sabato 20 agosto 2016

Frammento, chiave di logica

di Franco Laner


Nell’articolo precedente Esercizio di Logica, a riguardo della fig. 4, lasciavo al lettore l’osservazione e il giudizio di due sequenze di foto degli scavi del ’79 di MP. Le risposte, non molte, sono tutte maligne e tendono in conclusione a proporre di scambiare la sequenza: il primo scatto è quello di destra e il secondo quello di sinistra.
Tutti però premettono che non è facile perché distanza e angolazione sono diverse…
Ipotizziamo che la sequenza sia quella proposta in fig. 4 del precedente post.
Nell’avanzamento dello scavo, le foto provano:
-         che la testa del pugilatore emersa sia quella tutt’ora esibita, intatta.
-         che sopra la testa ci sia lo scudo, come recita la dida (v. fig. 4 precedente post)
In sintesi le foto ci dicono che le illazioni, i sospetti, financo il ridicolo, sono cattiverie e stupidità.



fig. 1 La didascalia degli archeologi dello scavo del ’79 recita come sia ben visibile il frammento della scudo sopra la testa del pugilatore, emersa intatta, come mostra la foto a destra. Nemmeno del raccordo fra testa e scudo c’è traccia

Osserviamo bene il frammento di scudo della fig. 1 posto sopra la testa. Esso è leggermente curvato e all’estremità curva improvvisamente. È  un frammento piuttosto caratterizzato, difficilmente confondibile. È anche piuttosto grande, come la testa del pugilatore, ma non lo vedo inserito né nello scudo del pugilatore di Cagliari, sopra la sua naturale testa, né sopra quello di Cabras.
Dov’è andato a finire? Non c’è al suo logico posto come rinvenuto. Ho poche foto dello scudo da sotto o sopra, ma per quelle che ho trovato, es fig. 2, il frammento non è stato collocato.


fig. 2. In questa foto (prof. Mondazzi) non c’è il frammento dello scavo del’79. Nemmeno il frammento è stato messo nello scudo del pugilatore di Cabras

Le deduzioni  della sequenza di scavo sono:
  1. le due foto sono strumentali per dimostrare l’autenticità della testa appena scavata e della certezza dello scudo in testa al pugilatore.
  2. La testa è autentica e la dida dello scudo in testa è stato un errore
  3. La testa è stata messa “in posa” e il frammento dello scudo è andato perso, o dimenticato o si è appurato che non fosse un frammento di scudo
  4. è tutto autentico, sia foto, sia ricostruzione, secondo le ipotesi confermate di Lilliu e C.
Ognuno ovviamente può scegliere. Io propendo per la deduzione 1.
Mi riservo di verificare de visu i due scudi e se le foto non mi hanno fatto vedere il frammento effettivamente collocato, specie se i voli Treviso-Alghero saranno ripristinati. Certe cose sarde sono davvero incomprensibili. È lapalissiano che Ryanair per il turismo sardo conta mille volte più che l’assessorato al turismo della Regione, che ancora sta pensando come valorizzare il patrimonio archeologico dell’Isola


sabato 13 agosto 2016

Esercizio di logica


di Franco Laner

L'esercizio è un'applicazione della metodologia indicata nel racconto di F. Pessoa "Il furto della Villa delle Vigne" in cui il grande scrittore e poeta portoghese inaugura un metodo di indagine per individuare il ladro.

Domanda.
Come mai le teste di pugilatori esibite a Cagliari e a Cabras, dello stesso calcare, trovate nello stesso sito, si mostrano differenti nel grado di finitura e conservazione?

Il fatto.
Durante gli scavi dal ’74 al '79 vengono alla luce teste e altri numerose parti di statue. Più di 5.000 frammenti, in parte ricomposti a Li Punti ed ora sciaguratamente esposti in parte a Cagliari e in parte a Cabras. Eppure Salomone ci insegnò che la divisione in due del bimbo vivo non avrebbe giovato a nessuna delle due madri.
Due teste, una in particolare, si presentano molto definite, fresche e “levigate”, altre diversamente incerte con segni di degrado, corrosione, alterazione chimica e offese meccaniche dovute alla lama dell’aratro.
Non ci sono ragioni per pensare che siano disetanee. Ovvio, non parlo di anno, bensì di lustri o secoli.


fig. 1 Teste di Pugilatori. La prima è la più nota. La seconda anche è ben conservata, mentre le altre sono degradate.

Ipotesi.
L’ipotesi più  accreditata è che le due teste meglio conservate abbiano convissuto con un microambiente non aggressivo, mentre le altre si sono trovate in un ambiente particolarmente aggressivo.
E’ questa una conclusione, forse logica, forse inevitabile. Tuttavia non è un fatto. Non è certezza, pur possedendo un alto grado di probabilità. Chi oserebbe pensare che non sia così? Chi mai può dubitare che i reperti non siano autentici?
Ci sono altre ipotesi che possono spiegare il fatto anche se con minore probabilità?
Ne avanzo una con bassissime probabilità, contraria a quella accreditata, estrema.
Ci saranno allora ipotesi intermedie fra quella accreditata e quella contraria.
Due estremi presumono infatti posizioni intermedie.
Come ipotesi contraria assumo dunque che le due teste siano false, scolpite recentemente (40 anni fa circa) da uno scultore.
Molto vicina a questa ipotesi estrema e contraria, ci sta l’ipotesi che le due teste siano state semplicemente ritoccate e rimesse “in bella”. Quest’ultima ipotesi ha maggiori probabilità, perché ha un grado di estremità minore dell’ipotesi del falso.
Ovviamente se uno scultore portasse le prove di essere l’autore del falso, il ragionamento finirebbe.
Fra l’ipotesi accreditata e la contraria  ("ritocco") ci possono essere altre ipotesi intermedie, che prenderò in considerazione solo dopo aver rigettata la nuova ipotesi estrema.
La levigatura, che rende liscia porzioni delle teste se è stata eseguita recentemente, deve avere una certa profondità e per quanto “il restauratore” sia abile, cancellerà nella levigatura ogni elemento in rilievo, rendendo la superficie liscia come un biliardo.
Lo scultore e storico, prof. Mondazzi di Torino scrive -dic. 2015- nella sua perizia sulle statue di MP (vedi ad esempio il testo sul blog di Montalbano) che trova perlomeno strani i segni evidenti al posto delle trecce nella testa del pugilatore più esibita. Perché mentre in tutte le altre teste ci sono le trecce, qui ci sono solo le tracce? Si può dedurre che le trecce siano state levigate e che i segni strani siano la testimonianza delle preesistenti trecce, ora levigate. (fig. 2)


fig. 2. Delle trecce, presenti in tutte le teste dei pugilatori, sono rimaste solo le tracce perché cancellate dalla levigatura (Foto prof. R. Mondazzi. Torino)

La parte del volto meglio conservata, anzi la più nitida e meglio incisa, di un paio di dmq, su qualche centinaio di mq di superficie totale di tutti i reperti, è senza dubbio l'arcata sopraccigliare, gli occhi e il naso della ns testa di pugilatore. Una nicchia infinitesima e mirata si è salvata dall'universale e fisiologico degrado. Non temete, ho ben presenti anche altri sparutissimi particolari, come la mano e avambraccio che tiene l'arco…
Il tempo, grande scultore, ha fatto dunque dono -nella sua incommensurabile pietà- di preservazione di ciò che in nuce racchiude tutto MP. Un magico scrigno fatale ha protetto l’essenza.
Quando si dice della fortuna degli archeologi!
Il miracolo, ancora più grande, è per me la perfezione e freschezza dei doppi cerchi e l'incavo oculare e il taglio sopracciliare, soprattutto se si pensa che sono morfologicamente un ottimo ricettacolo di acqua e quindi di attacchi corrosivi e degrado chimico.
Trovo altresì eccezionale la conservazione dei buchi-fessura del naso. Due fessurine proprio nel naso, sporgenza vulnerabile e corrodibile. La conservazione di un tal particolare ha davvero del miracoloso. Ma il miracolo non è un fatto, è una congettura quando non si sa dare spiegazione.


Fig. 3 In un paio di dmq di superficie si può racchiudere tutta la vicenda di MP. Gli altri mq di reperti, insieme non valgono come questi che sono sopravvissuti intatti ad ogni avversità. Basta voler credere ai miracoli. A destra del volto si vede chiaramente il segno della treccia

Si guardi con occhio ingenuo (so che ora è difficile) il volto del pugilatore e si esprima a sè stessi un giudizio sincero e di buon senso comune, buon senso comune che è un nostro immenso patrimonio collettivo (v. La Capria, La mosca nella bottiglia) e si dica se il germe del dubbio di un ritocco non sia condivisibile!
Aggiungo, chiosando ancora il prof. Mondazzi, che all'epoca, anni settanta, un restauro anche pesante di un reperto non era un delitto di lesa maestà e ci stava, per tanti motivi, mediatici, di carriera, di ignoranza, di semplice vanità o amor isolano.
Spesso si è restaurato per amore: a statue mutile si sono aggiunti arti e teste a busti acefali.
Le Carte del Restauro non erano prescrittive, né ancora culturalmente condivise o conosciute.
Torno al ragionamento iniziale. Le probabilità dell'ipotesi concernente il ritocco, dopo queste osservazioni, sono percentualmente più alte dell'ipotesi accreditata inizialmente.
Per ora dunque, in mancanza di altri fatti, la probabilità di un ritocco, non so quanto pesante e profondo, su entrambe le teste, è alta e l'ipotesi più accreditata è soccombente.
Ad aiutare le quotazioni di chi non si sente di mettere in dubbio l'originalità delle due teste, metto ora sul piatto le testimonianze degli archeologi, Tronchetti in primis, che oltrettutto ha documentato le fasi di scavo e ritrovamento della testa in questione (fig.4).
La foto è una prova importante. Per dimostrare però che anche in questo caso è d'obbligo la sospensione del giudizio, introduco una ipotesi estrema, col metodo Pessoa sopraesposto, rimando però ad un prossimo post.
Nel frattempo, chi fosse interessato, può esercitare le sue virtù indagative confrontando, a mò del passatempo "trova le differenze" della Settimana Enigmistica, le due foto e rilevare qualche anomalia.
Un particolare, per me, in una delle due foto, è davvero intrigante e getta un forte sospetto sulla legittimità ricostruttiva del pugilatore, o viceversa, sulla foto.
Alla prossima!


fig. 4.  Scavo Tronchetti del 1979. La testa del pugilatore più gettonato, esposto a Cagliari. Nella foto a destra emerge dal terreno un frammento dello scudo che la statua regge sopra la testa (da AA.VV "Giganti di Pietra", Fabula, Cagliari, 2012)



mercoledì 10 agosto 2016

L'insostenibile ricomposizione dei reperti. Il caso dello scudo rotondo di Monte Prama

di Franco Laner

 Fig. 1. Lo scudo rotondo con chevron dei bronzetti è perfettamente quadripartito e gli angoli sono ovviamente di 90° (Bronzetto da Teti, località Abini e da Padria)

Il titolo, che di solito sintetizza il contenuto di un articolo e che cerca anche attrazione e curiosità, poteva essere “Coriandoli su una tabula rasa”, ma una qualche logica ricostruttiva dello scudo rotondo non si può negare. La logica però non ammette aggettivi: o è logica o non lo è!
Lo scudo rotondo, assegnato ai “guerrieri” delle diverse tipologie di statue ricomposte a Li Punti, è ora esposto a Cabras, nel Museo Marongiu.
I frammenti dello scudo sono 23 e ricoprono una superficie del 40% circa. Il 60% dello scudo, che ha un diametro di 64cm, è “vuota”, lacunosa, direbbero i restauratori.
La ricomposizione è avvenuta tenendo conto sia dall’accostamento di frammenti combacianti, sia avendo a mente alcuni bronzetti nuragici di sorprendente riferimento, nell’insieme e nei particolari, come appunto lo scudo rotondo che ricorre in diversi bronzetti (fig. 1)
Ovviamente non poteva mancare la maquette predisposta già dai primi scavi, con la ricostruzione delle tipologie, pugilatori con scudo intesta, arcieri , modelli di nuraghe ed ovviamente anche guerrieri (fig. 2).
Fra le numerose ricomposizioni, pugilatori, arcieri, guerrieri, “modelli di nuraghe”, quella dello scudo rotondo può essere considerata facile, relativamente alle maggiori difficoltà dell’assemblamento degli altri reperti, perché i frammenti di scudo sono inequivocabili proprio per la presenza di chevron, bordi di frammenti ad arco di cerchio, ambone, ecc..


Fig. 2 Il disegnatore è stato assai abile: è riuscito nell’illogico compromesso geometrico di ripartire lo scudo in quattro parti con angoli inferiori a 90°, lasciando per strada 70° (complemento a 360°). Il mancato parallelismo dei lati degli chevron evidenzia l’ovvio l’insuccesso

Diamo per scontata la legittimità di questi “restauri”, l’ispirazione a modelli assomiglianti e l’appartenenza dei frammenti all’oggetto da ricomporre. Sia lo scudo dei bronzetti, sia quello del disegno mostrano una quadripartizione del cerchio. Non è nemmeno difficile verificare che i solchi dello chevron dei frammenti siano, al di là di modestissime imperfezioni, paralleli fra loro. Pertanto l’angolo dello chevron non può che essere di 90°. Se l’angolo dello chevron è però inferiore ai 90° posso ancora avere la quadripartizione, ma i solchi non saranno più paralleli, bensì incidenti, come si vede sia in fig. 2, sia in fig. 3
Gli angoli degli chevron dei frammenti, 8 in tutto, hanno aperture dissimili (fig. 3). Ho misurato tali angoli e riportato le misure. Tali misure non sono precise, per diversi motivi: la foto non è zenitale, l’umbone è decentrato, il cerchio non è perfetto, io non ci vedo benissimo e pertanto penso che l’approssimazione possa essere ± 1°-2°. L’elaborazione dei dati, mi sia concesso di eliminare la quarta (54°) e quinta misura (56°) -per ora- porta ad una media di 71,2° con una scarto quadratico di 3,2 e pertanto la dispersione è bassa (4,4%) e ci dice dell’omogeneità della popolazione.
Mi sembra ovvia la conclusione: 360°/5 = 72° e pertanto lo scudo con questi chevron è pentapartito.
I due chevron con angoli di 54° e 56°, o non appartengono alla popolazione presa in esame (sono di un altro scudo), oppure chi ha diviso il cerchio in 5 parti non è stato preciso! Ma la pentapartizione mi sembra comunque dimostrata: avremo un angolo di 56° e uno di quasi 90° (83°) ma i solchi saranno paralleli (fig. 4). Altra logica: gli chevron intorno ai 60° (mi riferisco ai due angoli di 54° e 56°stretti) indicano la possibile esapartizione di uno scudo. Restiamo però sulla ricostruzione dello scudo, dove sono stati ricollocati tutti i frammenti.


Fig. 3 Scudo ricomposto a Li Punti ed esibito a Cabras. La quadripartizione comporta una molteplicità di incongruenze geometriche, come l’evidente incidenza dei segmenti dei rami degli chevron che dovrebbero essere paralleli (es. a-b, c-d, e-f,…). La quadripartizione ricostruttiva mostra angoli di 102°, 67°, 98° e 93°. Ancora, uno chevron di  68° è seguito da uno di 75° sullo stesso ramo! Davvero un pasticcio, che giustifica l’impressione di coriandoli disposti dal vento.

Perché queste puntigliose osservazioni?
Per dimostrare l’estrema pericolosità di una ricostruzione quadripartita che ha poco di rigoroso perché gli angoli dello chevron indicano la pentapartizione dello scudo e non la quadripartizione.
Come corollari di questa dimostrazione annoto cosa comporta l’errata ricomposizione:
-   Ovvia necessità di adattamenti dei frammenti con risultati disastrosi sul parallelismo dei solchi (es. segmenti a, b, c, d, .. di fig. 3)
-   I riferimenti alla simbolicità della divisione sono diversi: un conto è ragionare sul numero 5 (3+2) altro sul 4. Credo che non si possa mettere in discussione la decorazione dello scudo e la sua simbolicità, specie propiziatoria e apotropaica
-   L’estrema pericolosità della ricostruzione, che apre alla discrezionalità e alla soggettività interpretativa e quindi a fuorvianti deduzioni per chi studia il reperto ricostruito
-   Nel caso specifico, si nota la casualità ricostruttiva. Ad es. sullo stesso ramo, uno chevron ha un angolo di 68° e un altro di 75° (fig. 3).

Fig. 4 Tenendo conto dei 4 chevron di bordo dei reperti e del parallelismo dei suoi rami, la pentapartizione sarebbe stata come nella schizzo. Lo chevron di 83° (mancante) è il complemento a 360° della somma dei 4 angoli degli chevron reperiti. La pentapartizione avrebbe dovuto essere la maquette di riferimento della ricostruzione dello scudo, assai diversa da quella quadripartita assunta dai “restauratori”.

Si vede comunque, appena si faccia mente e occhio locale, anche senza misurazioni, che la geometria dello scudo ricomposto è negata. Sostenere la correttezza della ricostruzione dello scudo esibito nel Museo Marongiu equivale ad introdurre la tesi dell’illogicità decorativa, non facile da condividere, specie se si condivide che lo scultore non fosse un pasticcione o un pressappochista.
La ricomposizione dello scudo è un pasticcio di logica geometrica, sostenuto dalla voglia di rimettere in bella un oggetto per turisti di bocca buona o semplicemente per soddisfare la vanità dei protagonisti di una vicenda eccessivamente esaltata dai media e difesa contro ogni logica, ad esempio i pugilatori con lo scudo sopra la testa.
Perché non ci basta quanto il tempo, grande scultore e generoso custode, ci ha lasciato?
La resurrezione non è una categoria umana e per quanto ci si impegni a contrastare l’ordine divino delle cose, mettiamo dunque in conto anche la loro rovina.

sabato 21 maggio 2016

L'incubazione Sarda presso gli Eroi


di Alessandro Mannoni

Il post di Mauro Zedda sul Rito dell’incubazione nell’epoca nuragica (7 marzo 2016) mi sollecita a ritornare sull’argomento che avevo già diffusamente trattato in un ampio capitolo del mio libro “Religione e spiritualità nella Sardegna Nuragica” (Mannoni  2014).
Le ragioni che consentono di escludere con ragionevole certezza l’uso a fini incubatori delle tombe dei giganti nuragiche sono tre.
Le prime due le ha nuovamente riassunte Zedda nel suo scritto:
1)      tecnicamente risulta poco praticabile l’utilizzo di uno spazio aperto, quale quello fornito dall’esedra della tomba dei giganti,  per un rito che prevedeva un sonno indisturbato e della durata addirittura di più giorni. Nelle altre regioni della Grecia e del Medio Oriente dove si praticava tale rito, ad esso erano sempre destinati dei locali chiusi o delle grotte, luoghi protetti da intemperie, animali, presenze o rumori che sarebbero riusciti di disturbo o di ostacolo alla completa esecuzione del rito.
2)      la cronologia non coincidente che confuta l’attribuzione di un fenomeno religioso, descritto in ambito greco solo a partire dal IV secolo a. C., ad una struttura tombale il cui uso termina con certezza almeno 700/800 anni prima. L’incubazione sarda di cui parla Aristotele, e con lui i suoi tardi commentatori, non può che essere un fenomeno osservato e raccontato dai viaggiatori e colonizzatori greci che solcavano il mediterraneo occidentale nel I° millennio a.C. e non precedentemente.
La terza però mi appare come decisiva. Tutte le fonti antiche che trattano l’argomento, sia greche che latine, pur nella loro estrema sinteticità concordano su un fatto: i luoghi presso cui viene effettuato il rito appartengono ad “eroi” e non a comuni defunti. Non si parla di avi o antenati generici, ma sempre e solo di alcuni, pochissimi, eroi. Conseguenza sicura di tale fatto è l’esclusione dal rito incubatorio delle tombe dei giganti, in quanto sepolture collettive di comuni defunti, per giunta diffusissime sul territorio. 
Se poi si aggiunge che tali eroi, secondo le fonti più tarde, apparivano come “dormienti” nel santuario loro dedicato, si capisce come tali salme, probabilmente imbalsamate, dovessero essere ospitate in ben altri luoghi che le tombe dei giganti.
La distinzione cultuale tra eroi e normali defunti sembra però un punto che continua ad essere ignorato o trascurato dagli studiosi che si sono occupati dell’argomento, quasi si trattasse di un fatto irrilevante ai fini della comprensione del fenomeno.
In effetti comincia con l’iniziale studio del Pettazzoni sulla religione primitiva in Sardegna (Pettazzoni 1912) l’associazione tra l’incubazione sarda e la pratica del sonno presso le tombe degli antenati morti per ottenere visioni e oracoli diffusa tra le antiche popolazioni libiche dei Nasamoni e degli Augili  (descritta da Erodoto, Pomponio Mela e Plinio il Vecchio), i quali, con le parole dello stesso Pettazzoni, “non avevano altra religione che la religione dei morti”. Tale associazione è stata poi riproposta dagli autori successivi, sino al recente studio di Attilio Mastino, che pur focalizzando esplicitamente la sua analisi proprio sul “sonno terapeutico davanti agli eroi”, tanto da ambientare il rituale non più presso le tombe dei morti, le tradizionali tombe dei giganti, ma nei templi, ed in particolare davanti alle statue dei giovani eroi guerrieri del santuario di Mont’e Prama, in conclusione però finisce per riproporre il consueto abbinamento, propendendo, sempre sulla scia del Pettazzoni, per una decisiva influenza nordafricana sull’usanza sarda, e  contraddicendo, in tal modo, la sua stessa ipotesi interpretativa (Mastino, Aristotele e la natura del tempo: la pratica del sonno terapeutico davanti agli eroi della Sardegna, 2015).
Questo accostamento mi pare invece fraintenda un dato religioso che ha notevole valenza e che forse si può intendere meglio con un esempio adeguato ad un pubblico più abituato alle forme religiose del cattolicesimo che a quelle arcaiche: in sostanza sarebbe come se, per la richiesta di grazia, un cristiano malato si affidasse non alla Madonna, a S.Antonio o a Padre Pio, ma alla buonanima della trisnonna defunta!
Presso molte culture dell’antichità gli eroi, a differenza dei comuni mortali, erano individui con un destino, anche post mortem, radicalmente diverso, e quindi in grado di intervenire salvificamente presso i fedeli che li interpellavano. E che i protagonisti del culto sardo fossero eroi lo asseriscono esplicitamente, ripeto, tutte le fonti greche e latine al riguardo, a partire dalla prima testimonianza aristotelica; fonti che invece, quando si riferiscono alle popolazioni nordafricane dei Nasamoni e Augili, non hanno difficoltà a parlare esclusivamente di antenati e morti comuni (progonoi, manes, inferos), la cui divinizzazione, nel mondo classico, aveva però un carattere collettivo e indistinto, mai individuale come nel caso degli eroi.
E, indirittamente, proprio Pettazzoni sembra mostrarlo con la sua ricca casistica di confronto dell’usanza, dal momento che al di fuori degli esempi del Nordafrica, tutti gli altri avanzati, sino alla sopravvivenza in ambito cristiano, hanno a che fare con specifici eroi, divinità o santi e mai generici e banali defunti (Pettazzoni 1912, pag.152 e seg.).
La comunanza di finalità (terapeutica) e di tecnica (il sonno) utilizzate in Africa e in Sardegna quindi non mi pare consenta un’assimilazione indebita tra le figure interpellate nel rito.
Anche la messa in discussione della validità delle fonti classiche stesse, dirette, si sostiene, con la loro interpretazione culturalmente e politicamente interessata del rito sardo a riportare ai greci e ai loro eroi ogni degna espressione civile, o tramite i Troiani a convalidare arcaiche connessioni tra sardi e romani (Didu 2003 – Baglivi  2005 – Mastinu 2014), non mi pare possa essere del tutto giustificata: non solo perché viene applicata esclusivamente alla lettura delle fonti sui sardi, ma non a quella di altre popolazioni come quelle Nordafricane, mai “viziate” da distorsioni interpretative; ma anche perché le testimonianze classiche sono le uniche che abbiamo sul fenomeno, l’unico dato scritto grazie al quale abbiamo notizia di questa pratica che altrimenti avremmo ignorato del tutto. Testimonianza non sostituibile con dati archeologici o comparativi, assolutamente insufficienti, da soli, a far luce sull’usanza in questione.
Come poi possa apparire mero frutto di una rilettura a posteriori di epoca classica un culto degli eroi (al di là della loro specifica identificazione) in una civiltà, quale quella sarda del bronzo finale e del ferro, che ha prodotto una bronzistica e una statuaria unica avente ad oggetto privilegiato proprio le figure di giovani guerrieri, non si riesce a comprendere.
Escluse pertanto le tombe dei giganti quali potevano essere i luoghi preposti al rito? Forse alcuni nuraghi complessi già a partire dall’epoca nuragica e con un utilizzo cultuale prolungatosi per buona parte del I° millennio, come Pittau, Baglivi e infine Zedda suppongono?
Tenderei ad escluderlo per una serie di ragioni: culturali innanzitutto. La pratica incubatoria sembra espressione delle culture diffuse nel bacino del mediterraneo, orientale e nordafricano, ma non del continente europeo, con cui la civiltà nuragica aveva probabilmente maggiori affinità.
Ma soprattutto l’ideologia religiosa sottesa al culto degli eroi, anche per quanto detto prima, è distante dalla visione antropologica e dall’organizzazione sociale probabilmente egualitaria della cultura nuragica in senso stretto (Zedda 2009) e soprattutto dalla sua visione del sacro, dove probabilmente non era ancora presente quel processo di antropomorfizzazione e specializzazione delle forme divine che invece diventerà tipico della cultura post nuragica che inizia ad emergere tra la fine del II° e l’inizio del I° millennio a.C.
Molto più sostenibile mi sembra quindi la localizzazione all’interno di heroon presenti in alcuni di quei santuari “federali”, come l’archeologia sarda li ha spesso definiti, che compaiono alla fine della civiltà nuragica vera e propria e appartengono a una fase religiosa e culturale differente della storia sarda, come ho cercato di mostrare nel mio libro (Mannoni  2014).
Se Mastinu ipotizza una tale destinazione per il santuario di Monte Prama, Pittau pensava ad un utilizzo anche incubatorio delle stanzette del recinto di Santa Vittoria di Serri, mentre nel mio lavoro immaginavo un’analoga funzione per il santuario di Su Romanzesu a Bitti.


sabato 14 maggio 2016

Pinuccio Sciola


E’ morto un grande artista internazionale.
E’ morto un grande sardo.
Dai pochi incontri che ebbi, fino alla telefonata di una quindicina di giorni fa, ne sono sempre uscito confuso, spiazzato, privo delle poche certezze che pensavo di possedere.
Mi ha raccontato, proprio nell’ultima, lunghissima telefonata, della sua dimostrazione, di fronte ad un consesso romano di cardinali nella basilica di San Pietro in Vincoli, che  il Mosè di Michelangelo, per quanto sollecitato, non avrebbe potuto parlare, semplicemente perché la struttura saccaroide del marmo di Carrara, non può mettere in vibrazione la pietra a causa della sua discontinuità molecolare.
Esso rimane muto e la richiesta di Michelangelo “Perché non parli?” era destinata a non aver risposta. Prima di questa telefonata avevo commentato con Lui alcuni passi di un libro di F. Guarducci “Teoria, il divino oltre il dogma” in cui l’autore dedica diverse pagine al suono che ancora pervade l’universo, energia sprigionata dal Big Bang. La pietra è energia solidificata. Per tutte le religioni, a partire da quelle greche, mitratica, islamica, vedalica, la pietra è sempre stata sacra. Il Maestro rivendicava la capacità di richiamare quei suoni siderali e arcani, qualcosa in più e diverso dal teorizzarne la presenza. E come si inalberava se solo cercavo di esporgli il mio pensiero sulla trasmissione del suono dovuto alla vibrazione delle sottili lame di pietra da lui sollecitate con ieratica convinzione.
Ero riuscito, in questa recente telefonata, a convincerlo a venire il prossimo 22 giugno al Parco archeologico di Santa Cristina a Paulilatino a parlarci del suo progetto di trasformare la Carlo Felice in un museo della pietra all’aperto, aggiungendo alle tante preesistenze, nuraghi, tombe di giganti, pozzi e dolmen, sculture di artisti di tutto il mondo, che lui conosceva e pronti a regalare saggi della loro arte.
Non so, a questo punto, se completare l’organizzazione del seminario, mancandone l’anima. Ma potrebbe essere anche occasione per ricordare il Suo contributo all’arte scultoria e non solo.
Ciò che devo a Pinuccio è di avermi fatto capire che l’arte nuragica si può capire solo abbandonando la concezione lineare del tempo ed avvicinandosi alla concezione circolare del tempo, dell’eterno ritorno ab inizio, e pertanto una statua di Fidia –i greci avevano una concezione lineare del tempo- cristalizza l’attimo fuggente, intuisci ciò che c’era prima e ciò che verrà dopo la fissazione dell’attimo. Per l’arte nuragica ciò che conta non è l’attimo, bensì l’iterazione del gesto, dell’azione o dell’evento. Questioni sottilissime di psicogenesi dell’Arte, che il maestro trattava con la naturalezza che ogni grande artista possiede senza scomodare dimostrazioni scientifiche, ma forte di intuizione e introspezione propria di chi vive proiettato in dimensioni concesse a pochi mortali.
Scompare con Pinuccio Sciola uno dei grandi protagonisti dell’arte che ha culla in Sardegna, come Antine Nivola, Maria Lai e Mario Delitala.

Franco laner

Venezia, 14 maggio 2016

domenica 1 maggio 2016

Guido Cossard tra tori e bufale


di Mauro Peppino Zedda

Nell’Aprile scorso Guido Cossard in una conferenza tenuta a Cagliari ha tessuto le lodi alla proposta del toro di Luce dei GRS  e a quella di Adriano Gaspani sull’orientamento di una tomba di giganti verso Aldebaran, la stella più luminosa della costellazione del Toro.



La sera in cui si svolse la conferenza, non vi fu il tempo per discutere la questione, chiesi dunque in privato chiarimenti a Cossard che confermò quanto espose in pubblico.
Ritengo che l’approccio di Cossard all’archeoastronomia sia viziata da superficialità, mi pare che non riesca a distinguere tra una proposta scientifica seria e una semplice corbelleria astronomica.
Alcuni anni fa, Adriano Gaspani pubblicò un articolo dove sosteneva che la tomba Thomes di Dorgali fosse orientata verso il punto in cui sorgeva Aldebaran nel 1500 a.C.  
Non so se Gaspani condivide ancora quella sua proposta, non so se abbia compreso che ragionare sull’orientamento di una singola tomba di giganti e trovare la stella che vi sorgeva in fronte rappresenti un’operazione scientificamente sbagliata.
L’approccio di Adriano Gaspani palesemente erroneo anche se non fossero esistiti studi precedenti, può configurarsi come una colossale corbelleria visto che non tenne conto che esistevano pubblicazioni (Hoskin e Zedda in Archaeoastronomy , supplemento del Journal for the History of Astronomy) che avevano ben dimostrato che non esistevano le condizioni per indicare che le tombe di giganti fossero orientate verso target stellari. 
Prendendo in esame l’ingresso di un qualsiasi edificio, compresa l’abitazione di Cossard,si  troverà che è orientato verso il sorgere o il tramontare di qualche stella… ma se si prende in esame un singolo monumento indicando il suo target stellare si sta producendo solo una pestifera azione di tecnica astronomica priva di scientificità.
Quando si vuole studiare l’orientamento di una tipologia di monumenti bisogna studiare un campione significativo, e, stabilito il range e il picco delle frequenze, tentare un’interpretazione.
La pubblicazione di Gaspani sulla tomba di Thomes è il classico esempio di cattiva archeoastronomia e dispiace che Guido Cossard non lo capisca.
Non mi interessa entrare nel merito delle proposte complessive di Gaspani, ma non posso esimermi dal segnalare che non trovo spiegazioni logiche al fatto che questo astronomo nel denominare i punti di arresto lunari si sia inventato nuove definizioni. Nel panorama scientifico internazionale i punti di arresto lunari vengono distinti in settentrionali e meridionali e in maggiori, medi e minori.  Gaspani li individua invece in superiori e inferiori e in estremi e intermedi. Trovo incomprensibile che Gaspani si sia dedicato a modificare le terminologie (nessun studioso serio ha accolto la sua proposta), non si rende conto che la sostituzione del termine minore con intermedio crea confusione, il lunistizio minore non è intermedio di alcunchè,  è un estremo minore per l’appunto.  È noto che i lunistizi intermedi sono tutti quelli compresi tra il maggiore e minore, mi sembra banale. Ed infatti il lunistizio medio meridionale e settentrionale, che Gaspani sembra non conoscere, corrisponde a quello posto tra il maggiore e minore.
E veniamo alla questione del toro di luce. Sinceramente non capisco come mai Guido Cossard si sia lasciato convincere dalle corbellerie che sulla questione scrivono Gigi Sanna e i GRS.
Come noto i nuraghi sono costruiti con conci sbozzati e dunque le finestrelle che caratterizzano i nuraghi possono andare a formare fasci di luce più o meno corniformi, la cosa fu notata da Franco Laner negli anni novanta quando si dedicò a studiare i cosiddetti finestrini di scarico, ragionammo sulla questione, e dopo aver osservato  che nell’apparecchio costruttivo dei finestrini non vi è nessuna lavorazione particolare che potesse attestare l’intenzionalità del fenomeno, concludemmo che nei casi in cui si verificava la formazione di un fascio di luce approssimativamente tauriforme fosse conseguente al sistema costruttivo, un sistema costruttivo realizzato con conci sbozzati.
Alcuni anni fa la questione  è stata proposta all’attenzione dai GRS nell’orribile libro Il Toro di Luce, mettendo in risalto il caso del Santa Barbara di Villanova Truschedu. In questo nuraghe il fenomeno luminoso taurino viene esaltato dal parziale sgretolamento dei conci che fanno da stipiti al finestrino di scarico.
I GRS oltre ad aver proposto la tesi che i finestrini siano costruiti in modo funzionale alla realizzazione del fascio di luce taurinoforme, hanno proposto un’inesistente connessione col solstizio d’inverno basandosi sul fatto che si recano al solstizio d’inverno (alcune ore dopo che il sole è sorto) a fare l’osservazione. Il Sole attraversa l’asse d’ingresso dei nuraghi tutti i giorni dell’anno e postulare una connessione del fenomeno luminoso col solstizio d’inverno è una grossolana corbelleria senza nessun fondamento.
Nel Santa Barbara il fenomeno del fascio di luce tauriforme ha un fortissimo impatto scenografico. Ma il finestrino del Santa Barbara è stato soggetto a delle fratture delle sue parti componenti, sia nei conci che gli fanno da stipite che nell’architrave superiore al finestrino. Dunque è un caso che non si dovrebbe prendere a prova.
Nelle foto possiamo osservare che il paramento esterno del nuraghe ha avuto un assestamento strutturale, con la fratturazione di una serie di conci. Ve ne segnalo tre,  quello dove poggia l’architrave dell’ingresso, l’architrave del finestrino e infine vi è una frattura molto accentuata (ampia una ventina di centimetri) nel concio collocato due filari sopra l’architrave del finestrino. In pratica vi è una linea di cedimento e di frattura che attraversa in diagonale il finestrino.
Altre lesioni meno “fotogeniche” ma facilmente osservabili in sito sono riscontrabili nelle parti interne dei conci che costituiscono gli stipiti del finestrino.
Insomma il caso del Santa Barbara rappresenta un caso che non può essere utilizzato al fine di dimostrare l’intenzionalità del fenomeno del toro di luce. Degli studiosi seri dovrebbero capire che le lesioni strutturali interessano parti inerenti la conformazione del dettaglio strutturale su cui si basa la tesi che si vuol dimostrare e concludere che il caso in esame non fa testo.
Solo degli sprovveduti o persone aliene al metodo scientifico possono lasciarsi incantare dai giochi di luce del Santa Barbara.