventina d’anni Gigi Sanna sostiene l’ipotesi che i nuragici utilizzassero la scrittura.
Le sue ipotesi sono state pubblicate in libri e nei blog di Gianfranco Pintore e Monte Prama, gestito da Atropa Belladonna pseudonimo di Aba Losi, Biofisica nell’Università di Parma.
Per quanto mi consta gli studi di Sanna non sono mai stati ospitati in nessuna rivista scientifica di epigrafia e nessun epigrafista accademico ha mostrato segnali di plauso alle tesi di Sanna.
Le più antiche attestazioni di segni che rimandano ad una scrittura nella preistoria isolana sono presenti nei lingotti ox-hide rinvenuti in gran copia in Sardegna, ma è ormai certo, salvo impreviste retromarce da parte dei chimici di mezzo mondo, che i lingotti ox-hide ritrovati in Sardegna sono costituiti da rame cipriota e sono stati fusi o a Cipro o nelle dirimpettaie coste siriane.
Qualche altra iscrizione è stata rinvenuta in manufatti appartenenti al Bronzo Finale (1150-1000 a.C.) e all’età del Ferro (1000-750 a.C.), di cui hanno trattato gli archelogi Paolo Bernardini, Giovanni Ugas, Raimondo Zucca e Maria Ausilia Fadda.
Faccio notare che nel Bronzo Finale è terminata l’epoca in cui si costruivano i nuraghi e in Sardegna arrivarono popolazioni dal Levante Mediterraneo come ha ampiamente dimostrato Sandars (per approfondire v. Archeologia del Paesaggio Nuragico).
Gigi Sanna e la sua fedele assistente Aba Losi, attraverso il blog Monte Prama sono fortemente critici verso gli archeologi sardi, rei, secondo loro, di nascondere i reperti e di non convalidare l’autenticità di iscrizioni ritrovate da boys scout loro seguaci.
Ho provato a cercare di capire le proposte di Sanna e Losi, ma di fronte a delle procedure che hanno più a che fare con l’enigmistica piuttosto che con l’epigrafia non riesco ad accettare la loro proposta. Mi par di intendere che utilizzando il sistema Sanna-Losi si riesce a leggere tutto ciò che si vuole. Formidabile esempio di quanto affermo lo si può rilevare nel libro che Sanna ha dedicato all’interpretazione della stele di Nora. Il modo con cui presenta la decifrazione dell’iscrizione è di tipo enigmistico-acrobatico.
Volendo assimilare un normale epigrafista ad un maratoneta, Gigi Sanna e Aba Losi rappresenterebbero degli eccellenti acrobati.
Qualche giorno fa Gigi Sanna ha pubblicato la sua ultima acrobazia epigrafica (Mistras di Cabras. Il magnifico pozzo sacro scritto di Yabal Yan’a Toro della Luce) nel blog Monte Prama, si tratta della sua decifrazione delle iscrizioni presenti nel bordo delle pietre sommitali nel pozzo di Mistras a Cabras.
Secondo Sanna il pozzo di Mistras sarebbe un pozzo sacro nuragico, e da ciò si comprende che Gigi Sanna non conosce come sono costruiti i pozzi sacri nuragici.
Per far intendere la differenza ai profani è come scambiare una farfalla con un elefante!
Ho chiesto a Sanna chiarimenti sui motivi per cui definiva nuragico quel pozzo (palesemente non nuragico), e mi ha risposto in malo modo.
Poi, quando gli ho fatto notare che nelle iscrizioni si legge, chiarissimamente, la scritta 1942 S.V. ha iniziato a sciorinare acrobazie epigrafiche, balbettando puerili risposte alle puntuali osservazioni di Franco Laner.
Confesso che nel momento in cui segnalavo che sulla lastra vi è palesemente scritto 1942 S.V. mi aspettavo che Sanna avrebbe ammesso la svista, ma così non è stato.
Pur in presenza di un pozzo non nuragico e di una data, Sanna ha continuato imperterrito a sostenere che si trattava di una iscrizione nuragica.
Infine Aba Losi mi ha bannato dal suo blog quando facevo notare che la sequenza numerica 1942, ha un inequivocabile significato calendariale in quanto il numero 1 si trova in prima posizione, mentre con qualsiasi altro segno in testa a numeri a quattro cifre non si otterrebbe un numero avente un significato calendariale. Insomma anche la logica dei numeri corroborava il fatto che1942 rappresenti una data.
Credo proprio che Aba Losi abbia capito che l’impalcatura teoretica del suo maestro rischiava di affondare nel pozzo di Mistras e non sapendo che pesci pigliare mi ha tolto la possibilità di fare commenti e infine ha chiuso a chiunque la possibilità di commentare la fantasmagorica acrobazia epigrafica di Gigi Sanna.
Prendiamo atto che Gigi Sanna non sa distinguere un pozzo sacro nuragico da un pozzo comune di epoca recente e che non tiene conto che è usanza comune incidere delle date sugli archi e sulle fontane, in occasione della costruzione o ristrutturazione.
Nonostante il ruzzolone, spero proprio che questa non rappresenti l’ultima acrobazia epigrafica di Gigi Sanna, spero proprio di no, leggere Sanna (unitamente alla sua discepola Aba Losi) e come leggere un bel testo di Pindaro! Sanna scrive bene e possiede una sfrenata fantasia, per riuscire a trovare il paleonuragico in una data bisogna essere veramente bravi, quasi eccelso direi

domenica 15 dicembre 2013

Astronomia nella Sardegna Preistorica


di Franco Laner



La prima considerazione che mi è venuta da fare, solo sfogliando il nuovo libro di Mauro Peppino Zedda, riguarda l’enorme mole di dati rilevati. Ho contato più di 600 DdJ (Domus de janas) e più di 300 TdG (tombe di Giganti) e poi dolmen, pozzi, megaron, senza contare la caterva impressionante di nuraghi e mi chiedo: quanti erano i rilevatori? Quanto è costata questa ricerca, viaggi, ordinare e interpretare i dati, scrivere ed impaginare?
Qual è l’Istituzione o l’Ente che ha finanziato la ricerca?
E soprattutto a fronte di quale impegno finanziario è stata possibile la pubblicazione?
La domanda è ovviamente pleonastica. La risposta è che Mauro se l’è pensata, fatta e pubblicata da solo! Fosse stata commissionata dall’Istituzione, mettiamo Università o Soprintendenza, avremo una sola voce: cospicuo finanziamento: resoconti in qualche remoto cassetto, che non vedranno mai la luce, forse una pubblicazione, sicuramente un convegno sponsorizzato!
In sintesi: chi fa, lo fa a sue spese. Chi non fa, lo fa coi soldi dello Stato!
L’ immediata considerazione è subito confortata dalla presentazione di Juan A. Belmonte, dell’Instituto de Astrofisica de Canaries che giudica straordinario il lavoro di Mauro per la gran mole di dati: "esta es sin duda la maestra de datos arqueastronomicos mas estensa recogida jamas en un intorno geografico tan limitado" (questa è senza dubbio la raccolta di dati archeoastronomici più estesa mai raccolta in un ambito geografico ristretto).
Questa caterva di dati interpretati ed analizzati, consentono a Mauro, continua l’astrofisico spagnolo, di legittimare le teorie che ha sostenuto negli ultimi 25 anni, in particolare il contributo che l’archeoastronomia ha dato all’archeologia, alla storia delle religioni e alle sue decisive implicazioni per la comprensione del paesaggio archeologico sardo.
Appena per inciso ricordo che Zedda ha voluto e trovato fin dall’inizio delle sue ricerche interfaccia e confronto con i contemporanei cultori di archeoastronomia, come Hoskin (università di Cambridge), Ruggles (università di Leicester), Arnold Lebeuf (università di Cracovia) e ovviamente Belmonte. Inserito in questo consesso internazionale le sue ricerche hanno avuto il conforto scientifico e convalida dei risultati.
A fronte ai dati rilevati non parlerei nemmeno più di interpretazione statistica di campioni, perché il campione è una parte casuale della totalità dell’intera popolazione tipologica che si vuol analizzare. I dati rilevati per analizzare l’orientamento dei monumenti sono estesi a tutta la popolazione e quindi più che di interpretazione di un campione si deve parlare di inferenze deduttive, logiche e consequenziali con riferimento alla totalità dei dati di orientamento.
Fra le teorie che vengono validate dall’approccio archeoastronomico inaugurato da Mauro e che mi stanno particolarmente a cuore, è che d’ora innanzi non si potrà più parlare, a meno di non farlo a vanvera, di nuraghe con destinazione diversa dalla sfera del sacro.
Le considerazioni che l’Autore svolge nel capitolo 12 a questo proposito, totalmente condivisibili, aggiungono altre ragioni per abbandonare definitivamente le teorie militari sulla funzione del nuraghe, che sembrano comunque trovare nuovi adepti purtroppo anche nell’Archeologia ufficiale isolana, aggiungendo nuovi danni e fuorvianze a quelle già consumate da Taramelli e Lilliu e discepoli, sia appartenenti all’Accademia sia alla Soprintendenza, che non meritano nemmeno la citazione dei nomi.
Sarebbe comunque riduttivo giudicare il lavoro come censimento e misurazione dei monumenti sardi dal punto di vista archeoastronomico e relative inferenze.
Il libro apre un nuovo e vasto campo di indagine che riguarda la dislocazione territoriale dei monumenti e le possibili considerazioni che ne derivano (capitolo 8). La storia degli studi in questo settore è assai recente, meno di 20 anni. Mauro riprende le considerazioni di Mauro Maxia sulla dislocazione dei nuraghi dell’Anglona, riprende le sue considerazioni sul territorio di Isili, fino ai recenti studi di Augusto Mulas e Roberto Serra. L’eccezionale scoperta di Mulas sulla coincidenza fra la posizione in cielo delle Pleiadi e in terra dei nuraghi che fanno capo al S. Antine è comunque valida -qui dissento dal giudizio di Mauro (pag. 149)- anche se fosse unica. In questo caso l’unicum, proprio per la sua assolutezza probabilistica, diventa prova scientifica, per chi pensa, come da tempo penso, che ciò che è in cielo così in terra, con i tanti corollari che ne seguono, in primis quello di cosmizzare spazio e tempo, funzione primaria dei nuraghi, strumento di razionalizzazione per gli uomini che hanno nella geometria celeste, nell’astronomia, il riferimento sicuro e logico con cui operare la ri-creazione dei riferimento spazio-temporale.
Voglio dire che se l’unicità di un reperto non consente deduzioni generali, proprio per il pericolo di casualità’ e quindi di inattendibilità e generalizzazione, lo sovrapposizione della mappa celeste delle Pleiadi con quella terrena, non lascia scampo al dubbio scientifico.
Considero infine il lavoro di Mauro con doppia valenza.
Da una parte mette un macigno sulla questione della legittimità del giudizio -anche, ma non solo- archeoastronomico dei monumenti della presistoria sarda (Belmonte si esprime così: Es mi opinion sincera che està destinada a ser un hito (pietra miliare) en la arquelogia sarda), ma dall’altra apre intelligentemente l’angolo visuale dal monumento al territorio, ovvero lo apre sul paesaggio, definizione a lui cara, da non intendersi come “panorama”, bensì paesaggio come insieme del risultato di antropizzazione, fisica e culturale, ipostasi della storia del territorio, palinsesto che restituisce, se sapientemente “grattato” , la possibilità di ricostruire il passato dell’Isola.

Venezia, 24 novembre 2013

mercoledì 27 novembre 2013

Archeoastronomia alla Cabizza-Forteleoni

di Mauro Peppino Zedda

Alcuni giorni fa un archeologo mi ha chiesto perché nel libro Astronomia nella Sardegna Preistorica non abbia citato lo studio sull’orientamento delle domus de janas eseguito dai due astrofili Turritani, Gian Nicola Cabizza e Michele Forteleoni.
Credo che la risposta che ho dato all’archeologo possa interessare tutti coloro che sono interessati all’archeoastronomia.
La ragione di fondo consiste nel fatto che in Astronomia nella Sardegna Preistorica ho scelto di non citare le pubblicazioni che non rispondano a criteri di scientificità tra le quali rientra anche il lavoro di Cabizza e Forteleoni (“La misura del tempo”, risultati preliminari, in Cronache di Archeologia, vol 8, 2011).
Cabizza e Forteleoni hanno analizzato l’orientamento di 156 domus de janas distribuite in 19 necropoli della Sardegna Nord-occidentale, buona parte delle quali rientra tra le 300 (circa) che avevo esaminato e pubblicato assieme a Juan Antonio Belmonte (“From Domus de Janas to Hawanat: on the orientations of rock carved tombs in the Western Mediterranean” in proceedings of the SEAC 2005 Lights and Shadows in Cultural Astronomy, Isili).
Tra il 2005 e il 2012, ho continuato misurare l’orientamento delle domus de janas, e in Astronomia nella Sardegna Preistorica vi è l’analisi archeoastronomica dell’orientamento di 649 domus de janas.
Delle 156 domus de janas esaminate da Cabizza e Forteleoni, una quarantina non rientrano tra le 649 sulle quali ho basato le mie analisi.
Se Cabizza e Forteleoni avessero misurato l’orientamento delle domus de janas attenendosi ai criteri che seguono gli archeoastronomi di tutto il mondo, avrei potuto confrontare le mie misurazioni con le loro e sommare al campione di 649 quella quarantina di domus da loro misurate ed inedite.
Purtroppo la procedura di misurazione seguita da Cabizza e Forteleoni è superficiale almeno quanto l’apparato bibliografico che presentano a corredo del loro articolo.
Dell’orientamento delle 156 domus, presentano infatti solo l’azimut, che non sarebbe il vero azimut geografico, ma un azimut corretto con l’altezza dell’orizzonte visibile (cfr pag. 31 dell’articolo citato).
Vi è da chiedersi perchè i due astrofili Turritani non abbiano seguito le procedure comunemente seguite dagli studiosi di archeoastronomia di tutto il mondo?
Perché Cabizza e Forteleoni, non presentano i dati relativi all’azimut geografico, all’altezza dell’orizzonte e alla declinazione di ogni singolo orientamento?
Forteleoni e Cabizza si sono “dimenticati” di presentare i dati fondamentali dell’orientamento ovvero l’azimut geografico e l’altezza dell’orizzonte. Sarebbe come se un archeoastronomo serio non citasse i dati relativi all'azimut geografico e all'altezza d’orizzonte e impostasse la sua disquisizione citando solo i dati in termini di declinazione.
Per meglio intenderci Cabizza e Forteleoni hanno operato come un architetto che dopo aver misurato un nuraghe indicasse solo il volume, dimenticandosi di indicare la larghezza e l’altezza del monumento. Anzi Cabizza e Forteleoni hanno fatto di peggio perchè invece della declinazione hanno adottato un “azimut corretto”, come se un architetto ci indicasse il volume con un sistema diverso da quello internazionale.
Il loro azimut corretto potrebbe rappresentare una sorta di maldestro surrogato della declinazione, ma la mancata presentazione dell’azimut geografico e dell’altezza dell’orizzonte che caratterizzano ogni singolo orientamento fa in modo che i dati della loro analisi non siano cumulabili e confrontabili con quelli derivanti da procedure ortodosse.
Il loro studio oltre ad essere bizzarro dal punto di vista procedurale, non aggiunge niente all’interpretazione dell’orientamento delle domus de janas proposta da me e da Juan Antonio Belmonte nel 2005 e riproposta nel libro Astronomia nella Sardegna Preistorica.
Certamente mi sarebbe piaciuto confrontare i risultati delle mie misurazioni con le loro, ma il loro modo di procedere, una sorta di archeoastronomia alla Turritana, contrasta con le procedure comunumente seguite in tutto il mondo. Nel loro opuscolo hanno citato Clive Ruggles come esempio da seguire nelle ricerche archeoastronomiche e su questo sono pienamente d’accordo, ma probabilmente è solo una dichiarazione d'intenti dato che il loro modo di procedere non tiene minimamente conto di quanto suggerito dal Presidente dell’ISAAC (International Society for Archaeoastronomy and Astronomy in the Culture).
Dopo queste spiegazioni, l’archeologo curioso sulla mancata citazione dello studio sulle domus de janas eseguito dei due astrofili Turritani, mi disse che avrei dovuto citarli e criticarli nel libro. Avrà forse ragione l’archeologo, ma stà di fatto che ho preferito non citare criticamente uno studio archeoastronomico alla “cabizza-forteleoni” che dal punto di vista interpretativo niente aggiunge a quanto già noto e dal punto di vista metodologico è inadeguato.
Ovviamente spero che Cabizza e Forteleoni presentino i loro futuri eventuali studi in accordo con i dettami e le procedure dell’archeoastronomia internazionale, invece che nella loro indigeribile salsa turritana.