di Paolo Littarru
A margine del convegno sul Concilio Plenario Sardo tenutosi a Cagliari il 13.06.2011, l’antropologo studioso di cultura popolare sarda Bachisio Bandinu, ha formulato un’osservazione sulla religiosità nella società agropastorale sarda che mi ha colpito molto:
“la religiosità per i Sardi era e resta anche oggi un fatto prettamente femminile.
Il maschio adolescente abbandona completamente la religiosità materna quando inizia a lavorare col padre ed a badare al gregge.
L’ovile deve essere ancora evangelizzato”.
Questa osservazione fa il paio e mi evoca il libro “Archeologia del paesaggio nuragico” ed in particolare il contenuto del capitolo “La medicina e il sacro nella Sardegna tradizionale”, in cui l’autore, Mauro Peppino Zedda, cita Clara Gallini:
“…il contatto della donna con la chiesa è assiduo. Disponendo, rispetto all’uomo, di una maggior quantità di tempo libero, ha scoperto nella chiesa una zona consentita e l’ha utilizzata nei limiti del possibile in quello spazio di libertà “vigilata” che è, di domenica, una chiesa popolata quasi solo da donne, con gli uomini che le aspettano al varco sul sagrato”.
Sempre nello stesso capitolo del libro, Mauro Zedda evidenzia che “..gli uomini sardi vedono la partecipazione ai riti come “una cosa da donna”” e che “Attraverso le figurine bronzee realizzate negli scorci del II e nella prima parte del I millennio a.C. parrebbe che il sacro fosse officiato da donne. Un dato che trova conferma in certi aspetti della Sardegna tradizionale”.
Sulla base di un ragionamento antropologico, insomma, l’autore del libro ipotizza anche che nella civiltà nuragica, la religione e la magia nella Sardegna antica, fosse saldamente in mano alle donne.
Che anche l’attuale attitudine verso la religiosità evidenziata da Bandinu, la sua declinazione prettamente al femminile, possa considerarsi un portato della cultura nuragica giunto fino ai nostri tempi?
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