lunedì 25 ottobre 2010

Su Nuraxi di Barumini

di Franco Laner

Non vado mai volentieri a Su Nuraxi, perché ogni volta si rinnova lo strazio del pessimo restauro-consolidamento del monumento.
Posso solo attenuare il negativo giudizio rapportandolo all’epoca dell’intervento. In quel periodo a Venezia si sostituivano le travi di larice dei solai della Cà d’Oro con solai in latero-cemento!
Girare fra il villaggio rimesso “in bello” con un coacervo di tecnologie costruttive, dove la malta la fa da padrona, con apparecchi murari decontestualizzati, non degni nemmeno di un muro di sostegno di una strada provinciale, con risibili architravi sulle porte di ingresso, in dispregio ad un minimo di regole dell’arte del costruire a secco, con lastre di pavimento posate verticalmente a mò di soglie, fa soffrire davvero molto! E vien solo voglia di scappare in un diruto nuraghe dove gli archeologi-ricostruttori non abbiano mai messo mano!
Se già un architetto può far danno, figuriamoci un letterato che non ha il minimo senso del grave!
Mi chiedo per quale benigna congiuntura non sia stata ricostruita almeno una torre coi mensoloni in aggetto, che ora sono raccolti assieme a centinaia di conci a protome taurina nell’area archeologica, conci che sono propri ed esclusivi dei pozzi e delle fonti sacre, così da esibire il castello-reggia-fortezza realmente e non solo nelle fantasmagoriche ricostruzioni virtuali.
O forse ci hanno provato e si sono accorti che era impossibile, anche con malta e calcestruzzo, uscire a sbalzo sulla sommità di un nuraghe!
L’improprio “restauro”, funzionale esclusivamente alla visione medioevale del suo archeologo e ai turisti di bocca buona richiama centomila visitatori all’anno e risolve – con cospicui finanziamenti regionali- un problema di occupazione, considerate le decine di guide, addetti vari e indotto.
Pertanto va bene così!
Volevo acquistare una fra le tante pintadere esposte, ma nessuna di esse era una copia fedele delle tante ritrovate nei siti nuragici sardi. Erano solo fantasiose interpretazioni, in coerenza con la visione distorta del monumento e del suo interprete e in coerenza con l’idea che non conta puntare ad un turismo, non dico culturale, ma almeno dignitoso. Conta il numero delle presenze, che aumentano quando c’è il maestrale o piove, perché non si sta in spiaggia!
Non è questo il turismo su cui puntare. O si pensa che i gadget made in Cina o i muri raffazzonati possano aver futuro? E’ necessario un cambio di paradigma, in primis archeologico, che ancora si incardina sul nuraghe-fortezza, madre di ogni sciocchezza e quindi di offerta di turismo culturale che il patrimonio sardo reclama, perché ora è avvilito e maldestramente sfruttato.

domenica 10 ottobre 2010

Vittorio Angius predecessore della Teoria della Continuità

di Mauro Peppino Zedda


Recentemente Gigi Sanna (nel blog di Gianfranco Pintore), ha messo in evidenza che Padre Vittorio Angius, può essere considerato un predecessore della Teoria della Continuità di Mario Alinei. Vi riporto uno stralcio dove Sanna cita l’Angius: “il canonico Vittorio Angius molto prima, quasi duecento anni fa (1838: Biblioteca Sarda: si veda 'Lingua antica de' Sardi' in Casalis, 1851, vol. XVIII, 2, pp. 527 -529 ) anticipava da un pulpito di enorme prestigio culturale e quindi anche linguistico qual era il Dizionario degli Stati di S.M:
Conosciamo la lingua de' sardi nel secolo VIII simile, fuori alcune lievi differenze, a quella che essi parlano nel secolo XII, e nessuno dubita che fosse pure quasi simile a quella che usavano al tempo di Augusto.
Ma era simile a questa, quella che parlavano avanti la dominazione romana?
Negano tutti, perché credono che la lingua sarda, tanto affine alla latina quanto tutti sanno, sia stata introdotta da' romani; ed io come ho già negato questo fatto contro l'opinione universale che credo un errore universale, lo negherò anche adesso.
Diceva nella Biblioteca Sarda (p. 312) in una notazione all'articolo letterario su gli improvvisatori sardi: '' Qui (in Sardegna) stanziarono alcuni secoli i saraceni e non alterarono la lingua nazionale; appena hanno in essa intruso alcune parole; dominarono per quattro secoli i penisolani dell'Iberia, ragonesi, catalani, valenzani, castigliani, e se non fosse stata piantata la colonia algherese non resterebbe di quelle lingue più che alcune parole; esiste per più di 130 anni una continua pratica coi piemontesi e non so quante parole si siano prese da essi.
Che si fa da questo? Che si possono alterare le opinioni, i costumi, le leggi e tutt'altro, di una nazione, quando viene in comunicazione strettissima con un'altra nazione di differenti opinioni, costumi, leggi, non mai la lingua''.
Soggiungeva poi: ''In Sardegna gli algheresi parlano catalano. Or tra essi intrometti mille che parlino il sardo, e pensa che avverrà nelle due lingue. Certamente i settemila algheresi non lasceranno il loro linguaggio nativo per parlare il sardo, né dissuaderanno i vocaboli della loro lingua della pluralità. Se essi nol facciano lo faranno senza dubbio i loro figli. Sia un'altra supposizione. Mischia alla popolazione algherese altrettanti sardi; ed avverrà che si abbandoni né l'uno né l'altro linguaggio, e dalla confusione ne nasca un terzo. Una terza supposizione, i settemila algheresi si fondano in quarantamila sardi, ed il catalano in breve cesserà''. Di che si ha una prova nella colonia straniera che abitava il castello di Cagliari, la quale come si confuse con gli abitatori de' quartieri bassi in breve dimenticò la lingua avita. Una dimostrazione di maggior evidenza ne abbiamo nell'Italia. In essa invasero cento orde di barbari ed alcune vi stabilirono la stanza; ma perché il loro numero era non più che il ventessimo o trentesimo della popolazione italiana, non poterono mutare la lingua che vi si parlava, affine, come quella dei sardi, alla latina, e solo le aggiunsero alcuni vocaboli e forme, che oramai tutti rigettano come barbarismi di vero nome.
Dunque se i saraceni, i goti, i vandali furono pochissimi verso la popolazione sarda, non potevano cagionare nessuna alterazione nella lingua degli isolani; quindi si potrà dire in buona logica, che se i romani non mandarono più milioni d'uomini ben parlanti la lingua del Lazio, la lingua della Sardegna non poté latinizzarsi, se non lo era.
Si dirà: che i sardi dovettero latinizzare quando Roma comandò che si parlasse nelle provincie la lingua latina. Ma può alcuno persuadersi che siasi potuto per un decreto ottenere, che in tutte le provincie gli uomini illetterati parlassero una lingua, cui non conoscevano, e lasciassero e lasciassero la lingua patria nelle cose domestiche e private? Del resto è certo che l'uso della lingua de' dominatori fu obbligatorio solamente negli atti pubblici.
Or aggiungo: i romani imperarono anche in varie regioni della Germania e nella isola Britannica, e tuttavolta non poterono volgarizzarsi la loro lingua latina; imperarono sopra vastissime regioni orientali e la loro lingua non vi allignò.
Si introdusse però nelle Gallie e nella Spagna. Vi si introduceva non più che in Sardegna; e devo tenere il lettore che le nazioni che ebbero un dialetto latino furono germogli della stessa stirpe de' latini, parimenti che i popoli sardi.
Di più se tra i sardi quelli che restarono soggetti ai romani dovettero lasciare la lingua nativa, questa si sarebbe dovuta conservare in quelle tribù che restarono sempre indipendenti da' romani . Ma come spiegare allora questo che nelle loro alpestri contrade il linguaggio sia meglio latino, che altrove?
Per conseguenza se i romani non la introdussero essa fu la lingua antichissima dell'isola, la lingua de' primi coloni dell'isola'.
Dai quali antecedenti è posto in evidenza l'errore di quelli i quali pretendono i primi popolatori dell'isola essere stati fenici, e la popolazione essere poi cresciuta con gli africani.
”.

sabato 9 ottobre 2010

Mito Antico (e moderno) e conoscenza astronomica (terza parte)

di Fabrizio Sarigu


L’universo dagli antichi era quindi immaginato come una sfera armillare (quella che per intenderci troviamo sovente in mano ai papi, ai santi, agli imperatori etc) dove l’armatura dei coluri avvolge tutta la struttura delle stelle fisse e al centro sta il nostro pianeta. Tutto l’universo è quindi ripartito in tre regni divisi sotto il seguente schema che appare sovente nei miti:
a) Cielo: dal tropico del cancro alla stella polare, la regione circumpolare del cielo abitata fra l’altro dai 7 re o saggi, le stelle dell’orsa, i 7 buoi a cui il mito aveva, fra gli altri, affidato il compito di far ruotare il “mulino” (settentrione deriva dal latino septem triones, i triones erano i buoi deputati a far ruotare la macina, il termine con cui indichiamo il “nord” ci deriva direttamente dal mito), la costellazione dell’orsa era fondamentale poiché il coluro solstiziale la attraversò passando per ciascuna delle sue sette stelle (ognuna di esse era associata ad un pianeta).
b) La terra quadrata: il piano dell’eclittica su cui si muovevano le forze planetarie. La quale a sua volta era divisa in due grandi blocchi, la “terra emersa” ossia la parte d’eclittica sopra l’orizzonte (da equinozio a equinozio passando per il polo nord) e quindi visibile all’osservatore durante le ore notturno, ed il “mare” ossia la parte dell’eclittica non visibile all’osservatore perché sotto l’orizzonte (da equatore ad equatore passando per il polo sud). Ecco spiegata l’allegoria dello sprofondare di Atlantide (ossia del pilastro dell’equinozio d’autunno) e dello spuntare dal mare di nuove terre (costellazione pilastro dell’equinozio di primavera), che nulla hanno a che spartire con la geografia del nostro pianeta.
c) Il regno dei morti: la parte di cielo che va dal tropico del capricorno al polo sud, rappresentata principalmente dalla nave sacra, la costellazione Argo e dal suo pilota, la stella remo Canopo, sede come vedremo delle misure.
Platone nel Timeo spiega proprio come si articola questo schema e di come l’incastro fra il piano dell’eclittica e dell’equatore (che lui chiama “l’altro” e il “medesimo”) sia raffigurabile con la lettera X dell’alfabeto greco.
Ma chi era Amleto? Perché era lui il proprietario del mulino?, in altra sede abbiamo detto che dietro Amleto si nasconde una precisa forza planetaria, ora è venuto il momento di presentare il signore e padrone del tempo, nonchè delle misure, ossia il pianeta Saturno.
Anzitutto è necessario spiegare il ruolo che i pianeti ricoprivano nella visione (sempre geocentrica ) che l’uomo aveva dell’universo. I pianeti (cani, come li chiamava Pitagora) erano le forze divine, non a caso conservano tuttora i nomi delle divinità, erano gli DEI. In seguito a causa della segretezza che circondava la scienza sacra, la gente comune finì per non capire più chi e cosa fossero gli dei, lasciandosi rapire da un processo di antropizzazione che nascose la vera origine delle credenze. I pianeti da un punto di vista geocentrico sono riconoscibili (ovviamente si parla dei pianeti visibili dalla terra, ossia Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno) poiché si collocano sul piano dell’eclittica (come sappiamo nel nostro sistema solare i pianeti non si dispongono come gli elettroni rispetto al nucleo di un atomo, ma grosso modo su un unico piano) e ruotano nella direzione opposta a quella delle stelle fisse.
Il movimento apparente che essi delineano, che i greci disperatamente cercavano di ricondurre geometricamente a orbite circolari, permette di dividerli in due grandi gruppi:
A) Mercurio e Venere
B) Marte, Giove e Saturno
Mercurio e Venere, descrivendo orbite interne rispetto a quella della terra, hanno un moto apparente incredibilmente complesso, essi compiono incredibili evoluzioni, vanno avanti, tornano indietro, fanno “capriole” in un moto assolutamente irrazionale. Il mito spesso descrive infatti Mercurio come il pianeta/dio degli intestini, proprio per indicare la complessità del suo moto apparente. Questo viene espresso anche dal simbolo con cui oggi lo conosciamo, il caduceo, uno o due serpenti arrotolati su un bastone che simbolicamente indicano proprio la complessità del moto (spirale del serpente) attorno all’asse della terra (il d.n.a. non c’entra nulla, nonostante qualcuno sostenga il contrario…). Ciò che è incomprensibile, ma assolutamente spettacolare da un punto di vista geocentrico, diventa comprensibile dal nostro punto di vista eliocentrico. Mercurio e Venere sono pianeti interni rispetto all’orbita della terra, per questo coprono in meno tempo la loro rotazione attorno al sole (Mercurio è il più veloce, infatti era il messaggero degli dei, con le “ali” ai piedi). Ciò significa che ci “doppiano” ripetutamente creando delle “evoluzioni” particolari e risultando visibili soprattutto prima del sorgere del sole (stella del mattino) o dopo il tramonto (stella della sera), in quanto sono posti fra noi e il sole.
I movimenti dei pianeti esterni sono invece più semplici ma comunque molto spettacolari. In pratica compiono delle “capriole”, ossia il pianeta, rispetto al suo moto normale, pare ad un certo punto tornare indietro sui suoi passi per poi riprendere ad andare (vedere wikipedia alla voce Marte, c’è un filmato molto chiaro). Tali moti sono detti retrogradi per evidenti motivi, su tutti Marte, ritenuto non a caso anche il dio della danza.
Questi erano i fautori del tempo, le vere potenze e tutta la mitologia non è altro che un resoconto celato (anzi, celatissimo) delle loro evoluzioni, ossia una uranografia.
Fra le potenze planetarie, la più importante è quella ricoperta da Saturno/Kronos, signore del tempo e delle misure nonché dell’età dell’oro (il grande fabbro, deus faber, l’architetto). Egli ricoprì questo ruolo sia a causa del suo moto solenne (è il pianeta più “lento”), sia per via delle sue congiunzioni con Giove (trigono). Se il sole nel “attraversare” i segni dello zodiaco è la lancetta delle “ore precessionali”, nel cielo esiste un’altra fiaccola che segnava invece i minuti di un’era, tale fiaccola è il pianeta Saturno. Agli antichi mitografi dovette sembrare proprio segno della volontà creatrice l’esistenza di periodi che si accordavano l’uno con l’altro, così avviene che entro il tempo di un’era processionale, ossia 2160 anni, un angolo del trigono delle congiunzioni di Saturno con Giove percorre tutto lo zodiaco (in realtà impiega 2384 anni), cadenzando così i ritmi di un’era e consentendo di delinearne un inizio, una metà e una fine/inizio di una nuova era. Un nuovo segno zodiacale regnava a partire dal primo giorno di una grande congiunzione Saturno/Giove nel punto di passaggio, l’era dei pesci ebbe inizio con la prima congiunzione Saturno/Giove nel segno dei pesci avvenuta nel 6 a.C. (ecco cosa era la stella cometa del vangelo!!). Grazie a questo trigono, Saturno/Kronos fornisce veramente le misure al figlio Zeus. La sede di Saturno, dove egli si ritirò a seguito della caduta dell’età dell’oro (epoca dei gemelli, dove la via lattea, per la posizione ricoperta al momento, era un coluro equinoziale visibile e i tre regni erano uniti da un ponte/strada visibile, cosicché le anime dei morti non potevano perdersi, ecco perché età d’oro), è la stella Canopo, come più volte detto, considerata l’unico punto statico del cosmo poiché il polo sud era ritenuto esente dalla precessione. Giacchè il tempo è movimento (dei pianeti), l’unico luogo statico del firmamento non può che essere la sede-origine del tempo e quindi saturno-kronos ne è il signore.
Ci sarebbe un’infinità di altre cose da dire su quest’argomento, che però vanno ben oltre le mie modeste capacità di sintesi, spero solo di aver suscitato in voi delle domande e la curiosità di andare a leggere un saggio così importante per l’analisi storica del pensiero umano e della sua evoluzione.

P.S. il trigono è una figura che ripropone le congiunzioni tra Saturno e Giove rispetto ai segni dello zodiaco venendo a suddividere lo stesso in 4 triplicità corrispondenti ai quattro elementi:
1. Fuoco: Ariete, Leone, Sagittario
2. Terra: Toro, Vergine,Capricorno
3. Aria: Gemelli, Bilancia, Acquario
4. Acqua: Cancro, Scorpione, Pesci
(adesso si capisce perche nell’oroscopo i segni di acqua e aria paiono incoerenti, ossia che ci fa lo scorpione fra i segni d’acqua? E l’acquario perché è in aria?). Ogni 20 anni dunque avviene una grande congiunzione fra il Pianeta Saturno e Giove, congiunzione che ha come sottofondo un segno dello zodiaco, dopo 20 anni un’altra con a sua volta un segno e quindi una terza con un altro segno formando così un triangolo rispetto al cerchio dello zodiaco. Per ben 12 congiunzioni (circa 200 anni) si resta entro la triplicità che si è delineata e in 800 anni tutti gli “elementi” vengono attraversati. Se invece consideriamo un angolo del trigono, questo impiegherà per percorrere tutta la circonferenza zodiacale circa 2400 anni per tornare dal punto A al punto A, quando supererà il punto A entrando nel nuovo segno, ecco che quella è la data di nascita della nuova era, come avvenne per l’era dei pesci, inaugurata dalla prima congiunzione Saturno-Giove nel segno dei pesci appunto (6 a.C.).

lunedì 27 settembre 2010

Sul linguaggio dei nuragici

di Mauro Peppino Zedda

Nel 1987 Colin Renfrew nel saggio Archeologia e Linguaggio, dimostrò che l’idea di un’invasione di popolazioni indoeuropee nell’età del Rame fosse priva di riscontri archeologici, ma Renfrew non è stato altrettanto esemplare nella formulazione di una proposta alternativa. Alla romantica idea di un’invasione a dorso di cavallo, Renfrew antepone uno scenario basato su una lenta (millenaria) invasione agganciata all’adozione dell’agricoltura.
La sua proposta è senz’altro più verosimile delle precedenti ipotesi. Ma più convincente mi appare la Teoria della Continuità proposta da Mario Alinei (Origini delle lingue d’Europa, 1996), che vede le lingue indoeuropee presenti in Europa già da tempi antichissimi.
Alinei nella sua analisi mette in luce come la distribuzione delle lingue flessive, isolanti e agglutinanti, trova un singolare parallelo con le modalità di scheggiatura degli utensili in pietra che hanno accompagnato e caratterizzato la più lontana preistoria umana. Propone una Teoria della Continuità lunga e una breve, lasciando a studi futuri il compito di valutare quale sia più pertinente.
Mario Alinei propende per quella lunga (che condivido), ma non è questo l’essenziale, a lui interessa dimostrare che sul finire del Paleolitico Superiore i gruppi linguistici europei erano già nettamente separati e insediati nelle loro sedi storiche.
Per Alinei nella Sardegna pre-romana si parlava una lingua italide affine al latino. Ecco come spiega i caratteri della lingua nuragica: «Come abbiamo visto, i sardi che si rifugiano sulle montagne per difendere la loro libertà, sono spesso invocati per spiegare la maggiore “sardità” linguistica dell’area montana: è qui, infatti che si sono mantenute la /k/ e /g/ velari latine (cioè italidi), è qui che si parla il Sardo più vicino al Latino (leggi: Italide) in tanti aspetti, formali e semantici. Tuttavia, vi è un “piccolo” problema in questa visione. Nella teoria tradizionale, accettata da Lilliu, la lingua che i sardi del Centro montano continuano a parlare, non è - né può essere – quella latina o sua affine. Lilliu, che attinge alla linguistica degli anni Cinquanta (in mancanza di meglio, come lui stesso ci ha detto), afferma infatti che la lingua dei Sardi della montagna doveva avere «un fondamento comune libio-ibero-ligure (o mediterraneo occidentale)». Ora, è curioso che nessuno studioso abbia finora notato la stridente contraddizione inerente a questa tesi. Se i Sardi nuragici non erano italidi, ma di ceppo etnico e linguistico anIE, quelli fra loro che si erano rifugiati sulle montagne avrebbero dovuto conservare meglio le caratteristiche linguistiche originarie del loro sostrato, e quindi avrebbero dovuto allontanarsi maggiormente dal latino o da una lingua affine. Proprio perché la conservatività del Sardo montano e l’innovatività del Sardo della pianura risultano da un confronto fatto rispetto al latino, esse sono inconciliabili con la tesi tradizionale. Diventano al contrario del tutto comprensibili e prevedibili se la lingua dei Sardi nuragici, all’epoca della ritirata sulle montagne, fosse stata italide, cioè una variante del Latino! In altri termini è l’Italide dei Sardi fuggiti in montagna che si è conservato meglio, così come è l’Italide dei Sardi “mescidati” delle pianure, che ha subito l’influsso di lingue non italidi e ha innovato. Occorre rovesciare completamente l’assunto tradizionale per dargli un senso e una logica.
Le prove di continuità culturale, così evidenti nell’isola anche nel periodo di decadenza e di fine della civiltà dei nuraghi (500-238), portano gli studiosi che assumono l’assunto tradizionale a una conclusione obbligatoria, che Lilliu esprime così: «la romanizzazione delle genti del centro «fu […] un fatto di lingua e non di cultura». Ora nell’ambito di una visione antropologica della linguistica, questo sviluppo sarebbe un unicum assolutamente sbalorditivo. Lingua e cultura non possono essere separati in questa misura. Non sono la stessa cosa, ovviamente, ma sono avviluppati in un reticolo di rapporti talmente complesso da rendere impossibile un cambiamento dell’una senza conseguenze per l’altra. […] La lingua dei Sardi non sarebbe mai rimasta quella che è, in tanti dettagli che la avvicinano a un tipo italide arcaico, e la differenziano da tutte le altre parlate neolatine, se la continuità culturale e materiale così tipica dei Sardi tradizionali non fosse sempre stata associata, dal neolitico all’epoca nuragica, e da questa fino all’occupazione romana e alla cristianizzazione a una stessa etnia.
Scopo di questa illustrazione era di mostrare come lo sviluppo culturale della Sardegna preistorica, dalla Ceramica Impressa/Cardiale fino alla civiltà nuragica, possa essere interpretato come affermazione originalissima da parte di un gruppo italide, parallelo ma indipendente sia da quello appenninico italico, che da quello medio-italiano latino e da quello franco-iberico. Il problema di fondo per la Sardegna, forse più ancora che per la Corsica, resta quello degli apporti anIE e di altri gruppi IE, da quello di eventuali adstrati peri-IE risalenti al Mesolitico se non a prima, al superstrato “orientale” dei coltivatori immigrati dalla mezzaluna Fertile, a quello celtico introdotto dal Megalitismo e dal Campaniforme, a quello greco e fenicio
» (Alinei 2000).
Quanto affermato da Alinei sarebbe valido anche adottando lo schema di Renfrew. In Sardegna si parla indoeuropeo perlomeno dal Neolitico Antico.
Per chi non conosce le opere di Alinei e Renfrew specifico che per loro il cosiddetto IE italide abbracciava oltre alla penisola italiana, la Sicilia, la Sardegna e la Corsica, anche le coste mediterranee della Francia e dell’Iberia.

martedì 21 settembre 2010

Quella nuragica è un'architettura irrazionale?

di Mauro Peppino Zedda

Per quanto paradossale possa sembrare, lo spazio interno dei nuraghi rappresenta una questione assai trascurata dagli studi. Tra le poche analisi concernenti l’argomento, Lilliu afferma: «Nel rapporto massa costruttiva-vuoto, si osserva la tendenza continua, anche se lenta e prudente, all’ampliamento dello spazio. Tuttavia, in nessun caso il vuoto giunge a valorizzare il senso e l’effetto massiccio che domina, rude e sovrano, l’essenziale semplicità primitiva del nuraghe. Da un calcolo fatto su 25 torri che presentano diametri medi di m 11,24 di volume e m 4,08 di vano, con proporzione approssimata tra le due dimensioni di 2,75, si ricava un indice medio di massa-spazio di 1,76. Ossia la somma dello spessore dei muri, misurati nella base della sezione diametrale, è di 1,76 volte maggiore rispetto al vuoto della camera a falsa volta» (Lilliu 1988).
Che nel costruito nuragico vi sia una lenta e prudente tendenza all’ampliamento dello spazio è una idea totalmente infondata. Non si riscontra nessun interesse ad ampliare lo spazio calpestabile in proporzione alla massa muraria.
Viceversa si può oggettivamente affermare che nella plurisecolare tradizione costruttiva nuragica vi sia un miglioramento delle modalità costruttive, che si esplicano nel riuscire a costruire nuraghi dove la messa in opera dei massi raggiunge degli alti livelli di raffinatezza.
Immutato rimane anche il modello architettonico. Una immutabilità che per Lilliu è figlia di una speciale vocazione militare, mentre per altri testimonia e attesta una valenza sacrale-simbolica della torre nuragica (Pittau 1977; Zedda 1992, 2004, 2009; Laner 1999).
All’analisi degli spazi interni Lilliu ha dedicato poche righe che comunque pare siano risultate assai convincenti per i suoi successori.
Nell’esame degli spazi della torre nuragica Lilliu si limita ad analizzare il rapporto di proporzioni che vi è tra i diametri della torre e di camera, trascurando quello più interessante e cioè il rapporto tra il vuoto e il pieno in termini di superficie e di volume. Nella misura media da lui proposta, cioè una torre avente una pianta con un diametro di 11,24 m e un diametro di camera di 4,08 m, possiamo calcolare che la torre occupa una superficie pari a 99,17 m², mentre la camera ne occupa soli 13,06 m². Dunque una torre nuragica mostra uno spazio fortemente sbilanciato a favore delle masse murarie, che occupano più del 86% della superficie totale, pari a 7,61 volte l’area calpestabile.
L’analisi degli spazi dei monotorre e torri centrali dei nuraghi complessi su un largo campione è stata recentemente eseguita dall’architetto Danilo Scintu (2003). Sulla base delle sue misure pare che il diametro medio di torre possa identificarsi in 12 m mentre quello di camera in 4,2 m.
Dunque un nuraghe monotorre di 12 m di diametro occupa una superficie di 113 m²; mentre la camera occupa solo 13,84 m² (420 cm di diametro); con un’altezza di 10 m il volume è pari a 1000 m³; di cui di 900 m³ di massi ciclopici del peso di 20 quintali a m³.
I nuraghi complessi hanno un rapporto ancora più sbilanciato a favore degli spazi pieni. Prendiamo per esempio Su Nuraxi di Barumini: con 620 m² di ingombro totale, presenta 60 m² di cortile, 70 m² di spazio coperto calpestabile nelle cinque camere voltate a cupola e 490 m² occupati dalla muratura. I 60 m² di cortile hanno la funzione di raccordare le quattro tholos delle torri periferiche, dunque lo spazio “utile” si riferisce a 70 m² su 620 m² di ingombro (muratura e cortile). Lo spazio occupato dalle murature è pari all’80%, quello delle camere 11,2% e quello del cortile il 9,8%.
Ho virgolettato la parola utile perché non è esatto pensare che l’utilità riguardi soltanto i 70 m² coperti, l’utilità riguarda l’intero edificio.
Ancor maggiore è lo sbilanciamento tra spazi vuoti e pieni che caratterizza i nuraghi a corridoio.
Come vediamo le dimensioni dei nuraghi sono tutt’altro che mastodontiche, ciò che li rende possenti e monumentali sono le caratteristiche dei conci con cui sono stati costruiti, conci ciclopici che nelle parti basali superano i 2 m³ di volume e ci fanno interrogare sul valore delle tecniche di spostamento e sollevamento utilizzate.
Riguardo alla dimensione degli spazi interni rispetto allo sforzo costruttivo generale, ecco come si è recentemente espressa Marisa Ruiz-Galvez (2005: 31): «... comprender la densidad de este tipo de costrucción ciclópea che son las nuraghi, caracterizadas por elevata altura de sus torres y la, en aparencia al menos, gran inversion de trabajo en relació con el escaso espacio habitable interior de muchas de ellas. Algo aparentemente tan ilógico desde nuestros paràmetros modernos, que ha llevado a algùn autor a hablar de arquitectura irracional». Provo una grande amarezza nel constatare che l’irrazionale interpretazione di Taramelli e Lilliu del nuraghe la si stia trasferendo allo spirito costruttivo dei nuragici.
Le irrazionali conclusioni di Lilliu e dei suoi pedissequi discepoli si stanno scaricando sulle spalle dei nuragici che vengono etichettati come dei poveri Sisifo impegnati in sforzi enormi per costruire degli edifici mastodontici con risibili spazi abitabili.
Inviterei a frequentare un corso di filosofia della scienza coloro che per spiegare la funzione del nuraghe vanno a postulare una presunta irrazionalità del gesto costruttivo in quanto non aderente alla funzione che gli hanno aprioristicamente attribuito.
É triste assistere ad una situazione in cui vengono interpretate come irrazionali le scelte costruttive invece di prendere atto che è l’interpretazione del nuraghe nella sfera del profano ad essere irrimediabilmente irrazionale.

giovedì 16 settembre 2010

Gli oggetti di culto nei nuraghi

di Alessandro Mannoni


Una obiezione alla tesi della possibile funzione templare assunta fin dall’origine dai nuraghi consiste nella mancanza di oggetti di culto e votivi al loro interno attribuibili ad un periodo precedente all’Età del Ferro, nel corso della quale invece essi compaiono e sono stati ritrovati in maniera evidente.
Le premesse di una tale obiezione sono solo apparentemente condivisibili.
Sostenere che se all’interno delle strutture adibite o utilizzate in funzione templare sono presenti oggetti che in un dato periodo identifichiamo come religiosi allora le strutture sono classificabili come templi, mentre in caso contrario la funzione templare non è dimostrata o è addirittura indimostrabile non mi pare corretto.
Non capisco infatti perché si debba attribuire ad un edificio la funzione di tempio soltanto se in esso sono presenti degli oggetti o dei materiali di uso cultuale, soprattutto se questo uso cultuale è frutto della interpretazione a posteriori dello studioso: alcuni oggetti interpretati come d’uso quotidiano potevano avere una funzione cultuale o essere usati indifferentemente anche con una funzione cultuale. Basta riflettere ad esempio a come alcuni oggetti interpretati in funzione militare o civile siano stati da altri assegnati alla funzione religiosa: ricordo ad esempio le famose palle in pietra perfettamente tonde destinate al lancio delle mitiche catapulte che agli occhi di Massimo Pittau diventano più semplicemente degli ex-voto solari, o le fusaiole e i pesi da telaio che vengono assegnati da alcuni alle funzioni domestiche, da altri all’attività tessile di sacerdotesse e vergini adibite al tempio/monastero, o le abbondanti tracce di vasellame spesso in cocci o frammenti presente in molti sacelli all’interno dei nuraghi, lette come un’evidente testimonianza di ceramica sacra.
In alcune tipologie di tempio, poi, per il genere di rituale o di culto svolto in quelle particolari strutture potevano anche non essere presenti oggetti specifici; d’altronde i materiali ritrovati nei pochissimi siti religiosi del Bronzo Medio elencati da Ugas, rappresentati da ollette ansate, bicchieri, tazzine e coppette, sono tutti interpretabili non in maniera esclusiva come oggetti di culto generici, ma come funzionali soltanto alle specifiche forme di rituale officiate in quei siti: offerte di liquidi e libagioni da depositare e versare nel terreno nel caso di culti ctonii come quelli officiati nelle grotte o la raccolta di acque sacre, per le sorgenti o, come ipotizza lo stesso Ugas nel caso di Monte Baranta, per offrire ai vecchi genitori la bevanda che provocava il “riso sardonico” prima di gettarli dall’alta rupe su cui è costruito il sito. Solo i materiali fittili ritrovati presso le poche fonti citate potevano rappresentare per l’epoca del Bronzo Medio degli oggetti votivi, ma probabilmente funzionali solo a quella tipologia di culto avente finalità terapeutiche.
O, infine, potrebbe anche darsi la situazione generale che in ogni tempio, magari per la particolare ideologia religiosa e simbolica di quella cultura, potessero non essere presenti oggetti specifici di culto. E la prima civiltà nuragica, fortemente aniconica e astratta, geometrica e asciutta nella sua linearità, poteva ben rappresentare una cultura religiosa di tal genere, come sostiene anche Mauro Zedda.
Pensare infine che, data la frequentissima deposizione all’interno delle strutture adibite o utilizzate in funzione templare degli oggetti votivi nel corso dell’Età del Ferro, altrettanto dovessero fare nei secoli precedenti è sensato ma non probante, poiché al fondo c’è ancora l’assunto, non dimostrato, che nel tempio debbano sempre essere presenti oggetti votivi o riconoscibili come tali, o che se tali oggetti sono tipici di una fase tarda di una civiltà debbano esserlo anche di una fase precedente.
Ma penso che la cesura all’interno della civiltà nuragica tra la prima fase (quella propriamente nuragica perché solo ad essa appartiene la realizzazione degli edifici da cui essa prende il nome) e la fase tarda o finale o post sia probabilmente molto più netta di quanto molti studiosi attualmente ammettano, e tale quindi da non consentire questa estensione automatica delle modalità del culto diffuse in Sardegna nell’Età del Ferro alla fase storica precedente.

martedì 14 settembre 2010

Lilliu che si arrampica sugli specchi

di Mauro Peppino Zedda

Quando nel 1977 Massimo Pittau presentò i risultati di uno studio che confutava la teoria del nuraghe fortezza, Lilliu non prestò la giusta attenzione agli argomenti del Pittau, limitandosi ad epurare le parti più controverse e continuò a considerare il nuraghe come una fortezza.
Per Lilliu la questione della possibile sacralità dei nuraghi era una specie di tabù, un argomento di cui non valeva la pena discutere, sentiamolo in uno dei rari scritti in cui disquisisce sulla possibile valenza sacrale dei nuraghi: «Orbene la concomitanza con le torri semplici di numerose tombe megalitiche (specialmente tombe di giganti), porta a negarne la destinazione funeraria che un tempo era in gran voga tra gli “analogisti” e gli “etimologisti”. Invece, nei tempi in cui si costruivano i nuraghi a unica torre, i monumenti di culto sembrano assai rari (dico sembrano perciò lontana anni luce da essere compiuta). Perciò si può capire che tuttora, come in passato, vi sia chi caldeggi, se non per tutti, per una parte di tali nuraghi, l’utilizzazione cultuale, precisandone (per la verità con un trasporto che rasenta il mistico), punti e modalità di manifestazioni.
Sennonché quest’ultima ipotesi, alla quale peraltro potrebbero far inclinare la forma monumentale e il volume a cono, quasi simbolico, delle torri che si elevano come un altare e la collocazione spesso in luoghi dominanti e attrattivi come quella di chiese e di santuari montani, trova molte e serie difficoltà per essere accettata; (ovviamente il proporla acriticamente è viceversa assai semplice e non priva di fascino per chi non è uso a ragionare). Ostano all’interpretazione templare il grande numero, la proliferazione sul terreno, l’organizzazione in un sistema territoriale degli edifizi monoturriti. Se questi si dovessero connettere col fenomeno religioso pur profondamente sentito dai sardi nuragici, figurerebbero l’immagine irreale e mitica d’un “isola sacra” e di un popolo di “lotofagi” e non di contadini, pastori e anche di guerrieri quale fu effettivamente. Intervengono poi i dati strutturali, contrari all’interpretazione templare. Lo spazio è angusto, difficile la circolazione interna voluta dal presunto rituale. All’alto delle torri, ove vi si immaginassero cerimonie, dall’esterno si può accedere solo con mezzi retrattili, e dall’interno si sale attraverso il sistema complesso delle scale intermurarie intergrate con le posticce di legno e di corda. Un bell’esercizio di ginnastica per vecchi venerandi sacerdoti e i loro paludati accoliti! Infine il dispositivo dei vani, scarsamente illuminati, è concepito con una sorta di gusto labirintico, quasi impeditivo e introverso, e, comunque, pienamente fruibile soltanto da chi conosceva l’intrico e la singola funzionalità dei suoi ambienti sin nel più segreto recesso.
Si aggiunga che all’immagine di luogo sacro poco o nulla rispondono la postura prevalente delle torri in posti elevati di largo dominio, il loro collegamento visuale e l’inserimento in complessi reciprocamente funzionali
.». (Lilliu 1988).
Lo scritto di Lilliu fu una risposta, senza citarlo, a Pittau. Si potrebbero fare molte considerazioni, ci vogliamo provare o avete timore di essere irriverenti?