domenica 18 novembre 2012

La Boninu predica bene ma razzola male!


di Mauro Peppino Zedda

Il 5 novembre 2012 un articolo de La Nuova Sardegna trattava dei limiti concernenti la valorizzazione dello straordinario patrimonio archeologico dell’isola scrivendo:

"Cheremule. Riflettori su un museo unico al mondo, il Parco dei Petroglifi, pietre scritte, parlanti, storia sacra e profana, 37 tombe della notte dei tempi, firma indelebile del Neolitico recente, religiosità prenuragica. Un lungo altare bianco di calcare è incorniciato dal verde delle campagne di Cheremule, ai piedi del vulcano spento di Monte Cuccuruddu. Lunghi filari di prugnoli con i frutti viola, agretti da mangiare ma ricchi di sapore, i muretti a secco colorati dalle bacche rosse dei biancospini. In cielo volteggia una poiana. Per terra un tappeto di pere selvatiche per la gioia dei cinghiali. Domanda d'obbligo: a che serve "cust'opera divina"? È giusto che ad appagarsi sia solo lo spirito?
La denuncia è tanto netta quanto autorevole. "La Sardegna, le sue amministrazioni non hanno saputo rispondere, né sanno rispondere oggi, all'eccezionalità del tesoro artistico ereditato. È come se San Pietroburgo non sapesse valorizzare l'Ermitage, come se Firenze snobbasse Gli Uffizi, o Torino facesse invadere di erbacce il suo Museo Egizio. Manca la consapevolezza generale di questa ricchezza diffusa in tutta l'isola e ci priva anche di una risorsa economica. Un esempio su tutti: il Meilogu è la regione storica col più vasto patrimonio archeologico disponibile perché i Comuni hanno avuto la lungimiranza di acquisire tutte le aree monumentali". Quale è il ritorno? "Pressoché nullo, in raffronto a quanto ci è stato regalato dal passato. Abbiamo una miniera d'oro ma non ce ne accorgiamo".
Chi parla è Antonietta Boninu, archeologa, fino allo scorso aprile storico direttore della soprintendenza ai Beni archeologici per le province di Sassari e Nuoro. Insiste: "Parlo di consapevolezza perché se queste eccellenze archeologiche non vengono sentite come tali dai cittadini non si può fare molto strada nell'opera di valorizzazione. Questi siti sono una risorsa. Ma richiedono professionalità non abborracciate, competenze diffuse, i paesi dovrebbero fare rete per attirare flussi costanti di visitatori, lo dovrebbe capire la Regione dando plusvalore alla storia vera dell'Isola. Invece ci si scontra con una realtà deprimente: perché la Sardegna - grande parco archeologico - non ha saputo creare occasioni scientifiche ed economiche adeguate, direttamente proporzionali al valore che questi monumenti hanno. Anche per questo la disoccupazione intellettuale cresce"."

La Boninu parla degli esempi di San Pietroburgo, Firenze e Torino “dimenticandosi” o per meglio dire senza comprendere che il modello da prendere ad esempio non sono le città d’arte europee, ma le campagne che ospitano Stonehenge, Newgrange, o Carnac!!
Cara Maria Antonietta Boninu se gli archeologi sardi avessero quel minimo di intelligenza e di umiltà sufficiente a prendere atto dello straordinario significato astronomico dei Nuraghi, Domus de Janas, Pozzi Sacri e di Monte d’Accoddi, confermato dai maggiori studiosi di a archeoastronomia del mondo, è probabile che a Santa Cristina (il più sofisticato osservatorio astronomico lunare del antichità) al Losa e al Santu Antine (nuraghi astronomicamente concepiti) o a Monte d’accoddi (splendidamente orientato col Sole, Luna e Venere), si potrebbero attrarre quei visitatori che accorrono a Stonehenge.

mercoledì 14 novembre 2012

Monte Forato e il Duomo di Barga


di Franco Laner

Più che una recensione del nuovo libro di Mauro Zedda “Monte Forato e il Duomo di Barga - Tracce di un Antico Osservatorio dei Liguri Apuani”, Agorà nuragica, Cagliari, 2012, vorrei cercare di mettere in bella una serie di suggerimenti che la lettura del libro mi ha offerto.
Una piccola annotazione a proposito di Barga: ci sono stato nel ’94, alcuni giorni per un seminario di antisismica, disciplina che mi ha impegnato diversi anni, con qualche soddisfazione. La sala conferenze era al Passo dei Carpinelli, che divide la Lunigiana dalla Garfagnana, entrambe zone di forte sismicità, ma soggiornavo a Barga e ricordo che mi intrigò il fatto che il Duomo fosse in alto, al posto del Castello, tipologia che caratterizza la città medioevale.
Che bello, penso ora, se qualcuno mi avesse detto che il Duomo era là, perché quello era il luogo da sempre sacro per eccellenza!
Molto bella l’introduzione di Mauro al libro! Forse pecca –sarà per l’età che induce alla maturità- di modestia quando dice che la scoperta è avvenuta “per caso”.
Certamente l’intendimento dei suoi viaggi in Toscana non aveva di mira Monte Forato, quanto l’obiettivo era di registrare l’orientamento delle chiese romaniche per confrontarlo con quello delle chiese sarde e corse, ma la scoperta, oggetto del libro, non è “per caso”! E’ il risultato di una capacità di osservazione e di relazione che Mauro ha ormai sviluppato grazie alla sua più che ventennale esperienza in archeoastronomia, che lo pone tra gli specialisti della disciplina.
Il caso, che irrompe all’improvviso, evento inaspettato, è dunque per me riduttivo in questo caso, perché qui si tratta di capacità di sintesi che solo in chi sa può scattare e produrre spunti di ricerca a largo spettro.
L’orientamento dell’asse longitudinale, ingresso-abside, della chiesa romanica di S. Frediano a Sommocolonia, nei pressi di Barga, al sostizio d’inverno, finisce dove il sole tramonta, sopra il singolarissimo profilo del viso dell’Omo -il profilo del monte suggerisce quest’immagine- che ha la bocca aperta, data da un arco naturale di roccia di trenta metri, un foro, che appunto dà il nome al Monte.
Ma anche la luna, osservata dal Duomo di Barga, tramonta al lunistizio minore meridionale, sopra il Monte Forato!
Questa coincidenza, ovviamente non ascrivibile al caso, inducono Mauro ad approfondire e guardarsi ancora attorno. Quali sono le altre chiese da cui è possibile traguardare il profilo dell’Omo? Mauro si sposta a S. Michele di Perpoli e a S. Pietro e Paolo a Fiattone.
La prima chiesa è in relazione col tramonto della luna sulla fronte dell’Omo al lunistizio maggiore meridionale, mentre la seconda guarda al tramonto di Venere!
Ancora, curiosando nei resti della torre medioevale che sorge accanto a S. Frediano , si interroga sulla strana forma di una residua finestrella. Il suo sguincio inferiore non è assolutamente funzionale al operazioni belliche, ma viceversa utile per collimare, non tanto il volto dell’Omo, che sta nel cono di osservazione della finestrella, quanto per l’osservazione del tramonto del sole al solstizio d’inverno o della luna al lunistizio medio meridionale.
Si delinea dunque un sistema di punti di osservazione di grande funzionalità per registrare e prevedere fenomeni celesti. Questo complesso impianto, secondo Mauro, non è recente, medioevale, bensì gli insediamenti ecclesiali hanno sfruttato siti già sacri, perché adatti all’osservazione astronomica, da illo tempore, in quel sincretismo che pochi mettono in dubbio, perché è ovvia la continuità e residualità dello spazio sacro, che rimane tale anche se cambiano i modi di rapportarsi col divino, o la religione, o nuovi dei e quant’altro.
Queste cose sono ben spiegate nel libro.
Penso che queste scoperte di Mauro debbano essere messe a frutto. Se alla spettacolarità del doppio tramonto, fenomeno che si può osservare il 10-11 novembre ed ovviamente il 30-31 gennaio, 40 giorni prima e dopo il solstizio d’inverno, che richiama gente, fotografi e curiosi, si aggiungerà spiegazione scientifica al sistema di osservatorio astronomico di cui sono stati messi in luce nel libro i punti si stazione, ci potrà essere quel valore aggiunto dato appunto dalla riscoperta di saperi e conoscenze astronomiche che gettano nuova luce sulle popolazioni che hanno abitato il territorio.
Nel libro, in tre tabelle, sono riportati anche i dati di centinaia di misurazioni dell’orientamento delle chiese romaniche sarde, toscane e corse.
Ho provato a ragionare su parametri come l’azimut e la declinazione. Il ventaglio di orientamenti - escludo gli estremi della distribuzione- è tale che statisticamente non è possibile trovare elementi di significatibilità. La popolazione (l’insieme dei dati) non consente di parlare di omogeneità per la grande dispersione. Se però l’intera popolazione viene riferita attorno al sorgere del sole al solstizio d’estate, all’est equinoziale e al sorgere del sole al solstizio invernale e si scompongono gli orientamenti in tre grandi gruppi, ovvero se rielaboro i dati in tre gruppi, che hanno come riferimento, ad esempio l’azimut di 58°, 90°, 123°, con una tolleranza di una decina di gradi, ottengo una certa significatività statistica dei tre gruppi. Sta comunque di fatto che il sole e i suoi punti di nascita sono il riferimento d’orientamento delle chiese romaniche, ma mi pare riduttivo la presa in considerazione i soli parametri di orientamento. Spesso il giorno della festa del santo, o l’evento che ne caratterizza maggiormente la sua vita, possono essere sottesi all’orientamento e determinarlo. Insomma i parametri che determinano l’orientamento delle chiese, sono troppo dispersivi per consentire una teoria sull’orientamento.
L’orientamento astronomico è, per me un parametro, un possibile e importante parametro. Temo però che ogni chiesa abbia una sua storia di riferimento per l’atto fondativo. Perciò è forse necessario l’approfondimento caso per caso. L’esempio di Barga mi pare emblematico e proprio l’approfondimento è stato foriero di notevoli inferenze speculative, mentre ho dei dubbi sull’elaborazione del gran coacervo di dati di tutte le chiese. Ma aspetto il prossimo libro di Mauro per essere smentito!


venerdì 2 novembre 2012

Falsificazioni sulla cosiddetta "scrittura nuragica"


di Massimo Pittau


In Sardegna c’è una attenzione vivissima e quasi morbosa per la civiltà nuragica. Questa attenzione deriva dal fatto che, almeno in una forma in buona parte inconsapevole, i Sardi sanno o “sentono” di avere a che fare col periodo più importante e più glorioso dell’intera storia della Sardegna. Per questo motivo di fondo tutti i Sardi sono istintivamente portati a simpatizzare con chi sostiene che anche i Nuragici avevano una loro “scrittura nuragica nazionale”.
Una ventina di anni fa nel nuraghe Tzricottu del Sinis è stata trovata una targhetta metallica che, in una delle sue facce, porta chiarissimi “disegni ornamentali”, simili ad arabeschi. Intervennero due amanti di cose sarde, insegnanti medi, i quali dichiararono al pubblico che quei disegni in realtà erano i segni di una “scrittura nuragica”, mai conosciuta e riconosciuta prima.
Intervenne subito un archeologo il quale dimostrò – in modo del tutto convincente - che quella targhetta risale non all’epoca nuragica, bensì a quella bizantina e faceva parte dell’armatura di un militare.
Ovviamente c’era stato dunque un grosso abbaglio da parte dei due insegnanti. Uno di questi – anche per tentare di stornarlo da sé – andò avanti con la sua tesi pubblicando anche un libro nel quale c’è pure il disegno di altre tre targhette simili alla prima, ma anche lievemente differenti. Senonché, a mio fermo giudizio, queste altre targhette non sono altro che veri e propri “falsi”. Esse infatti non fanno altro che seguire il disegno della prima, ma con lievi variazioni interne. E si tratta chiaramente di un “falso” fanciullesco, dato che presuppone che la seconda targhetta contenga una iscrizione sovrapposta a quella della prima, la terza targhetta contenga una iscrizione sovrapposta a quella della seconda e della prima, la quarta targhetta una iscrizione sovrapposta a quella della terza, della seconda e della prima. E tutto ciò presuppone un gioco di inserimenti di iscrizioni che non potrebbe trovare posto neppure nei giochi di in una rivista di enigmistica. Che queste ultime targhette siano altrettanti “falsi” è dimostrato pure dal fatto che esse non sono state mai mostrate ad alcuno.
Messisi sulla strada ormai aperta delle “falsificazioni”, alcuni individui hanno finito con l’avere anche fastidi giudiziari rispetto a ciottoli fluviali che sarebbero stati trovati sulla riva del Tirso e che presenterebbero segni di scrittura etrusca.
Da qualcuno di questi individui, per telefono e senza farsi riconoscere, io ho avuto una offerta di fotografie contenenti “iscrizioni etrusche” (ormai si sapeva che io mi interessavo a fondo di “lingua etrusca”). Io non abboccai, dato che sono ben al corrente del fatto che fioriscono in Toscana, in Umbria e nel Lazio settentrionale, “falsari di oggetti etruschi” che offrono agli acquirenti ignari, e questi oggetti tanto più sono apprezzati se riportano scritte anch’esse “false”. Io feci al mio interlocutore anonimo alcune domande sulle supposte “iscrizioni etrusche” e compresi subito che ero di fronte a un inganno e a un tentativo di imbroglio. Per il quale il mio interlocutore aveva chiesto la modica somma di 20 mila euro…
Ma la strada delle “falsificazioni archeologiche e linguistiche” pure in Sardegna era stata ormai aperta, favorita immensamente anche dal ricorso al disponibilissimo “internet”. E infatti da una decina di anni in qua furoreggiano, soprattutto in qualche blog ospitale ed interessato, numerose riquadri di alfabeti e figure di scritte nuragiche, fornite delle necessarie lunghe didascalie. Si tratta però di “falsi”, nient’altro che di “falsi”, ripresi dai numerosissimi siti dell’internet, che possono ritrovare e riscontrare tutti coloro che sappiano e abbiano la pazienza di interrogare a dovere i generosi siti internet.
Però ovviamente questi “falsi” sono sottoposti al cambio di connotati, nel senso che possono appartenere ad una delle numerose lingue del mondo antico, ma, mutatis mutandis, sono presentati come “alfabeto o scrittura dei Nuragici”. Quando è opportuno le figure originali di scritture orientali subiscono qualche spostamento o inversione o ritocco; tutte operazioni che nel computer si possono effettuare con estrema facilità e senza lasciare alcuna impronta digitale…
È possibile scoprire questi “falsi” ed anche evitare facili imbrogli a proprio danno? Sì, è possibile in questo semplice modo: invitare i propositori di queste “scritte nuragiche” a presentare la fotografia di un bronzetto o vaso nuragico che risulti esposto in uno dei numerosi musei archeologici della Sardegna e che dunque sia stato ufficialmente riconosciuto come “reperto autentico” dagli archeologi autorizzati. Poi farsi mostrare la esatta corrispondenza di segni incisi in quei bronzetti o vasi con le lettere di quello che i propositori dicono essere l’”alfabeto nuragico”, corrispondenza anche di sole 5 o 6 lettere appena.
Se questa dimostrazione di “corrispondenza di segni ad altrettante lettere” non fanno, i propositori in questione sono nient’altro che “falsari”, falsari della buona fede dei Sardi.
E approfitto dell’occasione per mettere in guardia i Sardi, amanti della nostra storia, dai “falsari di oggetti nuragici”, anche forniti di “segni di scrittura nuragica”, che ormai circolano numerosi anche in Sardegna. Sono stato chiaro sulle modiche somme che richiedono agli ingenui che siano disposti ad acquistarli?

mercoledì 31 ottobre 2012

Perché i nuragici non possono essere gli SRDN citati nelle cronache egizie


Di Mauro Peppino Zedda

Sul finire del XIV sec. a.C. nel nuraghe Arrubiu di Orroli un alabastron peloponnesiaco del TE IIIA:2 veniva rotto nello strato di fondazione del nuraghe (Lo Schiavo e Sanges 1994). Il reperto rappresenta, allo stato attuale degli studi, il più antico manufatto di provenienza egea rinvenuto in un contesto nuragico (Cultraro 2006).
Una testina d’avorio raffigurante un guerriero miceneo datata tra il TE IIIA:2 e il IIIB realizzata in Grecia è stata ritrovata a Decimoputzu (Cultraro 2006).
In quel di Antigori (Sarroch) un’articolata stratigrafia documenta materiali micenei compresi tra il TE IIIB e il IIIC:1 corrispondenti al periodo tra il 1250 e il 1140 a.C.
In Sardegna relativamente a quanto edito sino al 2005 si sono ritrovati materiali micenei in una ventina di siti (Lo Schiavo 2003; Cultraro 2006).
A Kommos (Creta) in un contesto del TM IIIB, sono state rinvenute ceramiche di impasto prodotte in Sardegna nel BR (Cultraro 2006).
A Cannatello (Sicilia) è attestata la presenza ceramiche prodotte in Sardegna nel BR e BF (Albanese Procelli 2006).
Nel poliandro Su Fraigu di San Sperate è stato ritrovato un sigillo vicino-orientale del XIII sec. a.C. (Lo Schiavo 2003).
Il punto di irradiazione della ceramica grigio ardesia (che si inquadra cronologicamente nel BR nuragico; Campus e Leonelli 2000; Lugliè 2005) è stato individuato nella costa anatolica e nel Dodecaneso (Cultraro 2006; Benzi 1992).
Le analisi chimiche eseguite sui lingotti di rame ox-side ritrovati in Sardegna e nel resto del Mediterraneo attestano che provengono dalla miniera di Apliki a Cipro (Gale 2003).
Nel BF le spade, le fibule, le asce, denunciano influenze sia iberiche che levantine (Lo Schiavo 2003; Lo Schiavo 2004).
Se non conoscessimo l’esistenza degli shardana attraverso le fonti egizie, avremmo preso atto delle influenze culturali egeo-anatoliche e ben difficilmente avremmo posto quelle influenze in connessione con la denominazione del nome dell’Isola.
Ma la questione non è eludibile. É doveroso cercare di capire se i nuragici fossero o non fossero gli shardana citati nei testi egizi.
Lilliu ha sostenuto che lo fossero, la gran parte dei suoi discepoli sono amorfi alla questione (come su tante altre), salvo Ugas che sostiene con forza l’idea che i nuragici siano gli shardana. Lo inviterei a riflettere su uno scritto di Lucia Vagnetti: «Moreover, in regard to the identification of the Sherden with warriors of Sardinian origin, a further difficulty arises from the almost complete lack of evidence for armor and weapons in Sardinia in the local Middle and Late Bronze Ages. Although this is admittedly an argumentum ex silentio, it is surprising that, if the Sardinian of the 14th century were renowned warriors enlisted in the service of Egypt, no trace of weaponry has been preserved in their supposed area of origin. If the warrior status had a particular importance for the Nuragic people, it should be visible in tombs» (Vagnetti 2000).
Mi pare che queste ragionate considerazioni oltre alla questione shardana, chiariscano che le terrificanti armi nuragiche del BM e BR sono esistite solo nella fantasia di Lilliu e continuano ad esistere in quella ancora più fervida di Ugas.
Recentemente Lo Schiavo ha timidamente proposto che i Tursha siano arrivati nel Nord e gli shardana nel Sud dell’Isola (Lo Schiavo 2003). Ma non è entrata nel merito della questione. Sembra che le poche righe dedicate all’argomento siano finalizzate a specificare che prende le distanze da coloro che individuano i nuragici negli shardana citati nei testi egizi.
Tra gli studiosi della preistoria del Mediterraneo la gran parte condivide e opera sulla scia della proposta di Sandars. Tra questi mi pare che la proposta più verosimile sia quella di Giovanni Garbini che individua nei fabbricatori della ceramica micenea l’insieme dei popoli del mare. Per lui le popolazioni egeo-anatoliche che arrivarono in Sardegna e si mischiarono con i nuragici bisognerebbe definirle come sarde-micenee, secondo gli altri (Lo Schiavo et Al. 2004; Ruiz-Galvez et Al. 2005; Cultraro 2006) erano cipriote e levantine.
Secondo me i nuovi arrivati si stabilirono in insediamenti costieri e da lì prese inizio una rete di rapporti economici infarciti da scambi culturali e matrimoniali. Con la mia proposta l’entità numerica delle genti egeo-anatoliche arrivate in Sardegna potrebbe essere inferiore a quella presupposta da altre ipotesi. Gruppi allogeni che conservano la propria identità negli insediamenti costieri, mantenendo stretti rapporti con la madrepatria, hanno una capacità di influenzare tecnologicamente e culturalmente gli indigeni in misura ben maggiore di quella che avrebbero degli allogeni mescolati con gli indigeni.
L’immigrazione ipotizzata da Garbini o dalla Lo Schiavo avrebbe nuragizzato gli allogeni piuttosto che produrre i cambiamenti che caratterizzano il BF della Sardegna.
Quei sardi citati nelle fonti egizie si stabilirono in Calaris&Company e meticciati con ilienses e balari, giocarono un ruolo di primissimo piano nei traffici del Mediterraneo occidentale.
Dopo questo tortuosissimo escursus, mi piace aggiungere che riconoscerei volentieri i nuragici come corrispondenti agli shardana se si riuscisse a spiegare in modo verosimile le seguenti obiezioni:
- dove sono i resti che testimoniano la tecnologia del bronzo nel BM;
- dove sarebbero le armi in stile nuragico;
- come si spiega che a partire dal XIII sec. a.C. la Sardegna diventa un ponte tra l’Occidente e l’Oriente del Mediterraneo;
- in che modo può essere motivata l’assunzione di metallurghi orientali a partire dal XIII secolo a.C. ;
- come mai le spade votive delle fonti sacre sono modelli di spade micenee;
- se l’Isola veniva denominata Sardinia già dall’epoca nuragica, come mai gli storici greci fanno “confusione” sul suo nome.
I nomi vanno e vengono. Interessante al riguardo il modo col quale vengono definiti e si riconoscono i barbaricini, cioè i più vicini discendenti dei nuragici.
Così come i barbaricini hanno accettato quel nome in quanto abitatori della Barbagia, non deve stupire che la totalità degli abitanti dell’Isola divennero sardi in quanto abitanti di Sardinia.
Nei tempi della conquista romana gli indigeni mastruccati ilienses, balari e corsi discendenti dei costruttori dei nuraghi, culturalmente appartenenti alle genti europee e mediterranee che tra il V e il II millennio a.C. hanno cavato, lavorato, sollevato, trasportato, innalzato, colossali macigni per costruire “macchine astronomiche” con funzioni funerarie o sacrali, divenivano agli occhi degli storici romani i sardi pelliti e in altre occasioni (più appropriatamente) ilienses, balari e corsi.
Quanto scritto sopra rappresenta una stringata sintesi di quanto discusso nel libro Archeologia del Paesaggio Nuragico.
A queste considerazioni aggiungo la seguente questione: se i nuragici fossero stati gli shardana citati dalle cronache egizie , dove sarebbero gli elementi che attesterebbero due secoli di rapporti (tra il XV e il XIII sec. a.C.) tra le due regioni?
É evidente che è più verosimile sostenere che Shardana giunsero nel Isola che poi da loro prese il nome nel XIII sec. a.C.

giovedì 27 settembre 2012

In Ricordo di Gianfranco



di Atropa Belladonna


L’ ho conosciuto per pochi anni, troppo pochi. Eravamo amici,lo siamo diventati in modo spontaneo e veloce. Aveva le qualità che più amo e mi affascinano nelle persone: un'intelligenza finissima, una mente connettiva e una grande umanità. Ha cementato il tutto la strana ed inspiegabile alchimia dell' amicizia. In più sapeva scrivere come pochi altri,in modo semplice ma non certo semplicistico, garbato ma incisivo.

Come si usa tra amici mi ha fatto, in questi pochi anni, regali preziosi: mi ha dato la possibilità di scrivere, il privilegio di leggerlo e mi ha concesso la sua fiducia affidandomi il blog,la sua "creatura", nei rari momenti in cui non poteva occuparsene di persona. Mi ha accolto in casa sua, abbiamo riso insieme e sofferto insieme per attacchi personali che definire vili è poco, che ci hanno sconfortato. Mi ha lasciato scrivere la recensione del suo libro "Sa Losa de Osana": non ne avevo mai scritto una, ma gli era piaciuta e lo aveva fatto sorridere.
Vorrei vedere il suo grande sogno realizzato, il bilinguismo. Vorrei che venisse non solo realizzato, ma ampliato al trilinguismo nei musei, e negli altri luoghi dove si raccontano la storia e la cultura della sua Terra: quando vi sbarcavo gli mandavo sempre un messaggio "Arrivata in Terrasanta!".
Ci siamo incontrati raramente, ma era contento di sapere che ero lì.
Vorrei che fosse intitolata a lui la sala del museo di Cabras dove verranno messe in mostra le sculture di Monti Prama, emblema antichissimo della Sardegna libera, indipendente, moderna ed internazionale che sognava.
In tanti hanno commemorato Gianfranco in questi giorni, tra i miei preferiti i bellissimi pezzi di Manuelle Mureddu e di Vito Biolchini, e i commossi contributi di Roberto Bolognesi. Mi hanno fatto piangere gli amici che gli hanno detto "Adiosu frade".
A me piace pensare che sia adesso nell'Intorno, come sempre penso della luce; non "lassù", perchè il Lassù è troppo lontano.
Arrivederci amico mio.

domenica 9 settembre 2012

Archeologia in Sardegna, quarant'anni di cattivi maestri


di Mauro Peppino Zedda


Recentemente Mauro Perra ha pubblicato un interessante articolo “Osservazioni sull’evoluzione sociale e politica in età nuragica” nella Rivista di Scienze Preistoriche LIX 2009, 355-368.
L’interessante articolo di Perra si presta ad una serie di interessanti considerazioni in relazione allo stato dell’arte dell’archeologia preistorica isolana.
A riguardo del modo in cui Perra interpreta la società nuragica, niente di nuovo rispetto a suoi precedenti articoli, e per la mia analisi critica della sua tesi rimando alla lettura di Archeologia del Paesaggio Nuragico.
Ma il suo articolo è estremamente interessante a riguardo dello stato dell’arte dell’archeologia preistorica isolana. Perra prima di proporre la sua teoria cita e fa l’analisi critica delle proposte che l’hanno preceduto. Cita (nell’ordine) Giovanni Lilliu, Vincenzo Santoni, Fulvia Lo Schiavo, David Trump, Alessandro Usai, Gary Webster, Luca Navarra, Paula Kay Lazrus, Dyson e Rowlands, Giovanni Ugas.
Come mai Mauro Perra non cita le pubblicazioni di Alberto Moravetti e Giuseppa Tanda ovverosia gli attuali professori ordinari delle Università di Sassari e Cagliari, e neppure i loro predecessori Ercole Contu e Enrico Atzeni.
Infine, in chiusura del testo scrive testualmente: “Dedico questo lavoro a Renato Peroni per il quale nutro un solo e sincero rammarico: quello di non essere stato un suo allievo. Sono inoltre in debito di riconoscenza agli amici e colleghi Giulio Angioni, Emily Holt, Fulvia Lo Schiavo, Alessandro Usai, nonché alla mia compagna Tatiana Cossu.”.
Che dire? Mi pare che il rammarico di Perra per non aver avuto Peroni come maestro e la contestuale mancata citazione dei suoi maestri sia sintomatica.
La mancata citazione di Atzeni, Moravetti e Tanda la comprendo appieno, nessuno dei tre ha proposto niente di interessante sui nuraghi, nella loro carriera si sono limitati a ripetere le teorie di Lilliu.
Viceversa ritengo che Ercole Contu meritasse di essere preso in considerazione, all’analisi del mondo nuragico ha dedicato un grosso libro e tanti articoli. Certamente le tesi di Ercole Contu non brillano in fatto di linearità (casca spesso in banali contraddizioni), ma questo non dovrebbe aver impedito la sua mancata presa in considerazione, le contraddizioni di Contu non sono certo più gravi di quelle in cui cade Lilliu.
Ercole Contu propone una società nuragica egualitaria, anche se spesso (senza accorgersi di cadere in contraddizione) cita dei re o reucci che nel suo schema non dovrebbero esistere.
Ma Lilliu non è da meno, riuscendo a conciliare il comunitarismo che a suo parere emerge dalle tombe di gigante con il verticalismo dei nuraghi.
Caro Mauro Perra, mi pare che Contu avrebbe meritato una citazione ben più sostanziosa dello spazio che hai dedicato alla tesi di Luca Navarra (uno che i nuraghi deve averli visti solo in fotografia).
Infine confesso che anch’io ho un grosso rammarico: gli studenti sardi di archeologia (negli ultimi 40 anni) avrebbero meritato dei migliori maestri.

giovedì 23 agosto 2012

Ancora sulle recenti considerazioni di Ugas


di Paolo Littarru


In merito alle considerazioni del Prof. Ugas, vorrei fare due ulteriori aggiunte:

1. Non corrisponde al vero che nei nuraghi “non si trovino oggetti connessi coi culti e con le offerte sacre di corredo sacro prima degli inizi del I Ferro”; come abbondantemente dimostrato dall’archeologo Augusto Mulas nel suo recente libro “L’Isola sacra – Ed. Condaghes”, l’abbondanza di reperti risalenti finanche al Bronzo Medio (periodo di presunta edificazione dei primi nuraghe), è rivelatrice di usi cultuali;

Inoltre, come ottimamente illustrato da Mauro Zedda in “Archeologia del paesaggio nuragico”, gli "indicatori archeologici" che deve presentare una struttura per poter essere interpretata come sacra, o meglio gli indicatori di un rituale, sono esposti in Renfrew e Bahn Archeologia. Teorie, metodi e pratiche ed. 1995 e 2006 Zanichelli e sono i seguenti
- concentrazione dell'attenzione

luogo caratterizzato da speciali associazioni naturali (es. grotta, boschetto, sorgente, cima di una montagna
posizione periferica rispetto ad un centro abitato
presenza di altari, seggi, focolorai, incensieri e tutti i parafernalia del rituale
simboli ripetuti "ridondanza"

- zona di confine tra il mondo di confine e l'aldilà

sia cerimonie pubbliche che misteri nascosti ed esclusivi la cui pratica si riflette nel luogo di culto
elementi di purificazione (es. piscine e bagni rituali; pozzi, l'aggiunta è una n.d.r.)

-presenza della divinità

immagini o rappresentazioni della divinità
simboli riferiti all'iconografia es. animali reali o mitici
simboli rituali riferiti a rituali funerari o altri riti di passaggio

- partecipazione e offerte

decorazioni o immagini che richiamino movimenti rituali o gesti di adorazione

il rituale può includere la danza, la musica etc.
sacrifici animali
cibi e bevande bruciate sparse
oggetti votivi rotti o nascosti
investimento di ricchezza nell'apparato cerimoniale e nelle offerte, oltre che nell'edificio stesso

In pratica solo pochi di questi indicatori saranno ritrovati in un contesto archeologico


Evidenzio che il testo degli archeologi inglesi vorrebbe essere di portata generale, riferibile cioè a tutti i contesti archeologici, senza esclusioni.
Nel BM ma ancor più nel BF molti di questi indicatori sono presenti nei nuraghi.

2. Non consta corrispondere al vero allo stato attuale delle conoscenze e salvo prova contraria che nei nuraghi si trovino armi risalenti al presunto periodo di edificazione dei nuraghe