di Mauro Peppino Zedda
La parola Sorres (sorelle), caratterizza il nome di una delle più belle chiese romaniche della Sardegna, San Pietro di Sorres, che fu sede del vescovo della diocesi di Sorres.
Il nome Bidda ‘e Sorris caratterizza anche il paese che in italiano suona come Villasor.
Recentemente Augusto Mulas in coda ad un bel saggio di archeologia, L’Isola Sacra - Ipotesi sull’utilizzo cultuale dei nuraghi, dove si mette in luce come i reperti che si rinvengono nei nuraghi attestino un loro uso cultuale, prospetta l’ipotesi che il nuraghe Santu Antine di Torralba e i nuraghi ad esso circonvicini siano una rappresentazione delle Pleiadi.
I Nuraghi che secondo Mulas rientrerebbero nello schema sono: Cabu Abbas, Santu Antine, Oes, Balzalzas, Fraigas, Longu, Curzu. Che risultano reciprocamente disposti, come le stelle Atlante, Alcione, Merope, Elettra, Celeno, Taigete, Asterepe.
Le Pleiadi sono un ammasso stellare, facente parete della costellazione del Toro, che occupa lo spazio di un disco solare, una persona con vista normale, ad occhio nudo, può distinguere 5-6 stelle di quell’ammasso, un persona con un ottima vista può osservarne 8 o 9.
Che le Pleiadi siano entrate a far parte del patrimonio culturale dell’umanità è cosa nota, sono state utilizzate per millenni come punto di riferimento per orientarsi per mare e per terra, il loro sorgere e tramontare eliaco era utilizzato a scopi calendariali dagli agricoltori e dai pastori.
Le Pleiadi sono entrate nelle mitologie e cosmologie di tantissimi popoli di ogni angolo del mondo.
La “costellazione” delle Pleiadi sarebbe, secondo Mulas, stata rappresentata nel territorio compreso tra Torralba e Giave, nell'area comprendente le località di S’Archimissa, Sos Poios, Mesu e Gambas, Paule e S’Ittiri e Sassu Sorres.
Paule s’Ittiri indica un luogo palustre, Mesu e Gambas indica un luogo palustre dove l’acqua arriva a mezza gamba, Sos Poios indica un luogo dove si ritrovavano olle, S’Archimissa è il nome sardo della lavanda, e Sassu Sorres significa “pietra sorelle”.
Cosa ci vuol indicare il nome del luogo Sassu Sorres? Chi sarebbero queste sorelle? Forse le Pleiadi figlie di Atlante?
Certamente è singolare che nell’area in cui Mulas indica che un gruppo di nuraghi ricalca la disposizione delle stelle considerate come le figlie di Atlante, vi sia un toponimo come Sassu Sorres.
Altrettanto curioso il fatto che l’area facesse parte della diocesi di Sorres e che la sede del vescovado fosse a soli 4 chilometri dal Santu Antine.
Nello schema individuato da Mulas il Santu Antine corrisponderebbe alla stella più luminosa, Alcione.
Lo schema indicato da Mulas riflette con sufficiente approssimazione (immaginate la difficoltà di inquadrare 8-9 stelle nel ridotto spazio equivalente ad un disco solare) la disposizione delle stelle facenti parte delle Pleiadi, ma manca il nuraghe che avrebbe dovuto rappresentare Maia.
Per un’ottimale rappresentazione delle Pleiadi, avremo dovuto trovare un nuraghe, situato, pressappoco, a metà strada lungo la linea che intercorre tra il Santu Antine e Longu.
In quell’area vi è una cava di pietre e non ci sarebbe da stupirsi se la cava fosse sorta nei pressi del nuraghe mancante. Tantissimi nuraghi sono stati fatto oggetti di spogli più o meno intensi ed era prassi normale (sino a 40 anni fa) localizzare le cave o nei pressi di un nuraghe o nei pressi di domus de janas a seconda del tipo di materiale lapideo che serviva.
Sicuramente la proposta di Mulas, tutta da valutare, apre nuovi interessantissimi scenari alle ricerche archeoastronomiche.
domenica 15 aprile 2012
lunedì 20 febbraio 2012
Giovanni Lilliu (1914-2012)
di Franco Laner
Di Giovanni Lilliu, a cui ho rivolto in cuor mio quando ho saputo della sua morte un deferente Requiscat in pace, conservo diversi libri. Oltre alla monumentale “Civiltà dei Sardi” e a “Sardegna nuragica” conservo una sua raccolta di articoli “Una vita da archeologo”, che registra molti articoli scritti dall’illustre studioso e che restituiscono una sorta di autobiografia, scientifica ed umana.
Conservo anche suoi articoli, come quello che scrisse per la “Nuova” il 9 novembre 1997 che titolò “I templi antichi guardano il cielo”.
L’articolo prende le mosse dalla sua partecipazione, come Accademico dei Lincei, al Convegno celebrato a Roma con tema “Archeoastronomia, credenze e religioni nel mondo antico”
In sintesi, in quell’articolo, il professore apre alla legittimazione e conferisce “la patente di scienza” all’archeoastronomia, legittimata per così dire dall’Accademia dei Lincei. Con l’augurio di rimuovere gli steccati del passato, si aspetta dal nuovo approccio interdisciplinare nuove scoperte con l’auspicio di lavorare assieme, nel possibile e nel conveniente.
Nel lungo articolo intravede la possibilità che proprio dal magico e religioso possa essere maturata una ragione scientifica, che ha portato a visioni e modelli teorici e a creazione di sistemi fondati anche su osservazioni astronomiche e principi di geometria (cioè categorie di ordinamento, seppur elementari) che erano di casa a latitudini diverse ed in tempi progressivi…
Senza quelle origini, prosegue Lilliu, non avremmo avuto la nostra stagione nella quale, in virtù di una sotterranea continuità vitale, si rende necessario saldare i valori della scienza e della tecnica con la grande tradizione della plurimillenaria civiltà umana. Benvenuta sia dunque la nuova disciplina dell’archeoastronomia, ovviamente nel suo proprio e severo ambito scientifico. Praticarla su questo fondamento gioverà anche ad eliminare il sottobosco degli “archeoastronomi” improvvisati che pullulano in varie parti del mondo e prosperano anche, con un seguito senza discernimento, nella nostra Sardegna.
Ricordo molte discussioni che seguirono. Facile riconoscerci in quel sottobosco (oltre a Mauro, al sottoscritto e un paio d’altri, nessuno in Sardegna si occupava di archeoastronomia, se si esclude Proverbio presente al Convegno) con irritazione da una parte, ma anche con speranza, che l’apertura di Lilliu prefigurava.
Gli scrissi la seguente lettera, alla quale mi diede breve risposta durante un Convegno, mi pare ad Isili che Zedda organizzò, dicendomi che avevo frainteso l’articolo. Non ricordo le parole, ma quell’incontrò definì nella mia testa il profilo di Lilliu: furbo come ra stries, mi ripeto in ladino.
Egr. prof. Lilliu,
Sono un docente di tecnologia dell’architettura all’Università di Venezia. Mi occupo anche della storia delle tecnologie costruttive e fra le altre cose ho cercato di capire come furono costruiti i nuraghi. Ciò che ho letto a questo proposito –specie nei suoi libri o della sua Scuola- non mi ha soddisfatto e pertanto sono venuto in Sardegna a vedermi i nuraghi. Ho formulato un mio sistema costruttivo, che sintetizzato suona come “nuraghe macchina di sé stesso” ovvero la necessaria rampa di servizio è “congelata” nello stesso nuraghe: non c’è bisogno di supplementari rampe esterne, né di scalandroni, come ipotizza un suo ex allievo, Giacobbe Manca. Oggetto di questo mio studio è stata una relazione che ho illustrato a Saragoza, in un convegno internazionale di storia delle tecniche costruttive.
Ma non è di ciò che desidero parlarle, ma della nota da lei scritta sulla Nuova Sardegna, a proposito di archeoastronomia.
Ebbene, trovo davvero disdicevole tale articolo.
Ma al contempo stimolante, perché mi fa riprendere la voglia di completare un lavoro, di cui allego l’indice e l’introduzione, sufficiente credo ad esprimere la mia opinione sulla questione nuragica, di cui ovviamente sono un dilettante (sono architetto), uno di quei dilettanti che pullulano nel sottobosco della vostra Sardegna (l’indice e l’introduzione erano quelli di “Accabadora” in cui sostenevo che i nuraghi appartengono al sacro e che la teoria militare aveva fatto troppi danni).
Vede, se ci si occupa delle costruzioni del passato, soprattutto megalitiche e ciclopiche, prescindendo dall’archeoastronomia, sarebbe come scrivere senza conoscere la grammatica o la sintassi. Forse voi archeologi avete dimenticato di guardare l’ordine magistrale del cielo, poiché, chini sugli scavi, vi interessa ciò che brilla sulla punta del piccone e solo ora vi accorgete della “nascente archeoastronomia”.
Ma torniamo alla chiusura del suo articolo: “Benvenuti…nella nostra Sardegna”…Il resto, mi scusi, sono cose senza nessuna inferenza speculativa, scritte solo per recuperare un treno perso da tempo. Come pensa di eliminare il sottobosco degli archeoastronomi? Credo ci sia un solo modo. Non con la spocchia accademica, ma col confronto, poiché una verità o una stupidità non cambia se detta da un accademico o da un peon.
E sopporti anche qualche “outsider”, che pensa che il patrimonio archeologico sardo sia anche un poco suo, non solo vostro, così come il patrimonio artistico e culturale di Venezia è anche suo, non solo nostro!
Cordiali saluti
Franco Laner
Venezia, 28/12/1997
Lilliu ha incarnato un profilo di archeologo che nulla può o deve concedere all’illazione. Non si devono formulare ipotesi, né tantomeno, suggestioni.
L’archeologo -scrive Lilliu- questo essere che, di solito, ha una vena di pazzia, deve diventare l’uomo più “saggio”, più controllato del mondo; deve essere una sorta di perito settore, dalla mano ferma e dall’occhio rapido, sordo ad ogni richiamo patetico dello spirito.
Strana contraddizione. Forse che chi ci ha preceduto non concedeva nulla allo spirito? Ma come avvicinarmi a costui, senza concedere qualcosa allo spirito?
Venezia, 19 febbraio 2012
Di Giovanni Lilliu, a cui ho rivolto in cuor mio quando ho saputo della sua morte un deferente Requiscat in pace, conservo diversi libri. Oltre alla monumentale “Civiltà dei Sardi” e a “Sardegna nuragica” conservo una sua raccolta di articoli “Una vita da archeologo”, che registra molti articoli scritti dall’illustre studioso e che restituiscono una sorta di autobiografia, scientifica ed umana.
Conservo anche suoi articoli, come quello che scrisse per la “Nuova” il 9 novembre 1997 che titolò “I templi antichi guardano il cielo”.
L’articolo prende le mosse dalla sua partecipazione, come Accademico dei Lincei, al Convegno celebrato a Roma con tema “Archeoastronomia, credenze e religioni nel mondo antico”
In sintesi, in quell’articolo, il professore apre alla legittimazione e conferisce “la patente di scienza” all’archeoastronomia, legittimata per così dire dall’Accademia dei Lincei. Con l’augurio di rimuovere gli steccati del passato, si aspetta dal nuovo approccio interdisciplinare nuove scoperte con l’auspicio di lavorare assieme, nel possibile e nel conveniente.
Nel lungo articolo intravede la possibilità che proprio dal magico e religioso possa essere maturata una ragione scientifica, che ha portato a visioni e modelli teorici e a creazione di sistemi fondati anche su osservazioni astronomiche e principi di geometria (cioè categorie di ordinamento, seppur elementari) che erano di casa a latitudini diverse ed in tempi progressivi…
Senza quelle origini, prosegue Lilliu, non avremmo avuto la nostra stagione nella quale, in virtù di una sotterranea continuità vitale, si rende necessario saldare i valori della scienza e della tecnica con la grande tradizione della plurimillenaria civiltà umana. Benvenuta sia dunque la nuova disciplina dell’archeoastronomia, ovviamente nel suo proprio e severo ambito scientifico. Praticarla su questo fondamento gioverà anche ad eliminare il sottobosco degli “archeoastronomi” improvvisati che pullulano in varie parti del mondo e prosperano anche, con un seguito senza discernimento, nella nostra Sardegna.
Ricordo molte discussioni che seguirono. Facile riconoscerci in quel sottobosco (oltre a Mauro, al sottoscritto e un paio d’altri, nessuno in Sardegna si occupava di archeoastronomia, se si esclude Proverbio presente al Convegno) con irritazione da una parte, ma anche con speranza, che l’apertura di Lilliu prefigurava.
Gli scrissi la seguente lettera, alla quale mi diede breve risposta durante un Convegno, mi pare ad Isili che Zedda organizzò, dicendomi che avevo frainteso l’articolo. Non ricordo le parole, ma quell’incontrò definì nella mia testa il profilo di Lilliu: furbo come ra stries, mi ripeto in ladino.
Egr. prof. Lilliu,
Sono un docente di tecnologia dell’architettura all’Università di Venezia. Mi occupo anche della storia delle tecnologie costruttive e fra le altre cose ho cercato di capire come furono costruiti i nuraghi. Ciò che ho letto a questo proposito –specie nei suoi libri o della sua Scuola- non mi ha soddisfatto e pertanto sono venuto in Sardegna a vedermi i nuraghi. Ho formulato un mio sistema costruttivo, che sintetizzato suona come “nuraghe macchina di sé stesso” ovvero la necessaria rampa di servizio è “congelata” nello stesso nuraghe: non c’è bisogno di supplementari rampe esterne, né di scalandroni, come ipotizza un suo ex allievo, Giacobbe Manca. Oggetto di questo mio studio è stata una relazione che ho illustrato a Saragoza, in un convegno internazionale di storia delle tecniche costruttive.
Ma non è di ciò che desidero parlarle, ma della nota da lei scritta sulla Nuova Sardegna, a proposito di archeoastronomia.
Ebbene, trovo davvero disdicevole tale articolo.
Ma al contempo stimolante, perché mi fa riprendere la voglia di completare un lavoro, di cui allego l’indice e l’introduzione, sufficiente credo ad esprimere la mia opinione sulla questione nuragica, di cui ovviamente sono un dilettante (sono architetto), uno di quei dilettanti che pullulano nel sottobosco della vostra Sardegna (l’indice e l’introduzione erano quelli di “Accabadora” in cui sostenevo che i nuraghi appartengono al sacro e che la teoria militare aveva fatto troppi danni).
Vede, se ci si occupa delle costruzioni del passato, soprattutto megalitiche e ciclopiche, prescindendo dall’archeoastronomia, sarebbe come scrivere senza conoscere la grammatica o la sintassi. Forse voi archeologi avete dimenticato di guardare l’ordine magistrale del cielo, poiché, chini sugli scavi, vi interessa ciò che brilla sulla punta del piccone e solo ora vi accorgete della “nascente archeoastronomia”.
Ma torniamo alla chiusura del suo articolo: “Benvenuti…nella nostra Sardegna”…Il resto, mi scusi, sono cose senza nessuna inferenza speculativa, scritte solo per recuperare un treno perso da tempo. Come pensa di eliminare il sottobosco degli archeoastronomi? Credo ci sia un solo modo. Non con la spocchia accademica, ma col confronto, poiché una verità o una stupidità non cambia se detta da un accademico o da un peon.
E sopporti anche qualche “outsider”, che pensa che il patrimonio archeologico sardo sia anche un poco suo, non solo vostro, così come il patrimonio artistico e culturale di Venezia è anche suo, non solo nostro!
Cordiali saluti
Franco Laner
Venezia, 28/12/1997
Lilliu ha incarnato un profilo di archeologo che nulla può o deve concedere all’illazione. Non si devono formulare ipotesi, né tantomeno, suggestioni.
L’archeologo -scrive Lilliu- questo essere che, di solito, ha una vena di pazzia, deve diventare l’uomo più “saggio”, più controllato del mondo; deve essere una sorta di perito settore, dalla mano ferma e dall’occhio rapido, sordo ad ogni richiamo patetico dello spirito.
Strana contraddizione. Forse che chi ci ha preceduto non concedeva nulla allo spirito? Ma come avvicinarmi a costui, senza concedere qualcosa allo spirito?
Venezia, 19 febbraio 2012
lunedì 23 gennaio 2012
GUERRIERI DI MONTE PRAMA
Preconcetti ed autoreferenzialità alla base di una risibile ricostruzione
di Franco Laner
Ricomporre un puzzle di più di 5.000 frammenti e soprattutto con molti pezzi mancanti penso sia impresa difficile che diventa impossibile se alla carenza di reperti si aggiungono distorsioni ideologiche, ignoranza di semplici regole statiche e tremendi quanto fuorvianti preconcetti. Il peggiore in assoluto è quello di vedere in ogni frammento cilindrico o di colonna, con basamento o capitello, un modello di nuraghe.
La parte centrale della Mostra “La pietra e gli eroi”, allestita a Li Punti (SS), nel Centro di Restauro e visitabile fino alla fine del mese, è dedicata infatti ai modelli di nuraghe. Il percorso della Mostra inizia con scontornate statue di pugilatori, così identificati per il gonnellino chiuso con lembo posteriormente sporgente. Il percorso espositivo si sofferma poi sui tanti, tantissimi, modelli di nuraghi e si conclude con le statue “meglio” ricostruite. La parte finale a mio avviso è l’apoteosi della sommatoria di errori e forzature, con la chicca dello scudo in testa ai pugilatori e il modello di nuraghe polilobati con le torri e il mastio centrale ben fornite di aggetti medioevali.
Non v’è antica cultura al mondo –Africa, Asia, Mediterraneo- in cui la rappresentazione cosmica non sia stata interpretata con i quattro pilastri che reggono la cupola celeste ed il pilastro centrale (axis mundi).
Con questa rappresentazione cosmologica si sono costruiti templi, santuari, mandala e moschee. Lo stesso Taramelli, illustre archeologo nuragico, interpreta i bronzetti con la torre centrale (es. Ittireddu) con le quattro più piccole laterali come modello di santuario (v. Convegno archeologico in Sardegna del 1926).
Legittimo dunque a fronte di tante colonne con allargamento apicale far riferimento a questi modelli cosmologici, ma interpretare una colonna con basamento o capitello come modello di nuraghe, mi sembra una forzatura disarmante. Anche un chiarissimo basamento quadrangolare –basamento del tutto uguale per dimensione e spessore (circa 60x60x15cm di spessore) ai basamenti delle statue, con relativo spezzone di colonna, è descritto nel cartellino come modello di nuraghe! Oltrettutto è esibito capovolto.
La finitura della sommità dei nuraghi, costruzioni di muratura ciclopica ed a secco, è possibile con mensoloni incastrati. Ma su questi mensoloni è impossibile costruire alcunché, poiché i mensoloni non sopporterebbero momenti flettenti e subito si spezzerebbero. L’aggetto apicale di una colonna , ovvero il suo allargamento, è possibile perché è monolitica, ma non è possibile in una costruzione a secco come il nuraghe. E ciò per semplici ragioni statiche e di scarsissima resistenza a trazione offerta dalla pietra.
Per questa stessa ragione di poca resistenza a trazione della pietra, le statue marmoree devono sottostare a vincoli statici che ne condizionano la composizione. Ad esempio, se il loro appoggio è dato solo dalle due gambe, la statua non può reggere al ribaltamento, dato da una lieve spinta o eccentricità del carico. Per reggersi, una statua di pietra, ha necessità di un terzo appoggio. Si veda qualsiasi statua litica dai greci a Canova! Ovvio che questo discorso non vale per statue bronzee o metalliche, poiché tali materiali resistono a trazione. Pertanto le statue di Monte Prama, con due soli appoggi, possono resistere solo a carichi verticali e non possono che essere telamoni. Devono essere “schiacciati”, ovvero solo compressi, sollecitazione a cui la pietra regge ottimamente. Come corollario i pugilatori non avevano in testa lo scudo –lo scudo lo hanno gli scudieri!- bensì l’architrave del tempio.
Esibire al mondo spezzoni di colonna con basamento o capitello e dichiararli modelli di nuraghe equivale ad una frase con gravi errori di grammatica e sintassi. Significa mettere in cattiva luce il paziente lavoro di ricomposizione di frammenti anche se guidata da una molto discutibile idea nuragica di appartenenza dei reperti. Per un tale ed impegnativo lavoro di ricostruzione l’archeologo doveva essere affiancato dallo storico dell’arte e soprattutto da chi abbia tenuto in mano lo scalpello (uno scultore). Monte Prama appartiene geograficamente alla gronda lagunare di Cabras, frontiera terra-acqua. Serviva dunque anche un profondo conoscitore della storia e geografia dei navigatori del Mediterraneo. Ancora era necessario chi conosca le tecniche costruttive a secco e chi abbia chiaro il comportamento statico. E’ stato in verità chiamato uno fra i maggiori esperti di statuaria antica, il prof. Rockwell, ma i suoi suggerimenti di statica e datazione (uso della gradina introdotto in Grecia solo nel V sec. av. Cristo), sono stati del tutto disattesi, proprio per l’insistenza nuragica. L’autoreferenzialità e soprattutto idee preconcette, ad esempio voler dimostrare come la statuaria a tutto tondo dei guerrieri di Monte Prama abbia preceduto quella greca di alcuni secoli e l’insistenza su qualche somiglianza coi bronzetti, ha molto nociuto alla scientificità della ricostruzione.
Ci sono assonanze coi bronzetti nuragici, ma c’è assonanza anche con l’arte cicladica o dogon. Assonanze ma anche sostanziali diversità. I telamoni di Monte Prama sono statici, privi di plasticità, colonnari e alquanto sproporzionati: gambe cortissime e tozze rispetto ad un corpo massiccio, privo di tensione.
Gli enigmatici occhi, con le pupille dilatate e la bocca ermeticamente chiusa sono eloquenti: ci invitano tutt’ora ad essere vigili ed attenti. Forse anche a preferire il silenzio.
Preconcetti ed autoreferenzialità alla base di una risibile ricostruzione
di Franco Laner
Ricomporre un puzzle di più di 5.000 frammenti e soprattutto con molti pezzi mancanti penso sia impresa difficile che diventa impossibile se alla carenza di reperti si aggiungono distorsioni ideologiche, ignoranza di semplici regole statiche e tremendi quanto fuorvianti preconcetti. Il peggiore in assoluto è quello di vedere in ogni frammento cilindrico o di colonna, con basamento o capitello, un modello di nuraghe.
La parte centrale della Mostra “La pietra e gli eroi”, allestita a Li Punti (SS), nel Centro di Restauro e visitabile fino alla fine del mese, è dedicata infatti ai modelli di nuraghe. Il percorso della Mostra inizia con scontornate statue di pugilatori, così identificati per il gonnellino chiuso con lembo posteriormente sporgente. Il percorso espositivo si sofferma poi sui tanti, tantissimi, modelli di nuraghi e si conclude con le statue “meglio” ricostruite. La parte finale a mio avviso è l’apoteosi della sommatoria di errori e forzature, con la chicca dello scudo in testa ai pugilatori e il modello di nuraghe polilobati con le torri e il mastio centrale ben fornite di aggetti medioevali.
Non v’è antica cultura al mondo –Africa, Asia, Mediterraneo- in cui la rappresentazione cosmica non sia stata interpretata con i quattro pilastri che reggono la cupola celeste ed il pilastro centrale (axis mundi).
Con questa rappresentazione cosmologica si sono costruiti templi, santuari, mandala e moschee. Lo stesso Taramelli, illustre archeologo nuragico, interpreta i bronzetti con la torre centrale (es. Ittireddu) con le quattro più piccole laterali come modello di santuario (v. Convegno archeologico in Sardegna del 1926).
Legittimo dunque a fronte di tante colonne con allargamento apicale far riferimento a questi modelli cosmologici, ma interpretare una colonna con basamento o capitello come modello di nuraghe, mi sembra una forzatura disarmante. Anche un chiarissimo basamento quadrangolare –basamento del tutto uguale per dimensione e spessore (circa 60x60x15cm di spessore) ai basamenti delle statue, con relativo spezzone di colonna, è descritto nel cartellino come modello di nuraghe! Oltrettutto è esibito capovolto.
La finitura della sommità dei nuraghi, costruzioni di muratura ciclopica ed a secco, è possibile con mensoloni incastrati. Ma su questi mensoloni è impossibile costruire alcunché, poiché i mensoloni non sopporterebbero momenti flettenti e subito si spezzerebbero. L’aggetto apicale di una colonna , ovvero il suo allargamento, è possibile perché è monolitica, ma non è possibile in una costruzione a secco come il nuraghe. E ciò per semplici ragioni statiche e di scarsissima resistenza a trazione offerta dalla pietra.
Per questa stessa ragione di poca resistenza a trazione della pietra, le statue marmoree devono sottostare a vincoli statici che ne condizionano la composizione. Ad esempio, se il loro appoggio è dato solo dalle due gambe, la statua non può reggere al ribaltamento, dato da una lieve spinta o eccentricità del carico. Per reggersi, una statua di pietra, ha necessità di un terzo appoggio. Si veda qualsiasi statua litica dai greci a Canova! Ovvio che questo discorso non vale per statue bronzee o metalliche, poiché tali materiali resistono a trazione. Pertanto le statue di Monte Prama, con due soli appoggi, possono resistere solo a carichi verticali e non possono che essere telamoni. Devono essere “schiacciati”, ovvero solo compressi, sollecitazione a cui la pietra regge ottimamente. Come corollario i pugilatori non avevano in testa lo scudo –lo scudo lo hanno gli scudieri!- bensì l’architrave del tempio.
Esibire al mondo spezzoni di colonna con basamento o capitello e dichiararli modelli di nuraghe equivale ad una frase con gravi errori di grammatica e sintassi. Significa mettere in cattiva luce il paziente lavoro di ricomposizione di frammenti anche se guidata da una molto discutibile idea nuragica di appartenenza dei reperti. Per un tale ed impegnativo lavoro di ricostruzione l’archeologo doveva essere affiancato dallo storico dell’arte e soprattutto da chi abbia tenuto in mano lo scalpello (uno scultore). Monte Prama appartiene geograficamente alla gronda lagunare di Cabras, frontiera terra-acqua. Serviva dunque anche un profondo conoscitore della storia e geografia dei navigatori del Mediterraneo. Ancora era necessario chi conosca le tecniche costruttive a secco e chi abbia chiaro il comportamento statico. E’ stato in verità chiamato uno fra i maggiori esperti di statuaria antica, il prof. Rockwell, ma i suoi suggerimenti di statica e datazione (uso della gradina introdotto in Grecia solo nel V sec. av. Cristo), sono stati del tutto disattesi, proprio per l’insistenza nuragica. L’autoreferenzialità e soprattutto idee preconcette, ad esempio voler dimostrare come la statuaria a tutto tondo dei guerrieri di Monte Prama abbia preceduto quella greca di alcuni secoli e l’insistenza su qualche somiglianza coi bronzetti, ha molto nociuto alla scientificità della ricostruzione.
Ci sono assonanze coi bronzetti nuragici, ma c’è assonanza anche con l’arte cicladica o dogon. Assonanze ma anche sostanziali diversità. I telamoni di Monte Prama sono statici, privi di plasticità, colonnari e alquanto sproporzionati: gambe cortissime e tozze rispetto ad un corpo massiccio, privo di tensione.
Gli enigmatici occhi, con le pupille dilatate e la bocca ermeticamente chiusa sono eloquenti: ci invitano tutt’ora ad essere vigili ed attenti. Forse anche a preferire il silenzio.
giovedì 1 dicembre 2011
Solstizio d'inverno tra i nuraghi
Nei giorni 17 e 18 dicembre 2011 , sei invitata/o alla gita archeoastronomica organizzata dalla Associazione Agorà Nuragica.
Si visiteranno:
- il pozzo sacro di Santa Cristina di Paulilatino,
- i nuraghi Zuras e Losa di Abbasanta, il Santu Antine di Torralba,
- la piramide tronco piramidale di Monte d’Accoddi a Portotorres (o in alternativa la necropoli di Sant’Andrea Priu a Bonorva)
Nella mattina del 17 dicembre (h 11.00) visiteremo il pozzo di Santa Cristina illustrando il significato astronomico di questo straordinario monumento, definito dal Prof. Arnold Lebeuf “il più sofisticato osservatorio astronomico lunare dell’antichità ed il punto d’inizio di un pensiero scientifico-previsionale”.
Nel primo pomeriggio, dopo un pranzo al sacco, la visita si sposterà al magnifico nuraghe Zuras di Abbasanta, dove verrà illustrato lo straordinario significato astronomico lunare di questo nuraghe.
Poi ci recheremo al Losa di Abbasanta, un nuraghe non solo astronomicamente orientato, ma addirittura astronomicamente concepito, i cui lati, come verrà spiegato, sono incardinati lungo gli assi solstiziali; dopo l’illustrazione delle caratteristiche astronomiche del monumento si potrà osservare (nuvole permettendo) il magnifico spettacolo del tramonto del Sole in asse col paramento murario orientato lungo l’asse alba solstizio d’estate – tramonto solstizio d’inverno.
La mattina del 18 dicembre appuntamento presso il nuraghe Santu Antine di Torralba alle 7.20 del mattino. Si inizierà con l’osservazione del sorgere del Sole, sperimentando empiricamente il significato astronomico di questo nuraghe, poi verrà illustrato il significato astronomico complessivo di questo monumento, definito dallo storico della scienza di Cambridge Michael Hoskin “il più sofisticato monumento in pietra secca sulla faccia della Terra”.
A mezza mattina ci si recherà a visitare l’altare tronco piramidale di Monte d’Accoddi , e verrà illustrato il suo significato astronomico , connesso coi cicli del Sole, Luna e Venere.
Pranzo presso un agriturismo da definire.
La partecipazione alla gita è libera e gratuita; ogni partecipante dovrà provvedere alle proprie spese di vitto e alloggio (si consiglia l’Hotel Cavallino Rosso a Thiesi) e all’eventuale biglietto d’ingresso ai monumenti.
Si visiteranno:
- il pozzo sacro di Santa Cristina di Paulilatino,
- i nuraghi Zuras e Losa di Abbasanta, il Santu Antine di Torralba,
- la piramide tronco piramidale di Monte d’Accoddi a Portotorres (o in alternativa la necropoli di Sant’Andrea Priu a Bonorva)
Nella mattina del 17 dicembre (h 11.00) visiteremo il pozzo di Santa Cristina illustrando il significato astronomico di questo straordinario monumento, definito dal Prof. Arnold Lebeuf “il più sofisticato osservatorio astronomico lunare dell’antichità ed il punto d’inizio di un pensiero scientifico-previsionale”.
Nel primo pomeriggio, dopo un pranzo al sacco, la visita si sposterà al magnifico nuraghe Zuras di Abbasanta, dove verrà illustrato lo straordinario significato astronomico lunare di questo nuraghe.
Poi ci recheremo al Losa di Abbasanta, un nuraghe non solo astronomicamente orientato, ma addirittura astronomicamente concepito, i cui lati, come verrà spiegato, sono incardinati lungo gli assi solstiziali; dopo l’illustrazione delle caratteristiche astronomiche del monumento si potrà osservare (nuvole permettendo) il magnifico spettacolo del tramonto del Sole in asse col paramento murario orientato lungo l’asse alba solstizio d’estate – tramonto solstizio d’inverno.
La mattina del 18 dicembre appuntamento presso il nuraghe Santu Antine di Torralba alle 7.20 del mattino. Si inizierà con l’osservazione del sorgere del Sole, sperimentando empiricamente il significato astronomico di questo nuraghe, poi verrà illustrato il significato astronomico complessivo di questo monumento, definito dallo storico della scienza di Cambridge Michael Hoskin “il più sofisticato monumento in pietra secca sulla faccia della Terra”.
A mezza mattina ci si recherà a visitare l’altare tronco piramidale di Monte d’Accoddi , e verrà illustrato il suo significato astronomico , connesso coi cicli del Sole, Luna e Venere.
Pranzo presso un agriturismo da definire.
La partecipazione alla gita è libera e gratuita; ogni partecipante dovrà provvedere alle proprie spese di vitto e alloggio (si consiglia l’Hotel Cavallino Rosso a Thiesi) e all’eventuale biglietto d’ingresso ai monumenti.
mercoledì 30 novembre 2011
Gli antichi Sardi fra i “Popoli del Mare"
di Massimo Pittau
Mi fa piacere presentare Le conclusioni culturali e storiografiche del mio ultimo libro "Gli antichi Sardi fra i “Popoli del Mare”», Domus de Janas, Selargius (CA) 2011.
Noi moderni dunque abbiamo di fronte una massa imponente di connessioni archeologiche e culturali, che legano strettamente l’antica isola di Sardegna all’antica civiltà egizia. Di fronte alle quali connessioni ci sembra che le deduzioni logiche che se ne debbano trarre siano le seguenti:
I) Questo materiale egizio - ed eventualmente egittizzante - non può essere stato importato in Sardegna dagli antichi Egizi, dato che è del tutto certo storicamente che questo popolo non ha mai espresso una politica imperialistica marittima e nemmeno un’ampia attività commerciale nel Mediterraneo e tanto meno nel Mediterraneo centro-occidentale.
II) Questo materiale egizio non può essere stato importato in Sardegna dai Fenici, sia perché numerosi elementi di quel materiale hanno una datazione precedente di alcuni secoli all’arrivo dei Fenici in Sardegna (fine del IX, inizi dell’VIII sec. a. C.), sia per il loro carattere culturale prevalente.
Il carattere culturale prevalente è senza alcun dubbio quello “religioso”, ragion per cui, avendo i Fenici una loro “religione fenicia” differente dalla “religione egizia”, non si capirebbe per nulla il fatto che essi avessero fatto gli esportatori e i “propagandisti” in Sardegna di una religione differente da quella loro nazionale. È ben vero che i “commercianti” – e i Fenici lo erano in maniera preminente – non hanno mai sentito “puzzare” i soldi guadagnati da una qualsiasi merce venduta, ma il fatto è che il tabù religioso nell’antichità era molto più forte di adesso, per cui allora molto meno di adesso “si scherzava coi santi”, ossia col materiale religioso e le credenze che vi erano annesse.
Nella supposizione pertanto che avessero assunto la parte e la funzione di “propagandisti religiosi”, perché i Fenici non avrebbero importato in Sardegna esclusivamente la loro “religione fenicia”?
(E tutto questo contribuisce a ridimensionare notevolmente la presenza dei Fenici in Sardegna, presenza che invece i “feniciomani” nostrani avevano enfatizzato in misura spropositata).
III) Non resta altra soluzione: il ricco materiale egizio di carattere religioso, assieme con la religione egizia corrispondente, sono stati importati in Sardegna dai Sardi stessi, a iniziare dall’epoca della loro partecipazione alle imprese dei “Popoli del Mare” in Egitto (fra il 1230 e il 1170 a. C. circa). Come abbiamo accennato in precedenza, dopo quelle imprese, i Sardi non avranno interrotto i loro rapporti con quello che era il paese più ricco e più civile di tutto il bacino del Mediterraneo, ma anzi li avranno mantenuti a lungo, di secolo in secolo, anche nell’epoca della presenza nell’isola dei Fenici e pure dei Cartaginesi. In quest’ultimo periodo, sì, si può accettare che i Fenici e perfino i Cartaginesi siano diventati i prevalenti “vettori” del materiale egizio in Sardegna; ma questo essi facevano in quanto trovavano nei Sardi dei buoni acquirenti, soprattutto quei Sardi che continuavano a vivere nelle città sardo-puniche di Caralis, Bitia, Nora, Sulcis, Tharros, ecc.
Dunque l’interesse per l’Egitto e la sua splendida civiltà da parte degli antichi Sardi è iniziato all’epoca della loro partecipazione alle imprese tra i “Popoli del Mare”, ma è continuato di secolo in secolo fino a tempi molto recenti, sino all’epoca della dominazione romana, come fanno intendere non pochi reperti egizi rinvenuti in Sardegna.
Mi fa piacere presentare Le conclusioni culturali e storiografiche del mio ultimo libro "Gli antichi Sardi fra i “Popoli del Mare”», Domus de Janas, Selargius (CA) 2011.
Noi moderni dunque abbiamo di fronte una massa imponente di connessioni archeologiche e culturali, che legano strettamente l’antica isola di Sardegna all’antica civiltà egizia. Di fronte alle quali connessioni ci sembra che le deduzioni logiche che se ne debbano trarre siano le seguenti:
I) Questo materiale egizio - ed eventualmente egittizzante - non può essere stato importato in Sardegna dagli antichi Egizi, dato che è del tutto certo storicamente che questo popolo non ha mai espresso una politica imperialistica marittima e nemmeno un’ampia attività commerciale nel Mediterraneo e tanto meno nel Mediterraneo centro-occidentale.
II) Questo materiale egizio non può essere stato importato in Sardegna dai Fenici, sia perché numerosi elementi di quel materiale hanno una datazione precedente di alcuni secoli all’arrivo dei Fenici in Sardegna (fine del IX, inizi dell’VIII sec. a. C.), sia per il loro carattere culturale prevalente.
Il carattere culturale prevalente è senza alcun dubbio quello “religioso”, ragion per cui, avendo i Fenici una loro “religione fenicia” differente dalla “religione egizia”, non si capirebbe per nulla il fatto che essi avessero fatto gli esportatori e i “propagandisti” in Sardegna di una religione differente da quella loro nazionale. È ben vero che i “commercianti” – e i Fenici lo erano in maniera preminente – non hanno mai sentito “puzzare” i soldi guadagnati da una qualsiasi merce venduta, ma il fatto è che il tabù religioso nell’antichità era molto più forte di adesso, per cui allora molto meno di adesso “si scherzava coi santi”, ossia col materiale religioso e le credenze che vi erano annesse.
Nella supposizione pertanto che avessero assunto la parte e la funzione di “propagandisti religiosi”, perché i Fenici non avrebbero importato in Sardegna esclusivamente la loro “religione fenicia”?
(E tutto questo contribuisce a ridimensionare notevolmente la presenza dei Fenici in Sardegna, presenza che invece i “feniciomani” nostrani avevano enfatizzato in misura spropositata).
III) Non resta altra soluzione: il ricco materiale egizio di carattere religioso, assieme con la religione egizia corrispondente, sono stati importati in Sardegna dai Sardi stessi, a iniziare dall’epoca della loro partecipazione alle imprese dei “Popoli del Mare” in Egitto (fra il 1230 e il 1170 a. C. circa). Come abbiamo accennato in precedenza, dopo quelle imprese, i Sardi non avranno interrotto i loro rapporti con quello che era il paese più ricco e più civile di tutto il bacino del Mediterraneo, ma anzi li avranno mantenuti a lungo, di secolo in secolo, anche nell’epoca della presenza nell’isola dei Fenici e pure dei Cartaginesi. In quest’ultimo periodo, sì, si può accettare che i Fenici e perfino i Cartaginesi siano diventati i prevalenti “vettori” del materiale egizio in Sardegna; ma questo essi facevano in quanto trovavano nei Sardi dei buoni acquirenti, soprattutto quei Sardi che continuavano a vivere nelle città sardo-puniche di Caralis, Bitia, Nora, Sulcis, Tharros, ecc.
Dunque l’interesse per l’Egitto e la sua splendida civiltà da parte degli antichi Sardi è iniziato all’epoca della loro partecipazione alle imprese tra i “Popoli del Mare”, ma è continuato di secolo in secolo fino a tempi molto recenti, sino all’epoca della dominazione romana, come fanno intendere non pochi reperti egizi rinvenuti in Sardegna.
lunedì 28 novembre 2011
Sulcis: fondazione e toponimo nuragici
di Massimo Pittau
In miei studi precedenti sui “macrotoponimi” della Sardegna avevo sostenuto, circa il toponimo Sulcis (antico nome di Sant’Antioco), una certa tesi, che in parte ho revisionato in una mia opera recente. Oggi ritorno a quella mia tesi iniziale e ciò in virtù del fatto che ritengo di avere decifrato e tradotto un vocabolo etrusco, che compare nel famoso “Libro della Mummia di Zagabria” e del quale do la spiegazione in una mia ampia opera sulla lingua etrusca, di imminente pubblicazione («I Grandi Testi della Lingua Etrusca tradotti e commentati», Carlo Delfino Editore, Sassari 2011). Pertanto la mia tesi ultima sul toponimo e pure sull’insediamento umano dell’antico Sulcis è il seguente.
««Sulcis - Attualmente indica tutta la parte sud-occidentale dell'Isola, mentre nel Medioevo e in età moderna ha indicato una diocesi, che ebbe come capoluogo prima Sant'Antioco, dopo Tratalias e infine Iglesias. In virtù di quest'ultima circostanza il coronimo è citato molto per tempo e numerose volte nei documenti medioevali.
Esso deriva dal nome originario di Sant'Antioco, che è citato come Sulci da Claudiano (V, 518), dall'«Itinerario di Antonino» (84), dalla Tavola Peutingheriana e dall'Anonimo Ravennate; come Sulcis (da interpretarsi come un locativo plur.) è citato da Mela (II, 19); come Sólkoi da Tolomeo (III 3, 3); Soûlchoi da Strabone (V 2, 7); Sylkoi da Pausania (X 17, 9) e da Stefano di Bisanzio; Solkói da Artemidoro, in Stefano di Bisanzio (581,7-8; 591 M s. vv.); Soúlkes da Leone il Saggio (Patrologia Graeca, CVII c. 344).
Io sono dell’avviso che il toponimo sia sardiano o protosardo e sia da connettere con l’appellativo etrusco SULΧVA «solchi» (Liber X 17) (plur.) (da cui dopo è derivato il lat. sulcus) (LEGL 69; DICLE 166).
A mio avviso l’antico insediamento traeva molta della sua importanza dal “solco o canale” o anche dai “solchi o canali” che tagliavano l’istmo che unisce l’isola di Sant’Antioco alla Sardegna propriamente detta, canali che costituivano altrettanti "passaggi" per le navi che costeggiavano la Sardegna, anche per evitare il lungo e pericoloso periplo delle isole di Sant'Antioco e di San Pietro. I «canali» dell'istmo dunque saranno stati più d'uno, in quanto saranno stati usati variamente a seconda del frequente interramento provocato dallo spirare dei venti e dal movimento delle correnti marine. Sul principale di questi canali in età romana è stato costruito quel ponte che rimane tuttora (OPSE 159, 269).
Hanno quasi certamente errato alcuni archeologi recenti che, senza darne alcuna prova, hanno parlato di "istmo artificiale" di Sulci: al contrario l'istmo sembra costituitosi in epoca molto antica, come dimostra anche il fatto che nella sua parte centrale si trovano ancora in posizione eretta due pedras longas o pedras fittas (menhirs) di epoca prenuragica.
A differenza della città di Sulci, nell’antichità l'isola veniva chiamata, come risulta dal geografo greco-alesandrino Tolomeo (III 3, 8), Molibódes nésos «Isola plumbea», evidentemente per i suoi giacimenti di piombo. Ma questa sarà stata la traduzione greca di una precedente locuzione sardiana o protosarda, che ormai a noi risulta sconosciuta»».
Questo avevo scritto riguardo a Sulcis, quando ho avuto la soddisfazione di leggere nella recente opera di Piero Bartoloni, «I Fenici e i Cartaginesi in Sardegna» (Sassari 2009): (pag. 62) «Sulky, certamente di fondazione nuragica», (pag. 81) «abitanti Sulcitani di origine nuragica», (pag. 77) «nome Sulky, forse di origine non fenicia».
Da parte mia aggiungo che nell’isola di Sant’Antioco si trovano tuttora i resti di ben 23 nuraghi, prova evidente che essa era intensamente abitata sia per i suoi giacimenti di piombo sia per l’abbondanza di pesci, compresi i tonni, nelle sue coste.
Fenici e Cartaginesi sono arrivati nell’isola quattro o cinque secoli dopo.
A proposito degli Etruschi mi piace citare un fatto quasi del tutto sconosciuto agli studiosi sardi: nel Lazio è stata rinvenuta una tessera ospitale d’avorio in figura di leone (del sec. VI a. C.), la quale riporta l’iscrizione etrusca ARAZ SILQETENAS SPURIANAS «(tessera) di Arunte Sulcitano (ospite) di Spurianio» (ET, La 2.3 - 6:). SILQETENA(-S) «(di) Sulcitano» è un cognomen masch. in genitivo, da confrontare col lat. Sulcitanus = "nativo od originario di Sulcis" (in Sardegna) (alternanze i/u, e/i, a/e; DICLE 13). I due individui dunque si erano legati da obblighi di reciproca ospitalità nelle rispettive residenze (DETR 375; DICLE 166).
Oltre a ciò ricordo che qualche tempo fa a Sant’Antioco è stata rinvenuta una lapide funeraria, che contiene una iscrizione etrusca; non mi risulta però che sia stata già interpretata e nemmeno pubblicata (vedi M. Pittau, Il Sardus Pater e i Guerrieri di Monte Prama, I ediz. 2008, II ediz. 2009, Sassari, EDES, pag. 65, fig. 7).
In miei studi precedenti sui “macrotoponimi” della Sardegna avevo sostenuto, circa il toponimo Sulcis (antico nome di Sant’Antioco), una certa tesi, che in parte ho revisionato in una mia opera recente. Oggi ritorno a quella mia tesi iniziale e ciò in virtù del fatto che ritengo di avere decifrato e tradotto un vocabolo etrusco, che compare nel famoso “Libro della Mummia di Zagabria” e del quale do la spiegazione in una mia ampia opera sulla lingua etrusca, di imminente pubblicazione («I Grandi Testi della Lingua Etrusca tradotti e commentati», Carlo Delfino Editore, Sassari 2011). Pertanto la mia tesi ultima sul toponimo e pure sull’insediamento umano dell’antico Sulcis è il seguente.
««Sulcis - Attualmente indica tutta la parte sud-occidentale dell'Isola, mentre nel Medioevo e in età moderna ha indicato una diocesi, che ebbe come capoluogo prima Sant'Antioco, dopo Tratalias e infine Iglesias. In virtù di quest'ultima circostanza il coronimo è citato molto per tempo e numerose volte nei documenti medioevali.
Esso deriva dal nome originario di Sant'Antioco, che è citato come Sulci da Claudiano (V, 518), dall'«Itinerario di Antonino» (84), dalla Tavola Peutingheriana e dall'Anonimo Ravennate; come Sulcis (da interpretarsi come un locativo plur.) è citato da Mela (II, 19); come Sólkoi da Tolomeo (III 3, 3); Soûlchoi da Strabone (V 2, 7); Sylkoi da Pausania (X 17, 9) e da Stefano di Bisanzio; Solkói da Artemidoro, in Stefano di Bisanzio (581,7-8; 591 M s. vv.); Soúlkes da Leone il Saggio (Patrologia Graeca, CVII c. 344).
Io sono dell’avviso che il toponimo sia sardiano o protosardo e sia da connettere con l’appellativo etrusco SULΧVA «solchi» (Liber X 17) (plur.) (da cui dopo è derivato il lat. sulcus) (LEGL 69; DICLE 166).
A mio avviso l’antico insediamento traeva molta della sua importanza dal “solco o canale” o anche dai “solchi o canali” che tagliavano l’istmo che unisce l’isola di Sant’Antioco alla Sardegna propriamente detta, canali che costituivano altrettanti "passaggi" per le navi che costeggiavano la Sardegna, anche per evitare il lungo e pericoloso periplo delle isole di Sant'Antioco e di San Pietro. I «canali» dell'istmo dunque saranno stati più d'uno, in quanto saranno stati usati variamente a seconda del frequente interramento provocato dallo spirare dei venti e dal movimento delle correnti marine. Sul principale di questi canali in età romana è stato costruito quel ponte che rimane tuttora (OPSE 159, 269).
Hanno quasi certamente errato alcuni archeologi recenti che, senza darne alcuna prova, hanno parlato di "istmo artificiale" di Sulci: al contrario l'istmo sembra costituitosi in epoca molto antica, come dimostra anche il fatto che nella sua parte centrale si trovano ancora in posizione eretta due pedras longas o pedras fittas (menhirs) di epoca prenuragica.
A differenza della città di Sulci, nell’antichità l'isola veniva chiamata, come risulta dal geografo greco-alesandrino Tolomeo (III 3, 8), Molibódes nésos «Isola plumbea», evidentemente per i suoi giacimenti di piombo. Ma questa sarà stata la traduzione greca di una precedente locuzione sardiana o protosarda, che ormai a noi risulta sconosciuta»».
Questo avevo scritto riguardo a Sulcis, quando ho avuto la soddisfazione di leggere nella recente opera di Piero Bartoloni, «I Fenici e i Cartaginesi in Sardegna» (Sassari 2009): (pag. 62) «Sulky, certamente di fondazione nuragica», (pag. 81) «abitanti Sulcitani di origine nuragica», (pag. 77) «nome Sulky, forse di origine non fenicia».
Da parte mia aggiungo che nell’isola di Sant’Antioco si trovano tuttora i resti di ben 23 nuraghi, prova evidente che essa era intensamente abitata sia per i suoi giacimenti di piombo sia per l’abbondanza di pesci, compresi i tonni, nelle sue coste.
Fenici e Cartaginesi sono arrivati nell’isola quattro o cinque secoli dopo.
A proposito degli Etruschi mi piace citare un fatto quasi del tutto sconosciuto agli studiosi sardi: nel Lazio è stata rinvenuta una tessera ospitale d’avorio in figura di leone (del sec. VI a. C.), la quale riporta l’iscrizione etrusca ARAZ SILQETENAS SPURIANAS «(tessera) di Arunte Sulcitano (ospite) di Spurianio» (ET, La 2.3 - 6:). SILQETENA(-S) «(di) Sulcitano» è un cognomen masch. in genitivo, da confrontare col lat. Sulcitanus = "nativo od originario di Sulcis" (in Sardegna) (alternanze i/u, e/i, a/e; DICLE 13). I due individui dunque si erano legati da obblighi di reciproca ospitalità nelle rispettive residenze (DETR 375; DICLE 166).
Oltre a ciò ricordo che qualche tempo fa a Sant’Antioco è stata rinvenuta una lapide funeraria, che contiene una iscrizione etrusca; non mi risulta però che sia stata già interpretata e nemmeno pubblicata (vedi M. Pittau, Il Sardus Pater e i Guerrieri di Monte Prama, I ediz. 2008, II ediz. 2009, Sassari, EDES, pag. 65, fig. 7).
venerdì 25 novembre 2011
L'orientamento delle Domus de Janas
di Paolo Littarru
Le evidenze scientifiche dell’orientamento astronomico dei nuraghi, costituiscono ormai un dato di fatto incontrovertibile, oggetto di diversi studi e pubblicazioni internazionali e facilmente verificabile per chiunque volesse.
Ma quando iniziarono gli antichi Sardi ad ammirare la volta stellata e a orientare con gli astri i loro monumenti? L’”ossessione” degli antichi abitanti dell’Isola per l’astronomia nacque improvvisamente con i nuraghe?
Uno studio di Mauro P. Zedda e Juan Antonio Belmonte (direttore dell'IAC e presidente della SEAC), pubblicato nel 2007, ci rivela interessantissimi dettagli di un’”astronomia” prima dei nuraghi.
Le oltre 2000 tombe ipogee dette Domus de Janas costituiscono la più importante testimonianza del periodo tardo neolitico (3800-2900 a.C. c.d. “cultura di Ozieri), possono trovarsi isolate, in piccoli gruppi o addirittura in vere e proprie necropoli. In molti casi sono decorate con incisioni o con meravigliosi dipinti rosso ocra. Il motivo più ricorrente sono le corna di toro, diversamente stilizzate, isolate o in sequenza.
Zedda e Belmonte, nel loro studio, passano in rassegna l’orientamento di 300 Domus de Janas in tutta l’Isola. L’istogramma degli orientamenti mostra dei picchi ben precisi ed evidenzia in modo nettissimo una distribuzione non casuale:
- un primo importante picco di frequenze è centrato sul Sud;
- un secondo picco sull’Est ed un terzo sugli azimut all’incirca corrispondenti al solstizio d’inverno
- pochissime sono le Domus orientate a Nord, dove il sole non splende.
Incredibilmente lo studio di 85 Tombe a Pozzetto della Sicilia (località Tanchina, Rocazzo e Capaci), coeve alle Domus de Janas Sarde, mostra un istogramma degli orientamenti assolutamente simile a quello delle Domus sarde (principale picco di azimuth poco prima del Sud, picco associato al solstizio d’inverno, minimo delle frequenze dopo il tramonto del solstizio d’inverno).
Zedda e Belmonte ritengono che questa similitudine non sia casuale ma possa essere indicativa di un qualche contatto tra i costruttori.
Molto simile alle Domus sarde anche l’orientamento delle tombe tunisine dette Hawanat, datate però al primo millennio a.C., il che permette di escludere un contatto tra le due civiltà.
Un’analisi più approfondita degli orientamenti delle Domus de Janas è stata ottenuta calcolando la declinazione degli orientamenti e dividendo le Domus in due gruppi, a Nord e a Sud del 40° parallelo.
I risultati sono ancor più sorprendenti:
- un cumulo di frequenze per le “basse” declinazioni (ca. -45°);
- un accumulo di frequenze sul solstizio d’inverno (principalmente per le Domus “meridionali”);
- un accumulo di frequenze sul solstizio estivo (principalmente per le Domus “ settentrionali”).
Ma la scoperta più suggestiva, relativa alle Domus de Janas sarde, è che il picco ad Est del diagramma degli azimuth, da luogo a un insieme di picchi di declinazione compatibili nel tempo con le Pleiadi e le Iadi, i più importanti asterismi della costellazione del Toro. Le Iadi costituiscono proprio la testa del Toro.
Che esista un nesso tra la testa del Toro celeste a cui guardano le Domus e le corna taurine raffigurate al loro ingresso?
Non lo sappiamo con certezza. Dovremmo sapere se davvero gli antichi Sardi vedevano già un Toro nella costellazione in cui noi lo vediamo ora.
L’identificazione della costellazione del Toro con un toro è molto antica, certamente risalente al Calcolitico e forse al tardo Paleolitico. Michael Rappenglück dell’Università di Monaco, ritiene che la costellazione del Toro sia addirittura rappresentata nella “Sala dei Tori” delle grotte di Lascaux (datate ca. al 15.000 a.C.) Di sicuro lo vedevano gli antichi Greci, per i quali Zeus assunse la forma di Toro per vincere Europa, una principessa fenicia.
Ma è suggestivo il fatto che davanti alla stupenda necropoli di Sant’Andrea Priu, campeggi un magnifico Toro, scolpito nella roccia, orientato con il tramonto delle Iadi nella prima fase della Cultura di Ozieri (3500 a.C.): oltre 1500 anni prima dei nuraghi, gli antichi Sardi contemplavano il cielo stellato.
Le evidenze scientifiche dell’orientamento astronomico dei nuraghi, costituiscono ormai un dato di fatto incontrovertibile, oggetto di diversi studi e pubblicazioni internazionali e facilmente verificabile per chiunque volesse.
Ma quando iniziarono gli antichi Sardi ad ammirare la volta stellata e a orientare con gli astri i loro monumenti? L’”ossessione” degli antichi abitanti dell’Isola per l’astronomia nacque improvvisamente con i nuraghe?
Uno studio di Mauro P. Zedda e Juan Antonio Belmonte (direttore dell'IAC e presidente della SEAC), pubblicato nel 2007, ci rivela interessantissimi dettagli di un’”astronomia” prima dei nuraghi.
Le oltre 2000 tombe ipogee dette Domus de Janas costituiscono la più importante testimonianza del periodo tardo neolitico (3800-2900 a.C. c.d. “cultura di Ozieri), possono trovarsi isolate, in piccoli gruppi o addirittura in vere e proprie necropoli. In molti casi sono decorate con incisioni o con meravigliosi dipinti rosso ocra. Il motivo più ricorrente sono le corna di toro, diversamente stilizzate, isolate o in sequenza.
Zedda e Belmonte, nel loro studio, passano in rassegna l’orientamento di 300 Domus de Janas in tutta l’Isola. L’istogramma degli orientamenti mostra dei picchi ben precisi ed evidenzia in modo nettissimo una distribuzione non casuale:
- un primo importante picco di frequenze è centrato sul Sud;
- un secondo picco sull’Est ed un terzo sugli azimut all’incirca corrispondenti al solstizio d’inverno
- pochissime sono le Domus orientate a Nord, dove il sole non splende.
Incredibilmente lo studio di 85 Tombe a Pozzetto della Sicilia (località Tanchina, Rocazzo e Capaci), coeve alle Domus de Janas Sarde, mostra un istogramma degli orientamenti assolutamente simile a quello delle Domus sarde (principale picco di azimuth poco prima del Sud, picco associato al solstizio d’inverno, minimo delle frequenze dopo il tramonto del solstizio d’inverno).
Zedda e Belmonte ritengono che questa similitudine non sia casuale ma possa essere indicativa di un qualche contatto tra i costruttori.
Molto simile alle Domus sarde anche l’orientamento delle tombe tunisine dette Hawanat, datate però al primo millennio a.C., il che permette di escludere un contatto tra le due civiltà.
Un’analisi più approfondita degli orientamenti delle Domus de Janas è stata ottenuta calcolando la declinazione degli orientamenti e dividendo le Domus in due gruppi, a Nord e a Sud del 40° parallelo.
I risultati sono ancor più sorprendenti:
- un cumulo di frequenze per le “basse” declinazioni (ca. -45°);
- un accumulo di frequenze sul solstizio d’inverno (principalmente per le Domus “meridionali”);
- un accumulo di frequenze sul solstizio estivo (principalmente per le Domus “ settentrionali”).
Ma la scoperta più suggestiva, relativa alle Domus de Janas sarde, è che il picco ad Est del diagramma degli azimuth, da luogo a un insieme di picchi di declinazione compatibili nel tempo con le Pleiadi e le Iadi, i più importanti asterismi della costellazione del Toro. Le Iadi costituiscono proprio la testa del Toro.
Che esista un nesso tra la testa del Toro celeste a cui guardano le Domus e le corna taurine raffigurate al loro ingresso?
Non lo sappiamo con certezza. Dovremmo sapere se davvero gli antichi Sardi vedevano già un Toro nella costellazione in cui noi lo vediamo ora.
L’identificazione della costellazione del Toro con un toro è molto antica, certamente risalente al Calcolitico e forse al tardo Paleolitico. Michael Rappenglück dell’Università di Monaco, ritiene che la costellazione del Toro sia addirittura rappresentata nella “Sala dei Tori” delle grotte di Lascaux (datate ca. al 15.000 a.C.) Di sicuro lo vedevano gli antichi Greci, per i quali Zeus assunse la forma di Toro per vincere Europa, una principessa fenicia.
Ma è suggestivo il fatto che davanti alla stupenda necropoli di Sant’Andrea Priu, campeggi un magnifico Toro, scolpito nella roccia, orientato con il tramonto delle Iadi nella prima fase della Cultura di Ozieri (3500 a.C.): oltre 1500 anni prima dei nuraghi, gli antichi Sardi contemplavano il cielo stellato.
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