di Massimo Pittau
È cosa abbastanza nota che alcune fonti classiche
attestano per la Sardegna nuragica l’esistenza della pratica medico-sacrale
della «incubazione». Questa consisteva nel dormire presso un luogo sacro in
attesa di sogni rivelatori, i quali venivano interpretati sia in funzione
terapeutica sia in funzione mantica ai fini dell’agire pratico dei devoti.
È in primo luogo
Aristotele che dà la notizia dell’usanza dei Sardi di «dormire presso gli
eroi». Un suo commentatore, Filipono, aggiunge che i Sardi dormivano presso gli
eroi perfino cinque giorni, quasi sicuramente con un processo artificiale a
base di "narcotici". Il Pettazzoni, che fu il primo ad illustrare
questa pratica nuragica della incubazione, si pose il problema «dei luoghi
opportuni e abbastanza ampi, ove potessero svolgersi» e concluse che esse si
svolgevano presso i gigantinos e
precisamente nell’«ampio emiciclo che precede come vestibolo la tomba vera e
propria, ed è elemento tipico di ogni tomba
di giganti».
Pur riconoscendo
che il Pettazzoni ha trattato il tema dell’incubazione nuragica in maniera
magistrale e pur dando atto che la sua tesi relativa allo svolgimento del rito
nell’emiciclo o esedra dei gigantinos è
stata seguita da tutti gli autori successivi, io dico che questa ipotesi si
deve respingere come errata, perché è chiaramente contraddetta sia da un’ovvia
considerazione di Massimo Pallottino, sia da due testimonianze di autori antichi.
Ha scritto il Pallottino: «La difficoltà sta nel conciliare queste tradizioni
[della incubazione] – che hanno un indubbio sapore di autenticità – con la
destinazione delle "tombe di giganti" le quali, più che monumenti di
singoli eroi, sembrano essere sepolcri collettivi dei villaggi nuragici». In
secondo luogo, lo scrittore latino Tertulliano conferma il rito nuragico della
incubazione e si esprime testualmente così: «Aristotele cita un certo eroe
della Sardegna, il quale privava dalle ossessioni gli incubatori del suo sepolcro (Aristoteles heroem quemdam Sardiniae notat incubatores fani sui
visionibus privantem)».
È ragionevole
ritenere che la pratica comune fosse che i devoti-pazienti effettuassero il
loro sonno incubatorio fuori del nuraghe e precisamente nei numerosi locali
"parareligiosi" ed anche nelle numerose capanne - o meglio cumbissìas - che attorniano tutti i
grandi nuraghi, ad es. quelli di Losa di
Abbasanta, Nuraxi di Barumini, Palmavera di Alghero, Genna 'e Maria di Villanovaforru, Arrubiu di Orroli, ecc. Quei locali sono
stati ereditati da quasi tutti gli odierni santuari cristiani di campagna, sia
nella loro funzione principale di "dormitori" sia nel loro nome di cumbessìas, cumbissìas, cummissìas, il quale è proprio un
vocabolo di origine protosarda o nuragica, che è da collegare - non derivare -
coi vocaboli latini incumbĕre «distendersi» e incubatio,-onis
«incubazione».
A proposito del
grande Nuraxi di Barumini c’è da
osservare che solamente nella prospettiva religiosa che io vado sostenendo e
delucidando, si può spiegare quello stranissimo villaggetto che lo attornia,
del quale l’archeologo scavatore ha sottolineato il disordine costruttivo che
lo caratterizza come un "termitaio" o come un "intrico di viuzze
impossibili e di casette arruffate". Questo villaggetto è privo di piazze,
di pozzi, di cortili per gli animali domestici o da lavoro. In un villaggio
così assurdo dal punto di vista urbanistico ed anche igienico è impossibile
supporre uno stanziamento umano permanente; al contrario si deve pensare ad uno
“stanziamento temporaneo” da parte di
individui che si recavano al nuraghe-santuario per devozione, per malattie o
per necessità pratiche e che alloggiavano in quelle capannucce per otto o nove
giorni al massimo, proprio come fanno tuttora i Sardi che si recano ai vari
santuari cristiani di campagna e alloggiano nelle casupole o nei porticati o
logge (cumbissìas, muristenes, lollas, lozas) che li
attorniano, per il solo periodo della novena o della festa religiosa.
Abbiamo però anche
un bell’esempio di santuario nuragico, nel quale i dormitori per i pellegrini
sono disposti secondo un piano costruttivo abbastanza regolare: il santuario di
Santa Vittoria di Serri. Questo santuario presenta un recinto sacro, al
quale è addossata una serie di stanzette e un porticato, che risultano chiusi
verso l’esterno del recinto ed aperti invece verso l’interno. La disposizione dei porticati aperti ad
un solo lato, nella direzione del tempio, secondo quanto dicono i noti studiosi
Daremberg e Saglio, è attestata anche per santuari greci nei quali pure si praticava
il rito dell’incubazione.
Il
rito dell’“oracolo”
Dopo che il
Pettazzoni ebbe segnalato ed illustrato il rito della incubazione praticato dai
Nuragici, gli studiosi successivi hanno unanimemente ammesso per scontato
questo importante dato storico ed archeologico per l’antica civiltà nuragica.
Nessun autore, però, né il Pettazzoni né altri, ha preso in considerazione un
altro problema, che è strettamente connesso con quello della incubazione: la
pratica ed il rito dell’oracolo o vaticinio. Si deve infatti considerare
che nell’antichità avveniva quasi sempre che, dopo aver avuto un "sogno
rivelatore", il devoto-paziente si rivolgesse ad una sacerdotessa per
averne la "interpretazione" sia in vista di una sua esigenza
terapeutica sia in vista di una sua esigenza che scaturiva dall’agire pratico;
e quest’opera di "interpretazione" si caratterizzava come pratica o
rito dell’«oracolo», il quale era comunissimo in tutto il mondo antico.
Ebbene, nonostante
che nessuno studioso abbia intravisto la necessità di collegare il rito della
incubazione al rito dell’oracolo, c’è da affermare che esistono numerose e
chiare prove dell’esistenza anche di questo nella civiltà nuragica, prove che
si traggono soprattutto dalla struttura architettonica di numerosi nuraghi. Il
rito dell’incubazione, infatti, si svolgeva generalmente attorno al nuraghe, nelle
capanne che lo attorniavano – le cumbssìas
– mentre il rito oracolare si svolgeva sempre dentro il nuraghe, col
responso interpretativo che la sacerdotessa dava al devoto-paziente circa il
sogno avuto durante l’incubazione.
Il particolare
costruttivo di molti nuraghi che si può spiegare solamente nella supposizione
che in essi si svolgesse appunto la pratica dell’oracolo, consiste, parlando in
termini generali, in questo: in alcune nicchie – entro le quali erano sistemati
i simulacri degli dèi adorati o i corpi anche imbalsamati degli eroi
divinizzati – esistono pertugi o canali acustici collegati con altri
ambienti del nuraghe, dai quali la sacerdotessa dava la risposta alle domande
del devoto, risposta che ovviamente figurava data dal dio o dall’eroe divinizzato
o dall'antenato. I Sardi Nuragici dunque andavano nei nuraghi a farsi
"interpretare" i sogni avuti durante il sonno incubatorio ed
ottenevano la risposta del nume, il cui simulacro era dentro una nicchia e il
cui volere era interpretato dalla sacerdotessa che parlava da un altro ambiente
attraverso un pertugio o canale acustico oppure da una scala nascosta che terminava
nella nicchia. Si ha infatti notizia che in qualche tempio antico la risposta
oracolare veniva fuori dalla bocca di una statua del nume, la quale era
attraversata all’interno da un canale acustico, che a sua volta era in
comunicazione con un locale sotterraneo, dove parlava la sacerdotessa.
Questo particolare
costruttivo di una nicchia fornita di un pertugio oracolare si ha nei nuraghi Mura ’e Mandra, nei pressi di Santa Cristina di Paulilatino, Ruju di Macomer e Losa di
Abbasanta. Un pertugio oracolare collegato con la scala si riscontra ancora
intatto nel nuraghe Crabia di
Bauladu, precisamente nella nicchia della cella del primo piano. In questo
medesimo nuraghe la funzione oracolare si svolgeva anche nella cella del piano
terreno; precisamente nella nicchia di destra risulta una scala nascosta al
visitatore, dalla quale la sacerdotessa dava il responso oracolare. La scala
poi sale e finisce in una celletta, la
quale risulta ricavata sopra il corridoio d’ingresso, con cui comunica
attraverso una fessura lasciata sul pavimento fra i massi, mentre con l’esterno
comunica con un foro lasciato fra i massi della parete.
Una celletta ricavata
sopra il corridoio dell’ingresso, col quale comunica attraverso una o più fessure
o con un canaletto acustico e inoltre in comunicazione con l’esterno attraverso
piccoli fori o pertugi lasciati liberi fra un masso e l’altro, si trova anche
in altri nuraghi, ad es. Palmavera di
Alghero (sull’ingresso orientale), Su Càrmine
della Nurra, Santa Barbara di
Villanova Truschedu, Paddagghju/Leni nei
pressi della roccia dell’Elefante di
Castelsardo, Tittiriola di Bolotana, Figu Rànchida di Scano, Ala ‘e Cae di Pozzomaggiore, Agnu di
Calangianus, Ruju di Norbello, Cunzadu di Siligo, Santu Millanu di Nuragus, nuraghe Losa di Abbasanta e Santu
Antine di Torralba.
Il particolare
costruttivo della celletta posta al di sopra del corridoio dell’ingresso, in
comunicazione sia con questo sia con l’esterno del nuraghe, ci offre la
possibilità di intravedere le modalità secondo cui nei nuraghi più importanti
si effettuava il rito dell’oracolo: l’avvicinarsi di un devoto al nuraghe
veniva notato dalla sacerdotessa attraverso i pertugi della sua celletta che
davano all’esterno dell’edificio; il devoto si avvicinava all’ingresso del
nuraghe in attesa di avere le disposizioni rituali. Queste gli venivano date
dalla sacerdotessa attraverso i pertugi esterni oppure attraverso il canale o
le fessure che uniscono la sua celletta al corridoio d’ingresso. Le
disposizioni della sacerdotessa non erano soltanto di carattere rituale, ma anche
indirizzavano il devoto ad una particolare nicchia sistemata nella cella
centrale e terrena del nuraghe. Nel mentre che il devoto faceva le sue
abluzioni lustrali nel recipiente sistemato nel nicchione dell’ingresso oppure
vi deponeva le sue offerte e dopo si appressava alla nicchia indicata, la
sacerdotessa scendeva la scala che termina in questa e si piazzava al lato del
simulacro del nume, non vista dal devoto. Dopo che questi aveva effettuato gli
atti cultuali ed elevato le sue preghiere al nume, esponeva le sue esigenze
mediche e pratiche e raccontava il sogno avuto nel sonno incubatorio o anche in
un particolare sonno normale; la sacerdotessa allora dava la sua
interpretazione del sogno e le risposte terapeutiche o pratiche attese dal
devoto.
In altri nuraghi la
medesima funzione delle disposizioni rituali di carattere preliminare era
ottenuta con un accorgimento costruttivo alquanto differente. Cito il caso del
nuraghe Madrone od Orolìo di Silanus: sul corridoio
dell’ingresso a destra, sopraelevata dal suolo, sfocia una apertura, la quale
sale con una scaletta secondaria e sfocia in un lato nascosto della nicchia
della camera del primo piano. In questo nuraghe il devoto veniva istruito dalla
sacerdotessa sulle prescrizioni rituali attraverso l’apertura sopraelevata del
corridoio d’ingresso; dopo di che veniva invitato a salire nella scala
principale posta a sinistra del corridoio. Mentre egli la percorreva, la sacerdotessa
saliva anch’essa al piano superiore, ma seguendo la scaletta secondaria e si
piazzava a fianco del simulacro del nume sistemato nella nicchia della camera
superiore, in attesa delle domande del devoto.
Questi particolari
costruttivi dei cunicoli, canali acustici, pertugi e fessure che sfociano sul
corridoio d’ingresso di quasi tutti i grandi nuraghi, vengono spiegati dai
sostenitori della destinazione militare dei nuraghi in una maniera che è
senz’altro più semplice, ma che insieme è priva di un minimo di logicità: quei
cunicoli, canali, pertugi e fessure sarebbero "piombatoi" o
"caditoie" attraverso cui i difensori avrebbero fatto cadere
proiettili sugli assalitori che si fossero azzardati a varcare l’ingresso del
nuraghe. Senonché c’è da obiettare: supposto che uno o due assalitori fossero
stati tanto ingenui da farsi ingannare e colpire nel modo suddetto, è assurdo
pensare che il terzo avrebbe ritentato la prova dei suoi compagni. Nella
prospettiva militarista, dunque, la funzionalità pratica dei suddetti
accorgimenti costruttivi, predisposti ai fini della difesa, sarebbe risultata pressoché
nulla, dato che essi alla fine sarebbero risultati completamente inutili.
Il particolare
costruttivo poi di una scala secondaria, che parte da un lato nascosto di una
nicchia della camera del piano superiore e sfocia nel corridoio d’ingresso, come
nel nuraghe Madrone, viene spiegato dagli autori militaristi
come una "scala di sicurezza" predisposta affinché i difensori
potessero sfuggire ai nemici, nel caso che questi fossero riusciti a penetrare
nella cella superiore del nuraghe. Senonché un particolare costruttivo di
questo tipo non può essere affatto interpretato come un accorgimento tattico di
difesa, per la semplice ma insormontabile ragione che questa presunta
"scala di sicurezza" non sfocia all’aperto, distante in una qualche
misura dal nuraghe, bensì sfocia dentro il nuraghe stesso, e precisamente nel
suo corridoio di ingresso. Gli eventuali difensori in fase di ritirata,
pertanto, non avrebbero trovato scampo alcuno, dato che i nemici certamente
avrebbero tenuto bloccato l’ingresso del nuraghe, anzi, l’intero edificio.
Oltre quelli già
citati, numerosi altri nuraghi presentano il particolare costruttivo di una
scala che parte da un lato nascosto di una nicchia: Preda Longa di Nuoro, Cuàu di
Bonarcado, Òrgono di Ghilarza, Iselle di Buddusò.
In alcuni nuraghi
la risposta oracolare veniva data anche attraverso finestrelle, sempre
sopraelevate dal livello del suolo, che davano direttamente sulla camera
centrale del nuraghe o in celle laterali: ad es. nel nuraghe Losa,
alla cui finestrella oracolare si accede attraverso una stretta e ripida
scaletta che parte dalla rampa superiore della scala centrale; e anche nei
nuraghi is Paras di Isili e Domu dess’Orcu di Sarroch.
Nel nuraghe Santu Antine di Torralba la cella
oracolare comunica con l’esterno attraverso tre fori lasciati liberi fra i
massi della muraglia, col corridoio d’ingresso attraverso un pertugio praticato
nel pavimento. In questo nuraghe, la cui mole, complessità e ricchezza di
struttura mostrano chiaramente che si trattava di un santuario molto
frequentato, la risposta oracolare veniva data nelle tre camere poste ai
vertici della pianta triangolare, attraverso alcune finestrelle sopraelevate.
Per effetto della
relativa piccolezza delle celle oracolari di alcuni nuraghi e per effetto di
una certa difficoltà per accedervi, sarei propenso a ritenere che le
sacerdotesse vi dimorassero durante le feste che si celebravano periodicamente
nel santuario, in "clausura temporanea". Escluderei invece per loro
una vita di "clausura permanente" a causa della impossibilità di
abitare in modo continuativo nei nuraghi, da me già spiegata nella mia opera
“La Sardegna nuragica”.
LE BITIE/PIZIE
I lettori attenti
avranno notato che, parlando dell’oracolo o vaticinio come rito strettamente
legato a quello della «incubazione», ho preferito parlare di
"sacerdotesse" che lo esercitavano anziché di "sacerdoti".
La mia preferenza non è stata determinata dal caso; al contrario mi sembra che
esistano numerose prove, storiche archeologiche etnologiche ed anche
linguistiche, le quali tutte spingono a ritenere che per il rito dell’oracolo
si debba supporre assai più l’intervento di sacerdotesse-maghe che non quello
di sacerdoti-stregoni.
Innanzi tutto si
tratta di ricordare, sul piano storico, che per tutta l’antichità il rito
dell’oracolo fu esercitato, in misura quasi esclusiva, da donne, le famose Pitie, Pizie (o Pitonesse) e Sibille, le quali erano sotto la protezione ed al servizio del dio Apollo o
di qualche altro.
Fra Nuoro e Loculi
esiste una cima di monte chiamata Punta
Sibilla e una Sibilla operava pure nel santuario di Sibiola, presso Serdiana e in quello di Zurrài ad Isili. Nella
grotta del Carmelo di Ozieri la tradizione popolare fa abitare Sa Sàbia Sibilla «La Saggia Sibilla», la
quale profetizzava il futuro. Questa tradizione viene confermata da un passo
dell’Angius, il quale riferisce che la grotta del Carmelo si riteneva che
«fosse l’abitazione di certe streghe o fate, che diceano indovine, donne di
lunghissima vita, sagge del futuro e però consultate come oracoli e potentissime
di magica virtù».
Infine si deve
considerare che in tutta la Sardegna la pratica della magia viene tuttora
esercitata quasi esclusivamente dalle donne, le maghiárjas «maghe, maliarde», le quali ancora interpretano i sogni
dei loro clienti e predicono il loro futuro. Al contrario la figura del «mago»
è pressoché sconosciuta in Sardegna.
Sul piano
archeologico abbiamo alcune prove dell’esistenza di sacerdotesse nel culto
religioso dei Sardi Nuragici, di certo più numerose dei sacerdoti: si tratta
dei bronzetti che presentano figure di donne, in posizione ieratica, con
speciali abbigliamenti e con offerte nelle mani.
L’esistenza di
sacerdotesse nel mondo sacrale dei Sardi Nuragici è confermata, sia pure in
maniera implicita, da una notizia tramandataci da Solino, ma attribuita ad
Apollonide: «Apollonide riferisce che nella Scizia nascono donne che sono
chiamate Bithiae: queste hanno doppie
pupille negli occhi e privano della vista colui che per caso abbiano guardato
irate. Esse esistono anche in Sardegna». Si vede abbastanza facilmente che il
vocabolo Bithia non è altro che una
variante di quello greco Pythía
«Pitia, Pitonessa». Considerato poi che il vocabolo greco è fino al presente
privo di etimologia, è molto verosimile che siamo di fronte ad un vocabolo
lidio o anatolico o pelasgico, il quale è finito con l'entrare sia nella lingua
greca sia in quella protosarda o nuragica (vedi “La Sardegna nuragica” §§ 45,46,47; in questa mia opera vanno
riscontrate le note e le immagini).
Narcotici
e droghe
Resta infine un
problema. Abbiamo già visto che il sonno incubatorio poteva durare perfino
cinque giorni, di certo come effetto della ingestione di qualche narcotico o
droga: abbiamo la possibilità di intravedere quale poteva essere di preciso
questo narcotico? A me sembra di sì.
Sappiamo quasi di
certo che nel santuario pagano di Sibiola,
presso Serdiana, adesso mutato nella “Santa
Maria di Sibiola”, era venerata la grande dea Artemide Sardiana o di Sardis,
capitale della Lidia, terra di origine dei Sardi Nuragici e pure degli
Etruschi. Ebbene, siccome da questa divinità ha derivato il suo nome l’erba
chiamata «artemisia» (Artemisia absinthium
L.), detta comunemente «assenzio», possiamo logicamente dedurre che la droga
ingerita per il sonno incubatorio degli antichi Sardi era molto probabilmente
l’assenzio. Questa pianta, molto diffusa in Sardegna, ha su chi la ingerisce in
un qualsiasi modo, effetti allucinogeni e provoca notevoli turbe psichiche.
Ma c’è dell’altro: sappiamo
che le antiche Pizie profetavano in stato di
estasi, possedute da Apollo o da un altro dio: ed è probabile che pure le Pizie
facessero uso dell’assenzio per la loro attività profetica.
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