domenica 28 dicembre 2025

Una critica a: A Study on the Stability and Construction Techniques of Nuragic Towers

 di Franco Laner

Un gruppo di studiosi ha recentemente pubblicato un interessante articolo sulla stabilità e le tecniche costruttive dei nuraghi: Augusto Bortolussi, Valentina Dentoni, Cristina Levanti, Stefano Cara, Francesco Pinna e Battista Grosso: A Study on the Stability and Construction Techniques of Nuragic Towers (2025), in International Journal of Architectural Heritage Conservation, Analysis, and Restoration.

A mio parere la loro analisi dimostra la scarsa conoscenza della materialità strutturale, delle tecnologie costruttive, dei processi realizzativi e soprattutto l’errata concezione strutturale sottesa ai nuraghi.

Le conclusioni non hanno nessuna relazione con il fuori servizio dei nuraghi, facilmente constatabile con sopralluoghi e osservazioni dell’esistente.

Ogni esercizio, pur che rimanga sulla carta, non porta a danni irreversibili, anzi può essere un modo di confronto fra studiosi, a patto che si dimostri la conoscenza eidetica dell’argomento o perlomeno il contesto storico, culturale e tecnico della realizzazione di questi manufatti.

Se -ex abrupto – vi chiedessero un parere sulla sicurezza statica delle piramidi, penso che rispondereste che non avete mai sentito che ci siano problemi di crolli: sono lì da 4500 anni…Ma più verosimilmente, almeno io, risponderei che la domanda appare già risolta nei termini in cui viene posta e pertanto la questione è chiusa. In altre parole non capirei perché rispondere, anche se possedessi il più efficace modello di verifica, ad un problema così mal posto e decontestualizzato.

Riformulo ora la domanda, riferendola ai nuraghi, anche loro in piedi da più di tre millenni e mezzo e rifletterei un poco di più, proprio perché non tutti sono ancora in piedi, ma non perché siano collassati, bensì perché degradati o distrutti, cosa assai diversa dal crollo. Ho visto diversi nuraghi, osservato e analizzato le modalità di fuori servizio: affermo che il loro disfacimento inizia sempre dall’alto. Tolta una pietra, viene a mancare la continuità dell’insieme. Le pietre vicine, prive di contrasto, sono vulnerabili e facilmente spostabili. Si invera, per così dire, un processo inverso a quello costruttivo.

Anche rotture locali, ad esempio di architravi d’entrata, comportano l’adattamento dell’organismo murario di una nuova configurazione – la trave, da trave semplicemente appoggiata, diventa arco spingente, senza crolli a catena e così cedimenti fondali portano a nuovi assestamenti strutturali.

La prima regola per la durabilità di una muratura di pietra a secco – ciclopica –è che ogni elemento non dorma mai (ho scritto qualche articolo, uno con titolo significativo: Nessun dorma!).

La struttura deve essere pervasa, incessantemente, da energia, tensione. Il cuneo, la zeppa, è la macchina semplice che concorre, assieme alla gravità, a conferire questa intima vitalità alle strutture a secco. La zeppa non è un materiale di riempimento e non secondario (dall’articolo in esame: cavità riempite da pietre più piccole): è strutturale!

In Sardegna ci sono ancora eccellenti muratori di muri a secco che possono confermare questo principio: è necessario “sentire” la vitalità strutturale, altrimenti il concio, libero e inerme, torna a terra.

La seconda osservazione è che per avvicinarsi alla cultura costruttiva a secco praticata dai micenei e nuragici per realizzare archi, volte e cupole, è necessario abbandonare l’attuale concezione ad arco, volta e cupola. La posa degli elementi strutturali è orizzontale, su piani paralleli. Per realizzare la struttura si procede con corsi murari a strati: realizzato un corso, si ricomincia con un altro corso, si ritorna ab initio, in armonia con l’eterno ritorno e la concezione circolare del tempo.

Diciamo – solo per assecondare il modello di verifica proposto – che i corsi sono perfettamente isodomi, anche se a rigore i corsi non sono di uguale altezza, i conci non sono squadrati o levigati (l’isodomia si ha nei pozzi di S. Cristina, a Proedio Canopoli, su Tempiesu…) e soprattutto, specie nel paramento esterno l’opus è poligonale, mai quadratum.

La letteratura tecnica è esauriente per archi, volte e cupole concepite col principio classico dell’arco, con elementi solo compressi, che comportano il controllo della spinta e della curva delle pressioni, ma assolutamente carente per archi, volte e cupole realizzate con conci a sbalzo successivo dove alla compressione, trazione e taglio si associano sollecitazioni di presso-flessione e momenti flettenti e ribaltanti.

Siamo di fronte a due diverse tecnologie costruttive, a due diverse concezioni strutturali, per di più per la tecnologia nuragico-micenea, la concezione sottesa alla tholos fa ricorso ad uno straordinario stato di coazione, impossibile per le volte che fanno ricorso a una condizione di equilibrio per annullare il ribaltamento dovuto alla coppia data dalla reazione e la risultante dei carichi a sbalzo, con opportuni carichi all’intradosso della volta e soprattutto a conci di opportuna lunghezza.

Sulla coazione degli anelli della tholos ho spesso detto, esempio in “Sa ‘Ena” (2012). Semplificando al massimo: se mettessi un anello chiuso sopra un altro di maggior diametro, non ci sarebbero spinte e potrei formare una cupola, addirittura con l’oculus aperto. Ma i corsi circolari di pietra sono discontinui; proprio però l’incessante forza di gravità che tenderebbe a rovesciare i conci a sbalzo dell’anello, si scompone in forza orizzontale, che impedisce il rovesciamento per l’effetto arco orizzontale dovuto ai conci trapezoidali. Si invera in altre parole uno stato di coazione che sfrutta proprio la forza di gravità da vincere che rende continua e in tensione di compressione la discontinuità dei conci dell’anello.

Per la volta, il rovesciamento e il crollo dovuto alle forze peso dei conci a sbalzo con la reazione alla base, è impedito se la risultante dei carichi a sbalzo è all’interno del terzo medio dell’area di base. La tecnologia costruttiva provvede con l’impiego di conci a sbalzo lunghi, in modo da portare il baricentro verso l’interno e con sapienti carichi aggiuntivi verso l’esterno della volta (cfr. scheda esplicativa in Acqua Nuragica, Pozzi e fonti da S. Cristina a is Clamoris 2026, in corso di stampa).

La sicurezza e stabilità dei nuraghi dipende dalla tecnologia costruttiva, dalla loro concezione strutturale, non mai da modelli strutturali che suonano anacronisticamente, filologicamente scorretti, o da strumenti moderni e contemporanei messi a punto per la quantificazione della sicurezza di nuovi materiali, concezioni strutturali, processi e sistemi costruttivi

 
Il modello di nuraghe scelto per l’applicazione del metodo ad elementi discreti non ha alcun riscontro coi nuraghi reali, poiché è molto al di fuori del rapporto statistico fra il diametro esterno e l’altezza dei nuraghi: in una parola è sproporzionato. Mi danno anche molto fastidio gli 80cm fra l’apice della tholos e sommità del nuraghe perché il sistema costruttivo nuragico/miceneo prevede l’apertura dell’oculus.

Il modello di nuraghe proposto non ha alcun riscontro con la realtà. È vero che esistono nuraghi con 15m di diametro esterno. È vero che ci sono nuraghi di 8m di altezza. Quindi il modello scelto con queste dimensioni è plausibile? Assolutamente no, perché l’altezza minima dei nuraghi di 15m di diametro è superiore a 12m e inferiore a 18m e ad un’altezza di 8,1m corrisponde un diametro minimo di 6-7m e massimo di 10m, per il semplice motivo che il rapporto diametro/altezza statisticamente osservato su centinaia di nuraghi varia fra 0,8 e 1,3.

Dopo questa osservazione, a rigore, la lettura dell’articolo dovrebbe interrompersi. Qualora una teoria palesi un passaggio non logico o non consequenziale, insomma sbagliato, va rigettata: come teorizzò Karl Popper.

L’esercizio viene dunque condotto su un modello di nuraghe inesistente e lontanissimo dalla realtà. Siccome il modello di verifica proposto si fonda essenzialmente sulla spinta del materiale incoerente frapposto fra la tholos e il paramento esterno, si capisce che l’esempio, che ha un inverosimile quantità di materiale incoerente per l’inusitata larghezza della massa muraria a fonte di modesta altezza, introduce un parametro fantasioso.

Nuraghe Burghidu ad Ozieri. L’immagine è tratta dalla tesi di laurea di A. Nichele e M. Zanoni, io relatore con S. Gasparini e E. Passeler, Iuav, a.a. 2004-05 e presenta il prospetto sud eseguito da A. Della Marmora (1840) con l’evidenza delle parti mancanti a distanza di 150 anni. Non ricordo di aver notato fra i paramenti materiale di riempimento.

Cosa di verosimile sappiamo dire ad esempio sui processi costruttivi? Come venivano spostati i grandi massi, come venivano messi in opera? Impossibile il loro sollevamento – non si possono attestare all’epoca macchine sollevatrici di sorta – il masso deve toccare sempre il terreno, quindi il problema di trascinamento è un problema di riduzione di attrito, ovvero di riduzione di area di contatto: dal piano di contatto grave-terreno, con la slitta si passa alla linea di contatto e con la ruota al punto. Sconosciuta la ruota o se conosciuta impossibile dimensionare mozzi resistenti a carichi di decine di quintali, quindi slitta. Per i carichi, sotto un paio di quintali, anche barelle per più uomini, quindi sollevamento, ma solo per conci posti in opera verso l’alto del nuraghe.

È necessaria la rampa per il trasporto in opera, rampa che è ricavata, a spirale, nello stesso nuraghe. Nei nuraghi, come per le piramidi, le rampe, ovvero il piano inclinato, altra macchina semplice, erano ricavate nella stessa costruzione: vedi La construction des ‘nuraghi’ en Sardegne Le ‘nuraghe’ envisagé comme machine de lui-même, in Mécanique et Archtecture, 1995. Nella tecnologia costruttiva c’è la risposta alla stabilità dei nuraghi, non nei modelli. Nella resistenza e nel peso della pietra, nella concezione strutturale, nel cantiere, va cercata la chiave per necessari interventi conservativi e di messa in sicurezza. E la chiave è spesso diversa per ogni nuraghe, unico, come un ammalato anche i nuraghi richiedono terapie personalizzate. Nonostante il titolo della memoria non rilevo una riga sui sistemi costruttivi e mi viene il sospetto che gli autori non ne sappiano granché e che abbiano guardato nuraghi, ma non visti.

I dati che assumono, tranne il lodevole sforzo di dare misura ai conci in relazione all’altezza, sono desunti da letteratura, quasi a smarcarsi da responsabilità. Una ricerca appena rigorosa non può fidarsi di osservazioni espresse da non addetti ai lavori (archeologi) che sanno di cocci ma non di gravi.

Non era mia intenzione dilungarmi. Eppure mi accorgo che non bastano poche righe per esprimere la mia perplessità sull’articolo. Lo scopo è ben chiaro: se posseggo un modello di verifica posso intervenire in caso di insicurezza. Ma è proprio ciò che non condivido. L’applicazione del MED (metodo ad elementi discreti) mostra che i corsi vulnerabili, dove ci potrebbe essere l’espulsione di materiale e quindi collasso, posso prevederli (dall’articolo: Il collasso avviene con l'espulsione radiale dei blocchi di uno degli anelli mediani (il quinto anello nella configurazione analizzata), seguita dalla perdita di contatto tra i blocchi superiori e, infine, dalla disconnessione dell'intera struttura). Ecco allora che potrei mirare l’intervento, magari con una cerchiatura di acciaio, di cemento armato, di fibre di carbonio o altre moderne diavolerie: pazzesco. L’articolo non prevede tecnologie, ma apre a queste funeste eventualità: la messa in sicurezza dei nuraghi deve essere per me eseguita con la pietra, assecondando la concezione strutturale originaria e la regola dell’arte originaria! Altrimenti mille volte meglio il lento degrado, la morte: anche l’organismo murario ha un tempo di vita come è per me. A parte la considerazione dei miseri e disastrosi esiti degli interventi di consolidamento eseguiti negli ultimi decenni: non ho alcun elenco di esito virtuoso!

Ritorno allora sul degrado e il disfacimento dei nuraghi. Spesso c’è lo zampino dell’uomo che provvede a lasciare in piedi solo ciò che non riesce a portare altrove. La perdita di mutuo contrasto, dovuta allo spostamento delle pietre apicali, più leggere, provoca il disfacimento a effetto domino. Ovviamente anche cedimenti strutturali locali possono influire progressivamente sull’innesto di fuori servizio, che comunque attenti rilievi ed esperienza diagnostica possono individuare e arrestare. Il nuraghe è un sistema robusto, (per robustezza in tecnica delle costruzioni si intende la capacità di sopportare eventi imprevisti: un cedimento locale non deve ripercuotersi in modo sproporzionato all’insieme o farlo collassare). Questo concetto ci deve aiutare nell’eventuale consolidamento.

Alcune ulteriori osservazioni incondivisibili: il nuraghe non è una struttura a sacco di romana tecnologia: muri perimetrali con riempimento di inerte incoerente che spingono a seconda dell’angolo di natural declivio (mi pare che sia questo il termine quando ci insegnavano a dimensionare un muro di sostegno). La tholos interna vive e vegeta da sola e il muro esterno non si “distacca” o spancia con distacco dei conci per trazione. Nell’inclinazione verso l’interno del paramento esterno va ricercata la condizione di equilibrio. Impossibile invocare l’attrito fra i conci perché hanno solo punti di contatto o superfici limitatissime.

La pietra non resiste a trazione. Questa affermazione vale quando si quantifica la sicurezza di una trave di pietra con gli attuali metodi di calcolo, perché la pietra è un materiale fragile e basta una piccola cricca per scatenare l’energia di frattura e quindi è una giusta prescrizione a favore della sicurezza. La pietra ha in verità una buona resistenza a trazione, altrimenti come mai non si rompono le lastre apicali dei dolmen che lavorano a trazione per flessione?

Ogni modello di calcolo è uno strumento di verifica: coi modelli di calcolo non si progetta, né si restaura (Franco Levi, fra i grandi scienziati mondiali delle costruzioni del secolo scorso).

Ogni esercizio ha in sé molte qualità, anche se possono apparire inutili, ludiche e non condivisibili, perché ritenute sbagliate. Fin che rimangono esercizi astratti, fine a sé stessi e non messi in pratica, non sono né dannosi, né pericolosi.

Mi auguro che sia questo il destino della memoria analizzata!

Venezia, 28 dicembre 2026



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