sabato 18 aprile 2015

Il nome etrusco dell'acqua


di Giovanni Feo

Quando diversi ricercatori giungono ad una medesima proposta, in seguito a differenti percorsi di ricerca, diventa forte la possibilità che quella proposta abbia colto nel segno.
È questo il caso di un’importante radice etimologica etrusca, UR, tradotta in modo identico da diversi autori, ciascuno seguendo una propria personale via di decifrazione.
Il primo è il linguista ed etruscologo Zacharie Mayani, il cui lavoro è stato esageratamente contestato per alcune sue erronee interpretazioni (ma chi non sbaglia mai?), mentre non sono state accolte le sue tante e positive decifrazioni di molti testi etruschi.
In un suo libro (The Etruscan begin to speak, 1961, pag. 227), Mayani spiega come sia giunto, grazie alla comparazione con l’antico “illirico”, a stabilire che il radicale etrusco UR abbia significato di “acqua”. A tale proposito l’autore cita il caso della dea etrusca Uthur, a Roma chiamata Giuturna, dea delle fonti e delle acque.
A medesimi risultati è giunto l’insigne filologo Giovanni Semerano che, nel suo libro “Il popolo che sconfisse la morte”, alla voce “Orcia” (pag. 85) scrive che l’etrusco URCH ha il significato di “acqua”. Semerano, per le sue decifrazioni utilizzava particolarmente la comparazione con l’accadico, il sumero e le lingue semitiche.
Un valente linguista sardo, Massimo Pittau, è giunto ad analoghe conclusioni (vedi www.pittau.it), pubblicando un testo dal significativo titolo: “etruschi, urina, uri, vri – svizzero e sardo Uri – basco UR”.
Pittau mette in risalto alcuni nessi filologici ed etimologici tra diverse lingue – etrusco, basco, sardo, svizzero – così da scrivere: “Di questa quadruplice convergenza linguistica a me sembra che l’unica spiegazione sia questa: la base UR, “acqua”, è ascrivibile al sostrato linguistico mediterraneo…”
A quanto sostenuto dagli studiosi fin qui citati, posso infine aggiungere il nome dell’etrusca dea della “fortuna”, venerata al Fanum Voltumnae di Volsinii e chiamata in età etrusca-romana Northia; alla dea risaliva la bolsanese gens Nursina (vedi La dea di Bolsena, ed Effigi, 2014).
Il nome Northia deve derivare da un termine più antico, in quanto nella scrittura etrusca non è presente la vocale O. la parola originaria sarebbe quindi URTHIA, presente nelle varianti Ursia e Urcla, da cui le città etrusche di Norcia, Norchia, Vitorchiano e il fiume Orcia (come già evidenziato da Semerano). La dea della Fortuna, nel mondo etrusco e romano (e non solo) ebbe quale suo elemento primario l’acqua. La dea fu raffigurata anche come sirena bicaudata e i suoi simboli furono il timone e la vela, strumenti con i quali poteva salvare i naviganti dai pericoli dei “fortunali", le insidiose tempeste del mare.

venerdì 27 marzo 2015

Religione e Spiritualità nella Sardegna Nuragica


di Fabrizio Sarigu

Il libro Religione e Spiritualità della Sardegna Nuragica (2014) di Alessandro Mannoni, prima opera dell’autore formatosi in filosofia e storia delle religioni, si prefigge l’obbiettivo della ricostruzione della fenomenologia del sacro in Sardegna nel periodo tra il II millennio a.C e il I millennio a.C , che vede, secondo gli inquadramenti cronologici più accreditati, l’estrinsecarsi della principale civiltà autoctona dell’isola, la civiltà nuragica.
Gli studi condotti in ambito accademico sulla civiltà Nuragica non sono a ogni buon conto giunti a formulare in maniera compiuta una “storia della religione protosarda” , nonostante i dati paleoetnologici, archeologici e filologici fin qui acquisiti. In effetti è possibile menzionare il pionieristico lavoro di Raffaele Pettazzoni, fra i più eminenti storici delle religioni degli inizi del ‘900, che per primo si cimentò nell’impresa di delineare una preliminare organizzazione e interpretazione, nell’ottica della fenomenologia del sacro, del materiale archeologico fin li riscoperto. Dopo questo primo ammirevole tentativo, ancorché da contestualizzarsi nei limiti scientifici e nei pregiudizi evoluzionistici tipici delle teorie antropologiche dell’epoca, il mondo accademico sembra aver trascurato la necessità di analizzare in modo più approfondito le forme della religiosità arcaica sarda accontentandosi di una comprensione sommaria e pressapochista, accostandosi ad essa con una certa superficialità e frettolosità. Infatti non si riscontrano altri specialisti in storia delle religioni che si siano accostati al problema e l’ambiente archeologico sardo continua a palesare dei limiti di formazione (e quindi preparazione)consistenti, accanendosi nello snobbare, entro i curricula universitari previsti per gli archeologi, la creazione di almeno un corso di storia delle religioni o di fenomenologia del sacro. Questo affinché gli specialisti del settore siano preparati a riconoscere i segni della spiritualità nei segni materiali che i nostri antenati ci hanno lasciato, sulla cui analisi si concentra piuttosto tutta la loro professionalità (fortunatamente alcuni avvertono la lacuna colmandola autonomamente). Invero alcuni autori come Zervos e Lilliu si sono cimentati in queste problematiche all’interno però di un discorso descrittivo più ampio inerente l’esposizione della civiltà sarda nel suo complesso, limitandosi quindi a qualche capitolo, quantunque in alcuni casi non manchino interessanti intuizioni. Pare quindi riscontrare uno strano vuoto conoscitivo e di settore di interesse che lascia straniti e confusi, potendo cogliere quanto sia fondamentale la comprensione della spiritualità di un popolo per la ricostruzione storica e archeologica dello stesso.
Questa sorta di silenzio è stato così colmato da studiosi di altre discipline, architetti, archeoastronomi, antropologi, linguisti, psicologi che, sensibili al fascino di questo argomento e attraverso la ricchezza di un approccio multidisciplinare, hanno cercato di apportare contributi di crescita e di innovazione alla ricostruzione del sacro arcaico sardo.
L’autore può dunque essere inserito entro questo filone di ricerca, non prettamente accademica, ma che è stata capace comunque di apportare contributi estremamente interessanti alla comprensione di questo fenomeno, contributi di cui anche il mondo accademico, timidamente, inizia ad interessarsi. L’argomentazione di Mannoni muove a partire dalla constatazione, condivisa anche da altri autori, che la civiltà nuragica debba essere meglio divisa in due macroperiodi, il cui momento di discontinuità si individua nel passaggio a cavallo tra i secoli del bronzo finale e dell’età del ferro. In questa fase vi sarebbe stata una vera e propria rivoluzione religiosa che segnò il passaggio da una religiosità aniconica e tendente all’astratto verso una palesemente iconica tipica delle civiltà affacciantisi nel mediterraneo dell’epoca. A partire da ciò, l’opera si articola in due parti, ciascuna delle quali cerca di analizzare le specificità, nelle manifestazioni del sacro, delle suddette fasi storiche. Così, la prima fase, che interessa la maggior parte del II millenio e che potrebbe dirsi propriamente nuragica, appare fondata su una visione aniconica e astratta del sacro, tipica del megalitismo occidentale, centrata su un culto cosmico/astrale legato alla struttura dello spazio e del tempo e delle relazioni fra essi, attraverso un processo quasi ossessivo di cosmizzazione del territorio (che automaticamente ne ottiene l’antropizzazione). Tale cosmizzazione concretamente fu ottenuta mediante la riproduzione di un modello geometrico astratto quale icona cosmica ideale, il nuraghe come “montagna sacra”, che avvicinando “il cielo in terra” consente all’uomo arcaico di sentirsi partecipe in maniera totalizzante del creato. Per contro la fase seguente, come precisato collocabile temporalmente nell’età del ferro in cui crebbero i contatti con l’oriente, si caratterizza per un costante ma inarrestabile passaggio verso un’ antropomorfizzazione della divinità. Cade il tabù della rappresentazione della divinità, l’iconicismo si fa imperante e viene a delinearsi un pantheon più simile alla moda orientale, quindi ora necessariamente più ricco di relative specializzazioni in termini di culti e riti e con una divisione ormai netta e marcata fra sacro e profano.
Proprio nella difficoltà di riconoscere la forma di una spiritualità aniconica nei segni materiali e nell’evoluzione dello spirito arcaico verso l’iconicismo dei vecchi luoghi di culto nell’età del ferro, con l’effetto di indurre in errore l’accademia giacché gli stessi segni materiali si fanno ora invece più facilmente riconoscibili, risiede l’equivoco di non aver potuto riconoscere nel nuraghe il valore cultuale che ebbero fin ab origo, violentando la spiritualità di una civiltà e rendendola irriconoscibile nascosta dentro un “nuraghe fortezza”.
L’opera, qui necessariamente semplificata e si rimanda ad una approfondita lettura al fine di poter cogliere le compiute argomentazioni proposte, si presenta con un linguaggio preciso, tecnico ma comunque di facile lettura, che accompagna il lettore in un viaggio all’interno della spiritualità dell’arcaico sardo, restituendo, finalmente ad una civiltà così importante, anche la dignità religiosa e spirituale che il paradigma tamarel-lilliano del nuraghe fortezza ha inevitabilmente mistificato e confuso. Tuttavia allo stesso tempo a parere di chi scrive l’opera non presenta ancora quelle caratteristiche di compiutezza di cui si auspica l’arrivo all’interno della ricerca del sacro arcaico sardo. Si tratta di un ulteriore passo avanti, ma si sente la mancanza entro l’opera di un dialogo e un confronto fra le idee precedenti, con spirito critico e analitico, che oltre a riportare la propria visione del problema giunga a delineare un quadro d’insieme di tutte le proposte, anche precedenti temporalmente, dell’arcaico sacro, restituendone una cornice unitaria della storia della religione protosarda.

venerdì 6 febbraio 2015

Rubens D'oriano e l'archeosardismo


di Mauro Peppino Zedda

L’archeologo Rubens d’Oriano, è sceso in prima linea per combattere il fenomeno del fantarcheosardismo (il neologismo è suo) pubblicando un articolo “Le statue di Monte Prama e il fantarcheosardismo” nel libro Le sculture di Monte Prama a cura di M. Minoia e A. Usai, Roma 2014.
Il contributo di Rubens è totalmente slegato dal contenuto scientifico del testo e mi chiedo perché gli archeologi Alessandro Usai e Marco Minoia abbiano acconsentito ad inserire in quel libro, un contributo che tende a confondere e a mistificare la realtà delle vicende scientifiche, culturali e archeologiche che hanno caratterizzato l’ultimo venticinquennio del panorama archeologico della Sardegna.
D’Oriano dà l’idea di essere un dilettante allo sbaraglio,che non ha compreso né i contorni né i veri protagonisti del fenomeno che lui definisce archeosardismo.
D’Oriano assomiglia a colui che vede il gregge in fuga piuttosto che a quello che individua le cause della fuga (voglia di nuovi pascoli e individuazione del varco). Il suo scritto (definirlo saggio è un'offesa alla saggezza) rappresenta un clamoroso passo indietro rispetto al Le Torri di Atlandide di F. Frongia (a cui ho dedicato una critica in questo blog), che seppur caratterizzato da tanti difetti (ha completamente travisato i contenuti dei miei studi di archeoastronomia, spero in buona fede) rappresenta un interessante lavoro.
Ma torniamo a D’Oriano, che inizia col dire che i sardi attuali si sentono discendenti dei soli nuragici, a me pare che D’Oriano enfatizzi un fenomeno irrisorio, penso, infatti, che i sardi siano coscienti di essere il frutto di tutte le genti che in Sardegna sono arrivate, come insegna Grazia Deledda. Ma anche ammettendo che D’Oriano avesse ragione, certamente le cause non sono da ricercarsi nei fantarcheologi alla Leonardo Melis . La quasi totalità dei lettori di Leonardo, ben sa che i suoi libri sono di fantasia. Se vi son Sardi convinti di essere discendenti dei soli nuragici le colpe bisognerebbe attribuirle a Giovanni Lilliu invece che ai fanta! È Lilliu che ha scritto che i pastori della Barbagia sono i discendendi diretti dei nuragici. Sarebbe stato giusto che D’Oriano avesse dato a Cesar-Lilliu ciò che è di Cesar-Lilliu.
D’Oriano è maldestro anche nell’osservare, valutare e comprendere il fenomeno che vedrebbe i sardi attuali come degli indemoniati sostenitori dell’idea che i loro progenitori nuragici-shardana-atlantidei dominassero il mediterraneo e pure l’intero Pianeta! Forse D’Oriano non capisce che se qualcuno dice queste cose lo fa per ridere, e se qualcuno lo dice seriamente gli altri ridono di lui. Ma al di là della sopravalutazione di un fenomeno irrisorio è assolutamente scandaloso e inaccettabile scientificamente il modo in D’Oriano mistifica le cause di questo fenomeno. Le attribuisce a Melis e compagnia tralasciando di dire che è Lilliu il responsabile di aver sentenziato in modo aprioristico l’equazione Nuragici=Shardana (invece di confrontarsi con le ipotesi della Sandars 1978), dimentica di dire che un altro accademico, Giovanni Ugas, sostiene quell’equivalenza (argomentando). En passant mi piace dire che Giovanni Ugas è un Signore con la ESSE maiuscola, nell’esame che ho sostenuto con lui, la discussione è finita sugli shardana e dopo avergli illustrato le sue tesi, aggiunsi che mi parevano più verosimili le tesi contrarie, cioè l’arrivo degli shardana in Sardegna nel XIII sec. A.C., la mia posizione critica verso la sua tesi non impedì a Giovanni di mettermi 30 e Lode).
Rubens d’Oriano appare come un servo “sciocco” quando analizza la questione Sardegna = Atlantide conseguente alla pubblicazione Sergio Frau, già redattore della pagina culturale della Repubblica, ovvero si dimentica di dire che a presentare il libro di Sergio Frau ci sono andati molti archeologi sardi con Giovanni Lilliu in prima fila. In altra occasione in un convegno alla Università di Cagliari cui partecipavano Fantar, Bernardini e Lilliu (nel 2004), uno studente universitario chiese a Lilliu cosa ne pensava delle tesi di Frau e dell’equazione Sardegna=Atlandide, Lilliu rispose che la questione avrebbe fatto bene alla Sardegna. E nessuno degli archeologi presenti disse nulla, che conigli!
Mi piace pure specificare che chi scrive è uno dei 238 studiosi che hanno firmato un documento in cui si metteva in chiaro che i sottoscrittori non condividevano le tesi di Sergio Frau. Sergio Frau fu bravo ad etichettare quel documento come una sorta di scomunica, credo per incapacità di Alessandro Usai a gestire la questione e di andare a criticare il suo maestro.
Ricordo pure con “tenerezza” la chiusura della campagna elettorale di Renato Soru nella aula magna dell’università di Cagliari, a suo sostegno tiscalimen nonché attuale leader in Sardegna del PD e il suo assessore alla Cultura, archeologa Maria Antonietta Mongiu, chiamarono a parlare Giovanni Lilliu e Sergio Frau!
Rubens d’Oriano, sei un uomo o un caporale? Prenditela coi padroni del vapore e non coi frilli!
Nel suo scritto Rubens d’Oriano cita pure lo storico della scienza Thomas Khun (mia autentica passione) e dimostra di travisare e non capire neppure lui! Se gradisce ne possiamo discutere nei commenti.
In chiusura mi piace citare una sua frase di D’Oriano: “L’archeologia e la storia sono discipline rigorose, come la matematica e la biologia che seguono i principi della ricerca scientifica come tutte le altre”.
A D’Oriano rispondo che mi piacerebbe che l’archeologia fosse una scienza come tutte le altre! Quello che è certo è che gli archeologi sardi nell’ultimo quarto di secolo hanno dato prova di non essere stati scientifici nei riguardi degli studiosi, tra cui ci sono anch’io, che hanno studiato l’orientamento dei monumenti della Sardegna preistorica e protostorica. Gli archeologi sardi,purtroppo palesemente ignoranti in geometria, matematica e statistica, Rubens D’Oriano compreso, continuano a confondere l’archeoastronomia con l’ufologia.

sabato 24 gennaio 2015

Un pomeriggio al museo archeologico di Cagliari

di Franco Laner

Martedì 21 gennaio 2015 ho visitato, assieme a Mauro Zedda ed altri, architetti ed ingegneri, il Museo archeologico di Cagliari. Ovvio l’oggetto: le cosiddette statue di Monte Prama.
Dico prima di un piccolo disguido. La visita l’avevo programmata e mi ero documentato per non aver sorprese di chiusura o orari strani (in occasioni precedenti non avevo potuto visitare il Museo: una volta per infiltrazioni d’acqua dalla copertura ed un'altra per ristrutturazione).
Ho cliccato ed immediatamente ho tutte le informazioni:
Informazioni
Indirizzo: Cittadella dei Musei, piazza Arsenale, 1 - 09124 Cagliari
tel. +39 070 684000
Ente titolare: Ministero per i Beni e le Attività Culturali
Orari: 9.00 - 20.00; lunedì chiuso
Biglietto: € 4,00 (dai 25 ai 65 anni ); € 2,00 (dai 18 ai 25 anni); € 5,00 (biglietto cumulativo Museo Archeologico Nazionale + Pinacoteca). Esenzione biglietto fino ai 18 anni e oltre i 65 anni

Peccato però che, nonostante abbia superato i 65 da quel dì, mi impongono il pagamento di 5 euro, perché non dovevo guardare il sito della regione, bensì quello del Ministero…Anche gli altri pagano 5 euro e non 4. Della serie: sciatteria e specchio di come funzionino le cose.
Le cosiddette statue sono diversamente ubicate: due subito e altre con cosiddetti modelli di nuraghe in altro piano.
La vista non ha emozionato nessuno, anzi il contrario. Perciò credo che sia da partire da questo dato di fatto, inequivocabile ed immediato. Ha ragione Mauro, non dobbiamo guardare all’arte, alla proporzione, alla plasticità, in sintesi se sono belle o no, bensì superare tutte le categorie e pensare solo che sia un iniziale tentativo di significare, di semantizzazione, di raffigurazione. Ad esempio, qualche testa ha le orecchie poste non all’altezza degli occhi, bensì 6-8cm più in alto. Non si guardi alla proporzioni delle parti, alla mostruosità delle fattezze: sarebbero categorie improprie!
E’ necessario anche superare l’idea che i frammenti accostati abbiano seguito criteri di coerenza, una testa perfetta con sotto un busto rozzo e diversamente finito, piedini sotto gambe possenti, scudo in testa dove i frammenti sono il 15-20% ed il resto resina…Mai ho trovato migliore definizione: Frankenstein. Ma forse è proprio questa la forza delle cosiddette statue: la comprensione è possibile se si abbandona di fatto ogni categoria di giudizio che la nostra cultura assegna ad una statua.
Uno splendido capitello, con un aggetto enorme, finemente lavorato, ovviamente è definito modello di nuraghe. D’altra parte c’è chi definisce modello di nuraghe anche capitelli quadrati.
Peccato che nel blog di Mauro non si possano mettere foto, perché potrei mostrare la foto del plastico di un nuraghe in scala intorno 1:20 dove i conci stanno su perché incollati, con folli idee costruttive. Insomma una ricostruzione per chi pensa che le pietre stiano su per magia. O per turisti di bocca buona…Ma la cifra di un Museo si misura credo anche con l’aggiornamento scientifico. O si pensa che i visitatore debbano solo divertirsi a constatare corbellerie?
Ho scritto comunque queste due righe per dare ragione a chi contesta l’instabilità di statue su due piedi: le statue romane di marmo mostrate nel Museo hanno oltre alle due gambe, altri sostegni: drappi fino a terra, un cane, un albero, ecc., pero c’è anche la statua di Bes, dio fenicio, quella rinvenuta a Bithia (comune di Domus de Maria), alta un metro e con gambe di almeno trenta cm di diametro. Ebbene ammetto: essa sta su due piedi!

sabato 13 dicembre 2014

Archeoastronomia e turismo culturale

Agorà Nuragica 2014
conferenze, visite guidate.

Cagliari, 18 Dicembre, sala settecentesca Biblioteca Universitaria, via Università, 32/a
Ore 9.30 Apertura lavori, presentazione del progetto Agorà Nuragica
Ore 9.45 saluti di Francesco Morandi Assessore regionale al Turismo, artigianato e commercio Regione autonoma della Sardegna
Ore 10.00 Paolo Littarru: Handbook of Archaeoastronomy and ethnoastronomy
Ore 10.20 Nicola Manca: Turismo culturale in Sardegna
Ore 10.40 Armando Serri: Patrimonio culturale, specchio e vetrina di identità
Ore 11.00 Daniele Congiu: Archeoastronomia e turismo culturale
Ore 11,20 Franco Laner: Ricadute culturali e turistiche della valorizzazione del patrimonio nuragico
Ore 11.40 dibattito
Pausa pranzo
Ore 15,30 ripresa lavori
Ore 15.40 Paolo Littarru: Il significato astronomico del pozzo sacro di Santa Cristina a Paulilatino
Ore 16.00 Marco Sanna: Analisi della disposizione del santu Antine e dei nuraghi circonvicini
Ore16.20 Mauro Peppino Zedda: Il significato astronomico dei nuraghi
Ore 16.40 Franco Laner: Cambio di paradigma nella ricerca archeologica in Sardegna
Ore 17.00 dibattito


Meana Sardo, 19 dicembre , presso salone Parrocchiale
Ore 17,00 apertura lavori
Ore 17,10 Paolo Littarru: Studi archeoastronomici sulla sardegna, nel panorama scientifico internazionale
Ore 17,30 Mauro Peppino Zedda : Orientamento astronomico del nuraghe Nolza
Ore 17,50 Augusto Mulas : Analisi preliminare dell’orientamento delle “capanne delle riunioni” nuragiche
Ore 18.10 Franco Laner: Nuraghi Icona del Cosmo
Ore 18.30 dibattito

Thiesi, 20 Dicembre, presso sala Aligi Sassu
Ore 17,00 apertura lavori
Ore 17.10 Paolo Littarru: Handbook of Archaeoastronomy and Ethnoastronomy
Ore 17,30 A.Mulas e M. Sanna: Analisi della disposizione del Santu Antine e dei nuraghi circonvicini
Ore 17.50 Mauro Peppino Zedda: Il significato astronomico del nuraghe Santu Antine
Ore 18.10 Franco Laner: Funzione, simbolo e costruzione dei nuraghi
ore 18.30 dibattito

Isili, 21 Dicembre, presso sala conferenze Centro Sociale
Ore 9.20 apertura lavori
Ore 9.30 Efisio Santi, presenta il film documentario Astronomia Nuragica
Ore 9.45 proiezione del documentario
Ore 10.30 dibattito


Nei giorni 19, 20 e 21 Dicembre, si potrà assistere a fenomeni archeoastronomici , con visite guidate, nei seguenti luoghi:
Al nuraghe Nolza di Meana Sardo, appuntamento presso il nuraghe fissato per le 7.30.
Al nuraghe Santu Antine di Torralba, appuntamento presso il nuraghe fissato per le 7.30.
Al nuraghe Jua di Aidomaggiore, appuntamento presso il nuraghe fissato per le 7.30.
Alle Domus de Janas Sant’Andrea Priu di Bonorva, appuntamento fissato per le ore 14.00.
Al nuraghe Antine di Isili , appuntamento presso il nuraghe Is Paras per le 7.00 e da li si raggiungerà il nuraghe Antine.

martedì 14 ottobre 2014

Atlandide: Sardegna?

di Fabrizio Sarigu


Ultima Cumaei venit iam carminis aetas
magnus ab integro saeclorum nascitur ordo.
Iam redit et Virgo, redeunt Saturnia regna,
iam nova progenies caelo demittitur alto.
(Bucoliche Ecloga IV, Virgilio)


Ultimamente in Sardegna si sta sviluppando un dibattito legato alla possibile identificazione dell’isola con l’Atlantide di Platonica memoria. Tale dibattito ha preso piede a partire dalla pubblicazione del libro di Sergio Frau “Chi ha spostato le colonne d’ercole”. La tesi del libro argomenta a partire dalla presunta scoperta di un “antico equivoco” per cui le famose colonne d’Eracle, limite del mondo conosciuto dei greci, originariamente si sarebbero trovate presso lo stretto di Sicilia e solo successivamente, con l’ampliamento delle esplorazioni, sarebbero state ricollocate presso Gibilterra. Se questo fosse vero, ne deriverebbe il corollario per cui l’oceano atlantico non sarebbe l’omonima distesa d’acque, bensì il mediterraneo occidentale. Qui la prima isola in cui ci si imbatte, isola di una certa grandezza e importanza, sarebbe proprio la Sardegna. La tesi si spinge inoltre a ipotizzare, per giustificare il racconto del disastro che si narra nel mito platonico, che un immenso tsunami abbia colpito l’antica Ichnusa, distruggendo la civiltà nuragica (identificata come la più verosimile candidata). Il ricordo, in seguito idealizzato di questo “evento”, si sarebbe conservato fino a trasferirsi nel mito Platonico.
Sento il dovere di precisare che chi scrive respinge totalmente questa ipotesi, anche per la totale assenza di prove geologiche a sostegno di qualsiasi congettura su tsunami et similia. Tuttavia, ciò a parte, potrebbe essere interessante procedere ad un’analisi più sistematica del mito platonico.
Il filosofo Platone, nei due dialoghi Timeo (421 a.C.) e Crizia, parla di "un'isola più grande della Libia e dell'Asia messe insieme" collocata oltre le Colonne d'Ercole. Un continente, una volta ricchissimo, potente e popoloso, inghiottito dall'Oceano nel giro di un giorno e una notte perché gli dei vollero punire i suoi abitanti, diventati malvagi ed empi.
Bisogna premettere che ricorrendo alla tecnica narrativa del mito, gli antichi, ovunque nel globo, costruirono un linguaggio tecnico capace di dar conto delle conoscenze scientifiche da loro acquisite, che chiamarono “scienza sacra” (propriamente la loro scienza astronomico/religiosa, da una prospettiva geocentrica). L’importanza e sacralità di questa scienza deriva dal possedere un doppio risvolto, da un lato psicologico/religioso, dando ragione dell’esistenza umana e della creazione del cosmo attribuendo all’uomo un ruolo in esso e alla sua anima un destino futuro, e da un lato pratico, consentendo la creazione dei calendari per la sopravvivenza quotidiana e guidando la costruzione di città e monumenti. Il cielo era il regno dell’essere, luogo sacro per eccellenza, sede del tempo (per Platone “immagine mobile dell’eternità”, ossia il tempo coincideva con i moti planetari) e delle anime, contrapposto alla caducità della vita reale, caratterizzata dalla morte e dal divenire. Il cielo si configurò, nella mente antica, come una sorta di maccanismo di cui la matematica e l’atto di “misurare” costituivano le chiavi per poter accedere alla sua intima comprensione. Questo, tuttavia, in un mondo dove la conoscenza e la sua trasmissione avvenivano per iniziazione. Il mito divenne quindi la tecnica attraverso cui criptare tali sacre acquisizioni di sapere, affinché le informazioni potessero circolare tranquillamente nella bocca delle genti senza che queste potessero tuttavia comprenderne i significati nascosti se non ammesse alla conoscenza. Siamo ben lontani dalla moderna idea dell’acquisizione democratica del sapere, fruibile per tutti.
Il mito atlantideo costituisce un perfetto esempio di come possano essere trasmesse in chiave mitica informazioni scientifiche molto precise. La concezione del cosmo che gli antichi possedevano, che emerge dall’analisi comparata dei miti di popoli nella storia, può essere resa attraverso l’immagine di una sfera armillare. In questa sfera possono individuarsi due cerchi massimi, che l’avvolgono, detti coluri (solstiziali ed equinoziali) e due piani, inclinati rispettivamente di 23° l’un con l’altro, il piano dell’eclittica e quello dell’orizzonte. I due coluri, posti fra loro a croce e perpendicolari al piano dell’eclittica, individuano in essa, intersecandola, quattro punti, i due solstizi e i due equinozi. Il piano dell’eclittica, definito dal moto apparente del sole e, per astrazione, di tutti i pianeti visibili luna compresa, viene cosi “quadrato”. Ancora l’eclittica risulta divisa in quattro spicchi di 90° ciascuno ed in essa congiungendo i quattro punti col centro si forma la croce, mentre congiungendoli fra loro si delinea un quadrato iscritto in una circonferenza. Per questo l’eclittica era sovente rappresentata dagli antichi con un’immagine particolare, che spesso è stata utilizzata nella realizzazione di templi, edifici talismano, ossia quattro torri ai vertici di un quadrato con una torre centrale più grande al suo centro (axis mundi). L’eclittica veniva cosi “quadrata” individuando i punti solstiziali ed equinoziali e assumeva il nome di “terra quadra”. Tale “terra quadra” aveva sullo sfondo le dodici costellazioni. Questo incredibile sforzo concettuale, che portò all’elaborazione di questo sistema, consentiva di interpretare alcuni fenomeni osservati dalla superficie del pianeta, avendo sempre come presupposto la concezione geocentrica dell’universo. Infatti, all’alba di uno qualsiasi dei giorni suddetti (solstizi e equinozi), è possibile osservare sorgere eliacamente una delle dodici costellazioni dello zodiaco di modo che quattro su tutte acquistino importanza giacché in grado di fungere da pilastri celesti, in un’immago mundi che vede, come prima precisato, quattro pilastri/costellazioni agli angoli di un quadrato iscritto nella circonferenza dell’eclittica, con un pilastro centrale più grande, l’axis mundi. Per via della precessione degli equinozi questi pilastri/costellazioni non sono eterni ma cambiano, sostituendosi l’un con l’altro nelle suddette posizioni, in un ciclo temporale (anno platonico) della durata di 25000 anni circa (da un segno A e ritorno) di modo che ogni segno permane nella sua posizione pilastro per 2160 anni circa. Poiché l’equinozio di primavera (in molte antiche civiltà l’anno iniziava a maggio in prossimità dell’equinozio stesso) era considerato il momento simbolo dell’era precessionale, si può affermare che la durata di un era sia di 2160(1) anni. Così 6000 anni fa il sole, all’equinozio di primavera, occupava la casa del toro (e altri segni occupavano l’altro equinozio e i solstizi), poi la casa dell’ariete, quindi i pesci e il prossimo candidato è l’acquario.
Questo fenomeno viene delineato in modalità criptata in molti miti sparsi un po’ ovunque nel mondo, in un sistema descrittivo che varia a seconda dell’effetto sul quale si intende porre l’attenzione. Quando si vuole porre l’accento sulla nuova costellazione che sorge all’alba dell’equinozio di primavera eliacamente (un nuovo pilastro celeste), il racconto assume i connotati della descrizione di una “nuova terra” o “monte” che spunta/sorge dal mare (orizzonte). Questo perché attraverso l’osservazione empirica dei cieli, gli antichi potevano notare in quella data una nuova costellazione (ad esempio i pesci) affiorare per un poco dall’orizzonte. Anno dopo anno, osservando il cielo sempre alla stessa data e momento, la figura celeste inizia a levarsi in maniera sempre più preponderante, finché definitivamente emerge in tutta la sua forma, spodestando di fatto la costellazione precedente (ariete), la quale non sorgerà più eliacamente. L’effetto che ne deriva, onde favorirne la comprensione moderna, è quello assimilabile al moto di un nastro trasportatore per cui la nuova costellazione “sposta” la precedente. A questo punto il sole è detto essere nella casa dei pesci (stando all’esempio) e l’era assume quel nome per i successivi 2160 anni. Il fenomeno che si osserva all’alba dell’equinozio di autunno è l’opposto. Ossia il grande nastro trasportatore dell’eclittica determina l’effetto contrario per cui mentre una costellazione sprofonda sotto l’orizzonte, anno dopo anno sempre un po’ di più, fino a non essere più visibile, quella immediatamente superiore ne prende il posto, calandosi sull’orizzonte divenendo la nuova casa del sole quando questo sorge all’alba dell’equinozio di autunno (nel caso dell’era dei pesci, la vergine come nota Virgilio nel carmen su riportato). Il mito da ragione di questo fenomeno descrivendo una terra o un monte che sprofonda nelle acque (l’orizzonte, il “telescopio” degli antichi, per eccellenza è il mare) a causa di cataclismi vari.
Il mito platonico di Atlantide può benissimo collocarsi fra le mitologie che cercano di dare atto di questo fenomeno apparente del cielo. Dunque non da conto di una geografia terrestre, ma di un’uranografia celeste.
“Innanzi a quella foce stretta che si chiama colonne d'Ercole, c'era un'isola. E quest'isola era più grande della Libia e dell'Asia insieme, e da essa si poteva passare ad altre isole e da queste alla terraferma di fronte. [...] In tempi posteriori [...], essendo succeduti terremoti e cataclismi straordinari, nel volgere di un giorno e di una brutta notte [...] tutto in massa si sprofondò sotto terra, e l'isola Atlantide similmente ingoiata dal mare scomparve.”
(Platone, Timeo, Capitolo III.)
Già le colonne d’Eracle sono un’immagine mitologica molto forte e precisa, giacché sovente gli equinozi sono descritti appunto come colonne, pilastri, porte o soglie che devono o abbattersi (Sansone) o comunque attraversarsi. La loro presenza nel racconto deve quindi far subito insospettire, non che si voglia negare l’esistenza anche geografica delle stesse, tuttavia gli antichi sovente cercavano di trasformare in un corrispondente geografico terrestre le componenti uraniche individuate, o viceversa (così in cielo così in terra). Inoltre, come sappiamo, Platone tende spesso nei suoi dialoghi a servirsi di racconti a carattere mitologico, come il mito della caverna ad esempio, per dar conto delle sue idee o teorie. Che poi il mito atlantideo sia un mito cosmologico ci aiuta a comprenderlo già una prima analisi di contesto. Il racconto infatti appare in due dialoghi, “Timeo” e nel suo continuo incompiuto “Crizia”, proprio i due dialoghi in cui Platone ci presenta la sua visione cosmologica dell’origine dell’universo, escatologica della natura umana e fisica della struttura della materia. Interpretare il mito atlantideo come una narrazione mitologico avente il fine di rendere conto in chiave allegorica della visione cosmologica dell’autore ci appare del tutto appropriato.
Inoltre non sembra neanche casuale il nome che Platone da alla sua isola utopica: L’isola di Atlante. Tale nome richiama immediatamente il titano Atlante, colui che regge la volta celeste, ossia l’allegoria dell’axis mundi.
A questo punto è infatti possibile introdurre la descrizione di un altro degli effetti che la precessione degli equinozi(2) determina nei meccanismi celesti: il mutare della stella che indica il polo nord celeste.
Il polo nord celeste è quella porzione della volta stellata che viene traguardata dall’asse ideale collocato al centro del piano dell’orizzonte, ossia l’asse immaginario attorno al quale il cielo pare ruotare la notte. Questo asse ideale non è però fisso, ma a sua volta ruota, come già detto, attorno ad un altro asse ideale che questa volta però passa per il centro del piano dell’eclittica, inclinato rispetto al precedente di 23° circa. La porzione di cielo traguardata dall’asse ideale dell’eclittica individua due punti (polo nord dell’eclittica e polo sud) che sono gli unici punti, da una prospettiva geocentrica ovviamente ma che grande presa dovette avere nell’immaginario delle prime genti, ad essere fissa, stabile, immota e immutabile nel tempo. Come precisato, per contro, l’asse del piano dell’orizzonte ruota intorno all’asse dell’eclittica e ne consegue che il polo nord e sud celesti non sono fissi ma appunto ruotano rispetto ai corrispondenti punti del polo nord e sud dell’eclittica. Per ciò le stelle indicanti il nord ed il sud cambiano(3) e a volte possono anche non esserci (oggi abbiamo una stella polare per il polo nord, ma non una visibile per il polo sud). Lo stesso Platone proprio nel Timeo, descrive questi meccanismi chiamando il piano dell’orizzonte e il piano dell’eclittica propriamente “l’altro” e il “medesimo”(4) e asserendo che fra loro stanno in un rapporto geometrico assimilabile alla conformazione della lettera X dell’alfabeto greco. Rendendo ragione in maniera estremamente chiara dell’inclinazione del piano dell’eclittica di 23° circa rispetto a quello dell’orizzonte.
L’isola di Atlante può quindi essere considerata come un particolare allegoria di un determinato “asse del mondo” definito secondo le coordinate temporali che Platone stesso, come vedremo, si preoccupò di definire.
Ancora la città capitale dell’isola ci viene descritta avente forma circolare, costituita da più isole separate le une delle altre sempre da canali circolari, in una sorta di progressione di porzioni di terra in forma di circonferenze concentriche sempre più piccole fino alla zona centrale dove si trova l’acropoli (monte-axis mundi) con il tempio. Questa immagine dei cerchi concentrici, il labirinto, o il moto di un gigantesco gorgo, sono sovente utilizzati per rappresentare il mondo dell’eclittica ed il moto vorticoso dei pianeti.
Platone, nel suo racconto, sembrerebbe quindi darci una visione di una città ideale, utopica, cosa che trova giustificazione nel fatto che il Timeo segue sia temporalmente sia nei temi la “Repubblica”. La città ideale, per essere tale, deve però essere fondata, quadrata, sulle dimensioni celesti al punto da divenire essa stessa un simbolo del cielo o un’allegoria del cielo stesso (così in cielo così in terra). Nel racconto quindi la componente politica finisce per cedere del tutto lo spazio alla componente cosmologica e cosmogonica. Infatti è Crizia che ci parla di Atlantide, avendo sentito il nonno commentare il fatto che Atene dovette affrontare 9000 anni prima del tempo di Solone, una terribile minaccia a causa delle forze di invasione atlantidee. Terminato il prologo(5), sarà Timeo a prendere la parola (per non lasciarla praticamente più, o quasi) e come su riportato verrà descritta la concezione Platonica dell’origine e struttura del cosmo. Il mito di Atlantide, la sua ipotetica collocazione spaziale e temporale sembrerebbe voler porre l’accento su una particolare configurazione astronomica, essere l’”axis mundi” di una particolare era, poiché colloca non indefinitamente nel tempo la sua isola ma circa 9000 anni prima del tempo di Solone (6). Ciò ci consente di ritornare a ritroso delle ere precessionali, nel tempo, fino alla fine dell’era del leone, era su cui probabilmente gli antichi astronomi e mitografi intesero fissare il momento zero dell’inizio del computo precessionale, che avrebbe visto al momento dell’era dei pesci la metà del grande anno, in quanto sesta era dall’era del leone, per poi completare il giro ritornando nuovamente verso la stessa. Poiché Platone riconduce il suo mito agli egizi, il nonno di Crizia l’avrebbe appresa da Solone il quale a sua volta ne venne a conoscenza in Egitto, si potrebbe ricondurre il tutto al mitico tempo dello “zep tepi” sorta di “saturnia regna” egizio, il mito dell’isola di Atlante renderebbe conto della fine di questa era, probabilmente così importante per i nostri antenati nel computo del grande anno precessionale.


NOTE
1. È necessario operare un distinguo fra costellazione dello zodiaco, le quali sono in misura di 12, 13 o 14 a seconda dell’inclinazione dell’angolo, poiché anch’esso oscilla su un valore medio di 23° circa, che l’eclittica assume rispetto al piano dell’orizzonte, e segni dello zodiaco. Questi ultimi sono meglio frutto di un’operazione geometrica che divide la circonferenza in 12 spicchi di 30 gradi ciascuno. La tradizione associò a questi spicchi una particolare costellazione simbolo, divenendone il corrispondente segno. Poiché il sole impiega 72 anni a percorrere 1° dei 360°, nel suo moto apparente nell’eclittica, basta una semplice operazione matematica per calcolare in 2160 gli anni che impiega a percorrere 30° e circa 26000 gli anni necessari a percorre tutti i 360° (72 per 360).
2. Il termine precessione rende conto del fatto che col tempo il segno che sorge all’alba dell’equinozio di primavera cambia, in un ordine opposto a quello del normale susseguirsi dei segni zodiacali durante l’anno, che in questo caso precedono appunto.
3. Ad esempio, 3000 anni fa la stella polare era la stella alfa della costellazione del drago, ora è alfa ursae minoris, fra 13000 anni sarà vega, in altri momenti semplicemente non c’è una stella visibile prossima al polo nord, che andrà individuato traguardando e allungando segmenti fra stelle diverse di modo da individuare il polo nord, cosa che già ora deve farsi per individuare il polo sud.
4. Da notarsi che anche dove la descrizione appare essere più lineare, Platone utilizza un linguaggio comunque criptico, giacché egli non nomina i due suddetti piani se non vagamente ricorrendo a pronomi “altro” e “medesimo”.
5. Notarsi anche la posizione che Platone sceglie per collocare il suo racconto mitologico dell’isola di Atlante, il prologo alla trattazione dell’origine e struttura dell’universo.
6. Notarsi anche la posizione che Platone sceglie per collocare il suo racconto mitologico dell’isola di Atlante, il prologo alla trattazione dell’origine e struttura dell’universo.

lunedì 8 settembre 2014

Sul terrazzo dei nuraghi

di Alessandro Mannoni

L’amico Franco Laner, nelle sue prime impressioni alla lettura del mio recente libro RELIGIONE E SPIRITUALITÀ NELLA SARDEGNA NURAGICA, formula un invito al confronto sulle tematiche coinvolte, confronto al quale non mi sottraggo in merito ad alcune delle puntuali osservazioni da lui formulate al riguardo.
In primo luogo l’importante questione delle “terrazze a sbalzo” dei nuraghi.
Franco, riprendendo anche l’analisi di Pittau, sembra escludere del tutto la possibilità di un allargamento a sbalzo della sommità del nuraghe per questioni di statica e logicità costruttiva nelle murature a secco.
Premessa la mia incompetenza in questioni di statica architettonica, vorrei però proporre alcune considerazioni in proposito, perché mi pare che il problema dell’allargamento a sbalzo della sommità delle torri non possa risolversi schematicamente con un tutto o nulla, tra fautori e negatori della sua presenza.
Penso che ormai nessuno neghi la problematicità e la difficoltà strutturale della realizzazione di tali terrazzi, ma noto che anche architetti di particolare “sensibilità” come Serena Noemi Cappai e Giuseppe Pulina propongono ultimamente delle ipotesi ricostruttive dei terrazzi a sbalzo poggianti sui famosi “mensoloni”, terrazzi naturalmente realizzati in legno (in AA.VV. SIMBOLO DI UN SIMBOLO – I MODELLI DI NURAGHE – GUIDA BREVE. 2013 ARA Edizioni – Siena – pp.22-23).
Poiché non ne posso valutare la fattibilità o meno dal punto di vista architettonico devo quindi attendere che la questione sia risolta dagli specialisti.
Ad ogni modo ritengo che almeno due punti fermi si possano dare:
• Presenza o meno dell’allargamento a sbalzo, a meno di escludere che la scala del nuraghe potesse arrivare in cima o supporre che la torre culminasse in forma cupolata e non piatta, le torri nuragiche terminavano con uno spazio sufficiente a lasciare la sommità libera e agibile; non per le fantasiose ipotesi di utilizzo di macchine belliche o per la presenza di una guarnigione di difensori, ma per possibili attività rituali e di osservazione a cui doveva prendere parte un numero ridottissimo di sacerdoti (uno o due di norma), poiché l’accesso alle parti più interne e/o elevate delle strutture templari in molte civiltà antiche era solitamente riservato a pochissimi sacerdoti e ne era rigorosamente escluso il popolo comune.
• La presenza in cima di mensoloni a raggiera, rari o molti che fossero, non può essere negata perché alcuni sono stati ritrovati in situ e diversi a terra. Per cui la loro funzione va interpretata, come correttamente tenta di fare Pittau.

Detto questo aggiungerei però che non si può escludere che i bronzetti, le colonne e i betilini “similnuraghe” riproducessero particolari costruttivi di questi edifici. Se infatti non ha senso interpretare ogni colonna con allargamento all’apice che venga ritrovata come un betilo/torre invece che come colonna con capitello, non ha ugualmente senso disgiungere del tutto tali “modellini” dalle strutture nuragiche. Concordo pienamente con Franco Laner (come riporto nel mio libro) sul fatto che tali modellini siano delle immagini simboliche e sacrali del cosmo e non delle copie di nuraghi dal valore semantico di genere esclusivamente “politico”, ma essendo stati realizzati da una popolazione che, almeno in parte, era erede dei costruttori delle torri nuragiche, che tali torri poteva ancora vedere ovunque in buona parte intatte, e di cui probabilmente conservava il valore simbolico e sacrale connesso all’immagine cosmica che esse rappresentavano, non vedo perché avrebbe dovuto modificare il modello dell’icona miniaturizzata che amava costruire, quando tale modello, in grande, se lo trovava ovunque intorno!
Se le popolazioni postnuragiche non riuscivano più a mantenere in vita e a sfruttare, o più probabilmente a comprendere a fondo l’intero sistema degli edifici nuragici, almeno erano in grado di riprodurne a livello miniaturistico una parte della funzione iconica di simbolo religioso.
Questo non vuol dire che si debba considerare un modellino come il plastico esatto di un nuraghe! Le dimensioni sono sempre approssimative, il rapporto tra le altezze delle torri, lo sbalzo dei mensoloni, il fatto che si riproducano esclusivamente monotorri o quadrolobi fa capire che non si tratta di copie di strutture, ma di copie di un modello ideale di icona simbolica, i cui particolari però assumono un senso religioso innegabile.
Che nuraghi e modellini fossero in rapporto tra loro ed analoghi ad un modello cosmico idale che riproducevano lo farebbero pensare gli esemplari realizzati in bronzo, che certo non potevano avere la funzione pratica di colonna capitello (che giustificherebbe lo slargo funzionale in cima, ma che comunque non negherebbe una possibile funzione anche simbolica di riproduzione della torre/i colonne di sostegno del cosmo), né potevano avere la funzione pratica di altarino o bruciaprofumi come molti modelli in pietra (che giustificherebbe lo slargo in cima quale vaschetta rituale). Basti pensare al perfetto esemplare proveniente da Olmedo, o al famosissimo modello bronzeo trovato ad Ittireddu, che presenta il particolare di essere collocato a lato del modellino di un altro edificio, rettangolare e col tetto a spiovente, interpetato solitamente come un tempietto a megaron, o da Mauro Zedda come un tempio a pozzo. Ora se uno è l’immagine di un megaron o di un pozzo sacro, perché l’altro non dovrebbe essere un nuraghe? Entrambi edifici templari, attinenti alla sfera sacrale, e riprodotti con attenzione ai particolari simbolici più che alla resa realistica, come farebbero chiaramente pensare le due colombelle poste in cima agli spioventi del tetto del megaron/pozzo in posizione perpendicolare tra loro a rappresentare chiaramente gli influssi spirituali che giungono al tempio (e io direi ad “entrambi i templi” che presentano lo stesso orientamento degli assi principali) da direzioni astrali tra loro perpendicolari di cui una è l’asse d’ingresso (si veda quando dice Mauro Zedda in ASTRONOMIA DELLA SARDEGNA PREISTORICA 2013, p.186). E d’altronte nell’antichità non era infrequente rappresentare i templi sotto forma di modellini (ad esempio in argilla, come quelli risalenti all’epoca neolitica rinvenuti in Romania o nei Balcani – Eliade, STORIA DELLE CREDENZE E DELLE IDEE RELIGIOSE – vol.I p.63).
Ebbene, anche i modelli in bronzo, come quelli in pietra, riproducono chiaramente lo slargo in cima di “tutte le torri” e delle mura del quadrilobo, con evidenza chiara degli incavi dei mensoloni litici (dalle foto del modellino di Olmedo il numero dei mensoloni di ognuno dei due lati visibili nelle foto mi pare sia 7, cosa che, se confermata, potrebbe avvicinarsi alle tesi di Donatello Orgiu (La Dea Bipenne 2013), in relazione all’interpretazione delle fasi del ciclo lunare e annuale).
Le icone cosmiche miniaturizzate (i modellini) e maxi (i nuraghi) presentavano quindi quello strano particolare della raggiera e dello slargo (particolare anomalo perché se lo siano “inventato” i postnuragici dal nulla!), probabilmente accentuato eccessivamente nei modellini, e nella realtà delle torri meno sporgente, e magari anche privo della funzione pratica di sorreggere le assi in legno di un terrazzo, o di un semplice parapetto protettivo, ma dalla pregnante e rilevante funzione simbolica di rappresentare la corona radiante di corna/raggi che circonda la porta solare all’apice della cupola cosmica, come ho provato ad interpretare nel mio libro (p. 36), e che anche Pittau in qualche modo sembra confermare. Particolare, che se complicava inutilmente, dal punto di vista pratico, sia la realizzazione architettonica che quella scultorea, evidentemente doveva avere una funzione simbolica non eliminabile agli occhi di quelle popolazioni.