lunedì 13 giugno 2016
sabato 21 maggio 2016
L'incubazione Sarda presso gli Eroi
di Alessandro Mannoni
Il post di Mauro Zedda sul Rito
dell’incubazione nell’epoca nuragica (7 marzo 2016) mi sollecita a ritornare
sull’argomento che avevo già diffusamente trattato in un ampio capitolo del mio
libro “Religione e spiritualità nella Sardegna Nuragica” (Mannoni 2014).
Le ragioni che consentono di
escludere con ragionevole certezza l’uso a fini incubatori delle tombe dei
giganti nuragiche sono tre.
Le prime due le ha nuovamente
riassunte Zedda nel suo scritto:
1)
tecnicamente risulta poco praticabile l’utilizzo
di uno spazio aperto, quale quello fornito dall’esedra della tomba dei
giganti, per un rito che prevedeva un
sonno indisturbato e della durata addirittura di più giorni. Nelle altre
regioni della Grecia e del Medio Oriente dove si praticava tale rito, ad esso
erano sempre destinati dei locali chiusi o delle grotte, luoghi protetti da
intemperie, animali, presenze o rumori che sarebbero riusciti di disturbo o di
ostacolo alla completa esecuzione del rito.
2)
la cronologia non coincidente che confuta
l’attribuzione di un fenomeno religioso, descritto in ambito greco solo a
partire dal IV secolo a. C., ad una struttura tombale il cui uso termina con
certezza almeno 700/800 anni prima. L’incubazione sarda di cui parla
Aristotele, e con lui i suoi tardi commentatori, non può che essere un fenomeno
osservato e raccontato dai viaggiatori e colonizzatori greci che solcavano il
mediterraneo occidentale nel I° millennio a.C. e non precedentemente.
La terza però mi appare come
decisiva. Tutte le fonti antiche che trattano l’argomento, sia greche che
latine, pur nella loro estrema sinteticità concordano su un fatto: i luoghi
presso cui viene effettuato il rito appartengono ad “eroi” e non a comuni
defunti. Non si parla di avi o antenati generici, ma sempre e solo di alcuni,
pochissimi, eroi. Conseguenza sicura di tale fatto è l’esclusione dal rito
incubatorio delle tombe dei giganti, in quanto sepolture collettive di comuni
defunti, per giunta diffusissime sul territorio.
Se poi si aggiunge che tali eroi,
secondo le fonti più tarde, apparivano come “dormienti” nel santuario loro
dedicato, si capisce come tali salme, probabilmente imbalsamate, dovessero
essere ospitate in ben altri luoghi che le tombe dei giganti.
La distinzione cultuale tra eroi e normali defunti sembra però
un punto che continua ad essere ignorato o trascurato dagli studiosi che si
sono occupati dell’argomento, quasi si trattasse di un fatto irrilevante ai
fini della comprensione del fenomeno.
In effetti comincia con l’iniziale studio del Pettazzoni
sulla religione primitiva in Sardegna (Pettazzoni 1912) l’associazione tra
l’incubazione sarda e la pratica del sonno presso le tombe degli antenati morti
per ottenere visioni e oracoli diffusa tra le antiche popolazioni libiche dei
Nasamoni e degli Augili (descritta da
Erodoto, Pomponio Mela e Plinio il Vecchio), i quali, con le parole dello
stesso Pettazzoni, “non avevano altra religione che la religione dei morti”.
Tale associazione è stata poi riproposta dagli autori successivi, sino al
recente studio di Attilio Mastino, che pur focalizzando esplicitamente la sua analisi
proprio sul “sonno terapeutico davanti agli eroi”, tanto da ambientare il rituale
non più presso le tombe dei morti, le tradizionali tombe dei giganti, ma nei
templi, ed in particolare davanti alle statue dei giovani eroi guerrieri del
santuario di Mont’e Prama, in conclusione però finisce per riproporre il
consueto abbinamento, propendendo, sempre sulla scia del Pettazzoni, per una
decisiva influenza nordafricana sull’usanza sarda, e contraddicendo, in tal modo, la sua stessa
ipotesi interpretativa (Mastino, Aristotele e la natura del tempo: la pratica
del sonno terapeutico davanti agli eroi della Sardegna, 2015).
Questo accostamento mi pare invece
fraintenda un dato religioso che ha notevole valenza e che forse si può
intendere meglio con un esempio adeguato ad un pubblico più abituato alle forme
religiose del cattolicesimo che a quelle arcaiche: in sostanza sarebbe come se,
per la richiesta di grazia, un cristiano malato si affidasse non alla Madonna,
a S.Antonio o a Padre Pio, ma alla buonanima della trisnonna defunta!
Presso molte culture dell’antichità
gli eroi, a differenza dei comuni mortali, erano individui con un destino,
anche post mortem, radicalmente diverso, e quindi in grado di intervenire
salvificamente presso i fedeli che li interpellavano. E che i protagonisti del
culto sardo fossero eroi lo asseriscono esplicitamente, ripeto, tutte le fonti
greche e latine al riguardo, a partire dalla prima testimonianza aristotelica;
fonti che invece, quando si riferiscono alle popolazioni nordafricane dei
Nasamoni e Augili, non hanno difficoltà a parlare esclusivamente di antenati e
morti comuni (progonoi, manes, inferos), la cui divinizzazione,
nel mondo classico, aveva però un carattere collettivo e indistinto, mai
individuale come nel caso degli eroi.
E, indirittamente, proprio
Pettazzoni sembra mostrarlo con la sua ricca casistica di confronto
dell’usanza, dal momento che al di fuori degli esempi del Nordafrica, tutti gli
altri avanzati, sino alla sopravvivenza in ambito cristiano, hanno a che fare
con specifici eroi, divinità o santi e mai generici e banali defunti
(Pettazzoni 1912, pag.152 e seg.).
La comunanza di finalità
(terapeutica) e di tecnica (il sonno) utilizzate in Africa e in Sardegna quindi
non mi pare consenta un’assimilazione indebita tra le figure interpellate nel
rito.
Anche la messa in discussione
della validità delle fonti classiche stesse, dirette, si sostiene, con la loro
interpretazione culturalmente e politicamente interessata del rito sardo a
riportare ai greci e ai loro eroi ogni degna espressione civile, o tramite i
Troiani a convalidare arcaiche connessioni tra sardi e romani (Didu 2003 –
Baglivi 2005 – Mastinu 2014), non mi
pare possa essere del tutto giustificata: non solo perché viene applicata
esclusivamente alla lettura delle fonti sui sardi, ma non a quella di altre
popolazioni come quelle Nordafricane, mai “viziate” da distorsioni
interpretative; ma anche perché le testimonianze classiche sono le uniche che
abbiamo sul fenomeno, l’unico dato scritto grazie al quale abbiamo notizia di
questa pratica che altrimenti avremmo ignorato del tutto. Testimonianza non
sostituibile con dati archeologici o comparativi, assolutamente insufficienti,
da soli, a far luce sull’usanza in questione.
Come poi possa apparire mero
frutto di una rilettura a posteriori di epoca classica un culto degli eroi (al
di là della loro specifica identificazione) in una civiltà, quale quella sarda
del bronzo finale e del ferro, che ha prodotto una bronzistica e una statuaria
unica avente ad oggetto privilegiato proprio le figure di giovani guerrieri,
non si riesce a comprendere.
Escluse pertanto le tombe dei
giganti quali potevano essere i luoghi preposti al rito? Forse alcuni nuraghi
complessi già a partire dall’epoca nuragica e con un utilizzo cultuale
prolungatosi per buona parte del I° millennio, come Pittau, Baglivi e infine
Zedda suppongono?
Tenderei ad escluderlo per una
serie di ragioni: culturali innanzitutto. La pratica incubatoria sembra
espressione delle culture diffuse nel bacino del mediterraneo, orientale e
nordafricano, ma non del continente europeo, con cui la civiltà nuragica aveva
probabilmente maggiori affinità.
Ma soprattutto l’ideologia
religiosa sottesa al culto degli eroi, anche per quanto detto prima, è distante
dalla visione antropologica e dall’organizzazione sociale probabilmente
egualitaria della cultura nuragica in senso stretto (Zedda 2009) e soprattutto dalla
sua visione del sacro, dove probabilmente non era ancora presente quel processo
di antropomorfizzazione e specializzazione delle forme divine che invece
diventerà tipico della cultura post nuragica che inizia ad emergere tra la fine
del II° e l’inizio del I° millennio a.C.
Molto più sostenibile mi sembra quindi
la localizzazione all’interno di heroon
presenti in alcuni di quei santuari “federali”, come l’archeologia sarda li ha
spesso definiti, che compaiono alla fine della civiltà nuragica vera e propria
e appartengono a una fase religiosa e culturale differente della storia sarda,
come ho cercato di mostrare nel mio libro (Mannoni 2014).
Se Mastinu ipotizza una tale
destinazione per il santuario di Monte Prama, Pittau pensava ad un utilizzo anche
incubatorio delle stanzette del recinto di Santa Vittoria di Serri, mentre nel
mio lavoro immaginavo un’analoga funzione per il santuario di Su Romanzesu a
Bitti.
sabato 14 maggio 2016
Pinuccio Sciola
E’ morto un grande artista internazionale.
E’ morto un grande sardo.
Dai pochi incontri che ebbi, fino alla telefonata di una
quindicina di giorni fa, ne sono sempre uscito confuso, spiazzato, privo delle
poche certezze che pensavo di possedere.
Mi ha raccontato, proprio nell’ultima, lunghissima
telefonata, della sua dimostrazione, di fronte ad un consesso romano di
cardinali nella basilica di San Pietro in Vincoli, che il Mosè di Michelangelo, per quanto sollecitato,
non avrebbe potuto parlare, semplicemente perché la struttura saccaroide del
marmo di Carrara, non può mettere in vibrazione la pietra a causa della sua
discontinuità molecolare.
Esso rimane muto e la richiesta di Michelangelo “Perché non
parli?” era destinata a non aver risposta. Prima di questa telefonata avevo
commentato con Lui alcuni passi di un libro di F. Guarducci “Teoria, il divino
oltre il dogma” in cui l’autore dedica diverse pagine al suono che ancora
pervade l’universo, energia sprigionata dal Big Bang. La pietra è energia
solidificata. Per tutte le religioni, a partire da quelle greche, mitratica,
islamica, vedalica, la pietra è sempre stata sacra. Il Maestro rivendicava la
capacità di richiamare quei suoni siderali e arcani, qualcosa in più e diverso
dal teorizzarne la presenza. E come si inalberava se solo cercavo di esporgli
il mio pensiero sulla trasmissione del suono dovuto alla vibrazione delle
sottili lame di pietra da lui sollecitate con ieratica convinzione.
Ero riuscito, in questa recente telefonata, a convincerlo a
venire il prossimo 22 giugno al Parco archeologico di Santa Cristina a
Paulilatino a parlarci del suo progetto di trasformare la Carlo Felice in un
museo della pietra all’aperto, aggiungendo alle tante preesistenze, nuraghi,
tombe di giganti, pozzi e dolmen, sculture di artisti di tutto il mondo, che
lui conosceva e pronti a regalare saggi della loro arte.
Non so, a questo punto, se completare l’organizzazione del
seminario, mancandone l’anima. Ma potrebbe essere anche occasione per ricordare
il Suo contributo all’arte scultoria e non solo.
Ciò che devo a Pinuccio è di avermi fatto capire che l’arte
nuragica si può capire solo abbandonando la concezione lineare del tempo ed
avvicinandosi alla concezione circolare del tempo, dell’eterno ritorno ab
inizio, e pertanto una statua di Fidia –i greci avevano una concezione
lineare del tempo- cristalizza l’attimo fuggente, intuisci ciò che c’era prima
e ciò che verrà dopo la fissazione dell’attimo. Per l’arte nuragica ciò che
conta non è l’attimo, bensì l’iterazione del gesto, dell’azione o dell’evento.
Questioni sottilissime di psicogenesi dell’Arte, che il maestro trattava con la
naturalezza che ogni grande artista possiede senza scomodare dimostrazioni
scientifiche, ma forte di intuizione e introspezione propria di chi vive
proiettato in dimensioni concesse a pochi mortali.
Scompare con Pinuccio Sciola uno dei grandi protagonisti
dell’arte che ha culla in Sardegna, come Antine Nivola, Maria Lai e Mario
Delitala.
Franco laner
Venezia, 14 maggio 2016
domenica 1 maggio 2016
Guido Cossard tra tori e bufale
di Mauro Peppino
Zedda
Nell’Aprile scorso Guido Cossard in una conferenza tenuta a
Cagliari ha tessuto le lodi alla proposta del toro di Luce dei GRS e a quella di Adriano Gaspani sull’orientamento
di una tomba di giganti verso Aldebaran, la stella più luminosa della
costellazione del Toro.
La sera in cui si svolse la conferenza, non vi fu il tempo
per discutere la questione, chiesi dunque in privato chiarimenti a Cossard
che confermò quanto espose in pubblico.
Ritengo che l’approccio di Cossard all’archeoastronomia sia
viziata da superficialità, mi pare che non riesca a distinguere tra una
proposta scientifica seria e una semplice corbelleria astronomica.
Alcuni anni fa, Adriano Gaspani pubblicò un articolo dove
sosteneva che la tomba Thomes di Dorgali fosse orientata verso il punto in cui
sorgeva Aldebaran nel 1500 a.C.
Non so se Gaspani condivide ancora quella sua proposta, non
so se abbia compreso che ragionare sull’orientamento di una singola tomba di
giganti e trovare la stella che vi sorgeva in fronte rappresenti un’operazione scientificamente
sbagliata.
L’approccio di Adriano Gaspani palesemente erroneo anche se non fossero esistiti studi precedenti, può configurarsi come una colossale corbelleria
visto che non tenne conto che esistevano pubblicazioni (Hoskin e Zedda in
Archaeoastronomy , supplemento del Journal for the History of Astronomy) che
avevano ben dimostrato che non esistevano le condizioni per indicare che le
tombe di giganti fossero orientate verso target stellari.
Prendendo in esame l’ingresso di un qualsiasi edificio, compresa
l’abitazione di Cossard,si troverà che è
orientato verso il sorgere o il tramontare di qualche stella… ma se si prende
in esame un singolo monumento indicando il suo target stellare si sta producendo
solo una pestifera azione di tecnica astronomica priva di scientificità.
Quando si vuole studiare l’orientamento di una tipologia di
monumenti bisogna studiare un campione significativo, e, stabilito il range e
il picco delle frequenze, tentare un’interpretazione.
La pubblicazione di Gaspani sulla tomba di Thomes è il
classico esempio di cattiva archeoastronomia e dispiace che Guido Cossard non
lo capisca.
Non mi interessa entrare nel merito delle proposte
complessive di Gaspani, ma non posso esimermi dal segnalare che non trovo
spiegazioni logiche al fatto che questo astronomo nel denominare i punti di
arresto lunari si sia inventato nuove definizioni. Nel panorama scientifico
internazionale i punti di arresto lunari vengono distinti in settentrionali e
meridionali e in maggiori, medi e minori.
Gaspani li individua invece in superiori e inferiori e in estremi e
intermedi. Trovo incomprensibile che Gaspani si sia dedicato a modificare le
terminologie (nessun studioso serio ha accolto la sua proposta), non si rende conto che la sostituzione del termine minore con
intermedio crea confusione, il lunistizio minore non è intermedio di
alcunchè, è un estremo minore per
l’appunto. È noto che i lunistizi
intermedi sono tutti quelli compresi tra il maggiore e minore, mi sembra
banale. Ed infatti il lunistizio medio meridionale e settentrionale, che Gaspani
sembra non conoscere, corrisponde a quello posto tra il maggiore e minore.
E veniamo alla questione del toro di luce. Sinceramente
non capisco come mai Guido Cossard si sia lasciato convincere dalle corbellerie
che sulla questione scrivono Gigi Sanna e i GRS.
Come noto i nuraghi sono costruiti con conci sbozzati e
dunque le finestrelle che caratterizzano i nuraghi possono andare a formare
fasci di luce più o meno corniformi, la cosa fu notata da Franco Laner negli
anni novanta quando si dedicò a studiare i cosiddetti finestrini di scarico,
ragionammo sulla questione, e dopo aver osservato che nell’apparecchio costruttivo dei finestrini
non vi è nessuna lavorazione particolare che potesse attestare l’intenzionalità
del fenomeno, concludemmo che nei casi in cui si verificava la formazione di un
fascio di luce approssimativamente tauriforme fosse conseguente al sistema
costruttivo, un sistema costruttivo realizzato con conci sbozzati.
Alcuni anni fa la questione è stata proposta all’attenzione dai GRS nell’orribile
libro Il Toro di Luce, mettendo in risalto il caso del Santa Barbara di
Villanova Truschedu. In questo nuraghe il fenomeno luminoso taurino viene
esaltato dal parziale sgretolamento dei conci che fanno da stipiti al
finestrino di scarico.
I GRS oltre ad aver proposto la tesi che i finestrini siano
costruiti in modo funzionale alla realizzazione del fascio di luce taurinoforme, hanno proposto un’inesistente connessione col solstizio d’inverno
basandosi sul fatto che si recano al solstizio d’inverno (alcune ore dopo che
il sole è sorto) a fare l’osservazione. Il Sole attraversa l’asse d’ingresso
dei nuraghi tutti i giorni dell’anno e postulare una connessione del fenomeno
luminoso col solstizio d’inverno è una grossolana corbelleria senza nessun
fondamento.
Nel Santa Barbara il fenomeno del fascio di luce tauriforme
ha un fortissimo impatto scenografico. Ma il finestrino del Santa Barbara è
stato soggetto a delle fratture delle sue parti componenti, sia nei conci che
gli fanno da stipite che nell’architrave superiore al finestrino. Dunque è un
caso che non si dovrebbe prendere a prova.
Nelle foto possiamo osservare che il paramento esterno del
nuraghe ha avuto un assestamento strutturale, con la fratturazione di una serie
di conci. Ve ne segnalo tre, quello dove
poggia l’architrave dell’ingresso, l’architrave del finestrino e infine vi è una frattura molto accentuata (ampia una ventina di centimetri) nel concio collocato
due filari sopra l’architrave del finestrino. In pratica vi è una linea di
cedimento e di frattura che attraversa in diagonale il finestrino.
Altre lesioni meno “fotogeniche” ma facilmente osservabili in
sito sono riscontrabili nelle parti interne dei conci che costituiscono gli
stipiti del finestrino.
Insomma il caso del Santa Barbara rappresenta un caso che
non può essere utilizzato al fine di dimostrare l’intenzionalità del fenomeno
del toro di luce. Degli studiosi seri dovrebbero capire che le lesioni strutturali interessano parti inerenti la conformazione del dettaglio strutturale su cui si basa la tesi che si vuol dimostrare e concludere che il caso in
esame non fa testo.
Solo degli sprovveduti o persone aliene al metodo
scientifico possono lasciarsi incantare dai giochi di luce del Santa Barbara.
sabato 26 marzo 2016
Sulla geometria della cupola del nuraghe Is Paras
di Paolo Littarru
La geometria astronomica della cupola del nuraghe Is Paras di Isili venne
illustrata da Mauro Peppino Zedda nel
suo I NURAGHI IL SOLE LA LUNA (1992). Una questione che ripropose anche in
pubblicazioni successive (I Nuraghi tra Archeologia e Astronomia 2004,
Archeologia del Paesaggio Nuragico 2009 e Astronomia nella Sardegna Preistorica
2013).
Le misurazioni di Zedda misero in luce che il rapporto base/altezza della
cupola possiede un'armonia astronomica, infatti la linea passante tra il foro
apicale e il perimetro di base della cupola, forma un angolo di 16° circa
rispetto alla verticale. Un angolo identico all’angolo compreso tra la
verticale e il punto che Il Sole raggiunge al solstizio d’estate quando attraversa
il meridiano (ovviamente alla latitudine di Isili).
Questo studio di Zedda fu ripreso da Michael Hoskin e Juan Antonio Belmonte
nel libro Reflejo del Cosmos, Atlas de Arqueoastronomia del Mediterraneo
Antiguo 2002, poi da Clive Ruggles in
Ancient Astronomy 2005, e infine dallo stesso Ruggles sul recente recente Handbook of Archaeoastronomy and Ethnoastronomy edited by C.
Ruggles (Springer, New York 2014), stato dell’arte dell’archeoastronomia
mondiale.
In un capitolo dell’Handbook “Nature
and Analysis of Material Evidence Relevant to Archaeoastronomy”, Ruggles, docente
emerito all’università di Leicester e presidente della Prehistoric Society,
così descrive la magnifica cupola del Nuraghe Is Paras di Isili, il cui
rapporto base altezza, funzionale alla collimazione del passaggio del sole al
meridiano al solstizio d’estate, messo in evidenza da Zedda:
“Is Paras, a Bronze Age nuraghe (drystone tower) in Sardinia,
illustrates some of the principal methodological and interpretive issues that
arise in a prehistoric context. Its central chamber has a corbelled roof rising
to an incredible 11.5 m in height, with a small round opening, ca 40 cm across,
at the apex. Around the middle of the day, sunlight enters the chamber and
casts a dagger of light onto the northern chamber wall. This moves in a
“U”-shaped curve, reaching its lowest point at noon. On the summer solstice,
the bottom of the dagger reaches down to the lowest layer of stones, within 2
cm of the floor, spending about 20 min moving across on this level before
discernibly starting to rise up again (Belmonte and Hoskin 2002, pp. 185–188;
Zedda 2004, pp. 24–34, 55–56). Should
this phenomenon be dismissed out of hand because nothing like it has been
discovered at any other nuraghe, even though almost 7,000 of them remain in the
Sardinian landscape (omissis)?”
In merito al concio che fu posto dalla
Soprintendenza per “tappare” il foro apicale e fugare, nell’intenzione della
soprintendenza stessa, eventuali interpretazioni del monumento in chiave
astronomica, così si esprime Ruggles
“Or because a small stone discovered on top of the tower suggests that
the hole was covered, at least for some of the time? Or are these doubts
outweighed by the fact that the light dagger reaches so close to the floor
without actually touching it – surely an
incredible coincidence if unintentional? There is no general agreement as
to how to answer such questions.”
Al momento della sua costruzione, la cupola del
nuraghe Is Paras, può essere forse considerata come una delle più sofisticate
al mondo, forse la più sorprendente dell’antichità fino all’edificazione del
Pantheon.
Il concio apposto dagli archeologi della
soprintendenza di Sassari e Nuoro per tapparla deve essere rimosso, ad fortiori
in quanto simbolico di un paradigma errato che ha stravolto l’interpretazione
dei nuraghi confinandoli in una rozza e banale destinazione d’uso militare.
Nuove ricerche devono essere intraprese
sull’interpretazione del rapporto base altezza del nuraghe al fine di
sviscerarne la funzionalità astronomica, che potrebbe andare oltre la sua
geometria sintonizzata sulla massima altezza dl Sole (passaggio del Sole in
meridiano al Solstizio estivo). Studi sulla scia di quelli condotte da Arnold
Lebeuf sulla cupola del pozzo di Santa Cristina (Il Pozzo di SantaCristina, un
osservatorio lunare).
lunedì 14 marzo 2016
Piombatoia o cella oracolare?
di Mauro Peppino Zedda
Nei primi quarant’anni del secolo scorso l’archeologia della
Sardegna fu caratterizzata dal dominio incontrastato di Antonio Taramelli,
mentre Giovanni Lilliu fu il dominus dei
successivi sessant’anni. Taramelli era coadiuvato da alcuni bravissimi disegnatori
e squadre di operai armati di piccone. Mentre Lilliu fece nascere la scuola
archeologica sarda, forgiata a sua immagine e somiglianza.
Come ho provato a spiegare in Archeologia del Paesaggio
Nuragico (2009), penso che Taramelli abbia espresso un’archeologia,
epistemologicamente, figlia dei suoi
tempi, mentre Giovanni Lilliu restò
attardato ai dettami dell’archeologia degli anni della sua formazione (anni ’30
e ’40). Purtroppo Lilliu non riuscì a cogliere i dettami della archeologia
processuale, post processuale, cognitivo processuale che si affermarono,
progressivamente, nelle migliori scuole di archeologia del mondo a partire
dagli anni ’60, e restò per tutta la vita ancorato alla sua archeologia
storico-culturale.
Taramelli può essere considerato come l’archeologo che ha
imposto la teoria del nuraghe fortezza con i nuraghi che servivano per difendersi dei nemici interni (nuragici
stessi) ed esterni (punici e romani).
Lilliu restò ancorato alla proposta di Taramelli sino alla
metà degli anni sessanta. E ancora non riesco a spiegarmi come mai nello scavo
del nuraghe di Barumini interpretò il rifascio come un espediente costruttivo
finalizzato a consolidare il nuraghe per resistere alle macchine d’assedio
(ariete ed altro) dei cartaginesi (vedi Civiltà dei sardi 1963). In realtà il rifascio dovrebbe risalire al
Bronzo Recente (1350-1150 aC), come abbia potuto compiere un errore così madornale non riesco a
comprenderlo, se non fosse il grande archeologo che decantano i suoi discepoli
mi verrebbe da pensare che fosse uno sprovveduto (nello scavo e nella lettura
delle stratigrafie), almeno relativamente ai tempi in cui scavò Su Nuraxi di
Barumini.
Ma torniamo a Taramelli e sentiamolo nella sua
argomentazione in cui cerca di spiegare la funzione delle cellette poste sopra
il corridoio d’ingresso di una particolare tipologia di nuraghe.
Scrisse Taramelli:
“I lavori di scavo
misero in evidenza un’altra piccola scaletta, la quale dall’alto del piano
superiore o terrazza che fosse , scendeva, in direzione opposta a quella della
scala principale, stretta e ripida, ad una piccola celletta, a pianta ellittica
a volta in aggetto, chiaramente visibile nella sezione a fig. 1 in alto. Questa
cella era praticata nello spessore della robusta muratura del nuraghe, sopra al
corridoio di accesso alla camera principale e del pavimento di essa, che
formava appunto il soffitto dell’andito, era praticato un foro il quale doveva
servire come spia o come piombatoia per osservare e colpire dall’alto chi fosse
entrato oltre alla soglia della porta della torre nuragica. Tale disposizione difensiva, che ha
notevole importanza come elemento atto a chiarire lo scopo della costruzione
nuragica, fu già osservata in altri nuraghi, come il nuraghe Mannu presso
Ozieri, ma doveva essere abbastanza frequente nei nuraghi, il che spiega la
frequenza delle cellette, generalmente di modeste dimensioni, che sono
praticate all’interno della compagine del muro, al di sopra dell’andito di ingresso
alla camera principali…
Ricordo di aver
osservato recentemente tali esempi nel nuraghe Bonora, presso Bulzi, ed a poca
distanza da questo, nel nuraghe di s. Giorgio che domina la rupe trachitica di
fronte alla chiesa medievale di quel nome, presso Perfugas. Ma nel nuraghe di
S. Barbara, grazie al lavoro di scavo, è più evidente ed istruttivo che non in
tutti gli altri casi questo
provvedimento difensivo, che precede la piombatoia dei monumenti medievali.
Come si vede dalla nitida sezione dovuta al sign. Berretti, dalla celletta
sopra l’andito la scala continua sino a raggiungere la scala continua sino a
raggiungere la scala principale; in modo
che il difensore aveva a disposizione un’altra via di scampo, quando fosse
stato sorpreso o sopraffatto dall’assalitore. (Il nuraghe Santa Barbara,
1916)."
Non posso fare a meno di esplicitare che ritengo assurdo il ragionamento che ha portato Taramelli a sostenere che quella celletta fosse una
piombatoia che rappresenterebbe una disposizione difensiva, che ha notevole
importanza come elemento atto a chiarire lo scopo della costruzione nuragica..
Le assurde fantasie di Taramelli vennero prese per buone dal
Lilliu, che fu più realista del Re e teorizzò pure i nuraghi trappola! Le
assurde spiegazioni di Taramelli e Lilliu regnarono incontrastate sino al 1977, cioè sino alla demolizione
delle teoria del nuraghe fortezza che Massimo Pittau presentò nel libro La
Sardegna Nuragica. In seguito alle
severe critiche del Pittau (1977) , Lilliu tolse dalle successive edizioni del
suo La Civiltà dei Sardi, tutte le risibili osservazioni a sostegno di un
utilizzo militare, da quel momento la sua teoria diventava un dogma piuttosto
che una maldestra ipotesi scientifica.
Per la celletta in questione Pittau ipotizzò che fosse il
luogo in cui la Pizia nuragica leggeva l’oracolo, insomma una specie di antro
della sibilla, una sibilla nuragica.
Che nel mondo nuragico si praticasse l’oracolo non credo che
qualcuno lo voglia negare, mentre sul dove e sul come l’oracolo si esplicava vi
è tanto da fare.
Quella di Pittau è una ipotesi verosimile mentre quella di
Taramelli e Lilliu è una madornale sciocchezza. Sostenere che, con il nuraghe ormai “conquistato”, potesse servire a qualcosa l’espediente che
qualcuno si nascondesse in quella celletta per abbattere il nemico ormai padrone
del nuraghe è solo una madornale sciocchezza.
Prima dei dottori in Lettere Antiche Taramelli e Lilliu, la
Sardegna nuragica ebbe la fortuna di essere studiata dal geografo Alberto Ferrero de La Marmora, già ufficiale
dell’esercito del Regno di Sardegna, che escluse per i nuraghi una funzione
militare, sarebbe epistemologicamente interessante comprendere le ragioni per le quali Taramelli e Lilliu non
prestarono attenzione alle esemplari osservazioni di de La Marmora e si inventarono una serie di irreali proposte
per avvalorare l’ipotesi del nuraghe fortezza.
Comunque sia le innocenti proposte di Lilliu e Taramelli sono
sempre meglio di chi, tra i loro discepoli, immagina che lo spazio delle
meravigliose cupole nuragiche fosse finalizzato ad appendere i salami!!!
lunedì 7 marzo 2016
Il rito dell’incubazione in epoca nuragica
di Mauro Peppino Zedda
Pare certo che nella Sardegna nuragica si praticasse il rito
dell’incubazione.
Una ritualità consistente nel dormire presso un luogo sacro,
in attesa di sogni rivelatori.
Una pratica religiosa strettamente connessa col culto degli
antenati.
Del rito dell’incubazione in Sardegna ne parla per primo
Aristotele, commentando l’usanza dei Sardi di “dormire presso gli eroi”, e
Filipono, suo commentatore, aggiunge che ciò avveniva anche per cinque giorni.
Lo storico delle religioni Raffaele Pettazzoni fu il primo
che provò a contestualizzare questa notizia storica con i dati provenienti
dall’archeologia, proponendo che l’incubazione si svolgesse presso le tombe di
giganti.
A distanza di un secolo dalla sua formulazione la proposta
di Pettazzoni viene considerata ancora valida dagli archeologi nuragologi sardi
Una critica alla proposta di Pettazzoni venne fatta da
Massimo Pittau nel 1977 nel libro La Sardegna Nuragica. In quel libro Pittau fece notare che il rito
dell’incubazione prevedeva un sonno di 5 giorni e che le tombe di giganti non
si prestavano ad una pratica rituale che prevedeva una tale tempistica.
Pittau, citando Tertulliano (Aristotele, heroem quemdam
Sardiniae notat incubatores fani sui visioni bus privatem) spiega che il rito
doveva svolgersi in un posto sacro e
ipotizza che il luogo ove si praticava il rito dell’incubazione fossero i
nuraghi complessi.
Gli archeologi fecevano orecchio da mercante alla brillante
confutazione del la teoria del nuraghe fortezza di Pittau e dunque non potevano
accettare l’idea che i nuraghi complessi fossero il luogo in cui si svolgeva il
rito dell’incubazione.
Eppure la proposta di Pittau era ragionevolissima, è
inverosimile pensare che lo spazio antistante l’esedra delle tombe di giganti sia idonea a ospitare
le pratiche connesse col rito dell’incubazione.
In seguito alle severe critiche del Pittau (1977) , Lilliu
tolse dalle successive edizioni del suo La Civiltà dei Sardi, tutte le risibili
osservazioni a sostegno di un utilizzo militare, da quel momento la sua teoria
diventava un dogma piuttosto che una maldestra ipotesi scientifica.
Dai tempi della proposta di Pittau qualcosa è cambiato nello
stato dell’arte dell’archeologia nuragica e in riferimento al tema trattato due elementi fanno pendere la bilancia a
favore della tesi che propose il Pittau:
1) l’utilizzo delle tombe di giganti si esaurisce nel bronzo
finale ;
2) ora gli archeologi riconoscono che nel bronzo finale i
nuraghi venivano usati come santuari.
Aristotele scriveva nel IV secolo a.C., a quei tempi le tombe
dei giganti erano in disuso da più di mezzo millennio, mi pare improbabile che
le fonti si riferiscano ad un rito che non veniva più praticato. Viceversa nel
periodo in cui scrive Aristotele nei nuraghi si svolgevano ancora dei riti
(vedi studi Caterina Lilliu sul Genna
Maria di Villanovaforru , Ugas sul Su Mulinu di Villanofranca, Taramelli sul Lugherras, ecc ).
Con tutta probabilità le stesse cumbessias (parola molto
affine a incubazione) sono l’esito sincretistico cristianizzato del rito
dell’incubazione.
Mi pare che i due elementi citati indicano i nuraghi
complessi come i luoghi deputati allo svolgimento del rituale dell’incubazione.
La proposta di Pittau è
stata accolta e corroborata da Ileana Benati che in una sua pubblicazione (I
nuraghi: un’ipotesi simbolica, in HELIOPOLIS, culture, civiltà, politica, n.1/2
2009) aggiunge un importante “dettaglio” alla questione in esame, ovvero come
il disegno costruttivo del nuraghe, evidentemente simbolico (che solo l’ottusità
degli archeologi non riesce a a riconoscere) sia un elemento connesso col rito
dell’incubazione, ecco quanto scrive:
“Il rito dell’incubazione, in quanto percorso di “rinascita”, può essere
assimilato ad uno dei significati simbolici del labirinto. Si tratta, infatti,
di un cammino (la morte-sonno e la rinascita-risveglio) che porta al
raggiungimento di un “centro” rappresentato dal responso oracolare. Anche
fisicamente questo percorso si evidenzia nella fase morte-rinascita in un tracciato
di aspetto decisamente labirintico (avviene infatti negli edifici che
circondano il nuraghe centrale la cui struttura, in pianta, ricorda le spire di
un labirinto). L’oracolo dà poi il suo responso nel “centro” costituito dalla
stanza circolare del nuraghe….
Nel labirinto è decisivo il
rapporto con lo spazio: lo spazio interno, isolato rispetto all’esterno, e la
presenza di un solo piccolo ingresso. Colui che intraprende il percorso entra
in uno spazio sacro, insolito, che è tra l’uomo e il divino, all’interno del
quale muterà la propria condizione. Se si considera il nuraghe come un
santuario, sede di riti d’incubazione, non è difficile concepire i suoi spazi
come spazi sacri, dove il fedele, isolato dal mondo esterno dai possenti muri
che delimitano gli edifici circolari che circondano il nuraghe centrale, vive la
propria esperienza di rinascita. Il fatto che le capanne fossero quasi sempre
all’esterno del recinto sacro, può significare, simbolicamente, l’esigenza dell’affrontare
ostacoli e difficoltà per raggiungere la conoscenza.
Ciò è tipico dei riti
iniziatici, e, se morte e rinascita le collochiamo su un piano simbolico-metaforico,
il labirinto diventa la perfetta materializzazione del rito di
iniziazione.
Questa potrebbe essere una
delle giustificazioni delle forme labirintiche rintracciabili nelle strutture
nuragiche.” (Benati 2009)
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