domenica 16 dicembre 2018

Usai, Perra e la Caverna di Platone


di Mauro Peppino Zedda


In un recente libro “La mensa dei Nuragici” Mauro Perra ha scritto di essere più interessato all'archeogastronomia che all'archeoastronomia. Unitamente a segnalare il piacere di leggere le sue ipotesi archeogastronomiche, non posso fare a meno di rimarcare l'assurdità del paragone, infatti un archeologo che si rispetti deve tenere in conto ogni dettaglio, dal più rilevante (l'importanza del Sole e degli astri nella cultura umana) al meno rilevante. Nel leggere la mensa dei nuragici mi venne in mente di segnalare a Perra un passo di Dante “fatti non foste per viver come bruti ma per seguire virtù e conoscenze”.
Che sia importante continuare a studiare la dieta dei nuragici non lo metto in dubbio, sono ormai due secoli che gli archeologi ci parlano di scodelle, tegami e ciotole, non chiedo loro di smettere di studiare i tegami ma di trovare un pochino di tempo per volgere lo sguardo anche verso il cielo.
È assurdo che nel 2018 la scuola archeologica sarda non abbia ancora compreso l'utilità dell'archeoastronomia al fine di comprendere il pensiero, la visione del mondo, la spiritualità del mondo nuragico.
In un più recente libro Il tempo dei Nuraghi (a cura di A. Perra, T. Cossu, A.Usai con 28 autori) in un capitolo curato da A. Usai leggiamo (pag 25) “Se ci pensiamo bene, gli uomini e le donne che vivevano in Sardegna durante le Età del bronzo e del Ferro dovevano conoscere alla perfezione tutte le opportunità e tutti i pericoli del loro ambiente: sorgenti, pozzi e pozze, acque termali, saline, guadi, sentieri, valichi, strettoie, grotte, ripari, nascondigli, luoghi d'avvistamento e appostamento, punti di passaggio della selvaggina, cave, miniere, approdi, legname, alberi da frutto, bacche oleose, erbe salutari, funghi, droghe, veleni e così via” quei nessun accenno all'importanza di elementi fondamentali come il Sole e la Luna; poi in altro capitolo scrive (pag 45) “ la proliferazione dei nuraghi, proprio perché costosa e gravosa, suggerisce che fosse considerato importante marcare la conquista di nuove terre con la costruzione di un monumento, al di là delle sue funzioni materiali. Era questa una ripetizione di atti quasi rituali, sebbene apparentemente non connessi con alcun culto, miranti a perpetuare una tradizione, come una sorta di incessante rifondazione sociale, o come una celebrazione di antiche conquiste o una riaffermazione di un mitico ordine cosmogonico? Io credo che il senso generale dei nuraghi e degli altri monumenti nuragici possa essere compreso solo nell'ambito delle dinamiche sociali ed economiche di grande portata. Tuttavia alcuni particolari potrebbero essere almeno inquadrati facendo riferimento a un mondo simbolico per noi oscuro, ma che per i protagonisti di allora poteva costituire un codice condiviso. Per esempio ferme restando le ragioni di fondo, è possibile che la costruzione di un nuraghe o insediamento o tomba o tempio, oppure la loro ubicazione, fosse decisa a seguito di vaticini, presagi, sogni, allucinazioni o altri presunti “segni” come la caduta di un fulmine, lo scoppio di un incendio, la nascita o la morte di una persona o di un animale, l'accadimento di fatti inspiegabili o preannunciati da racconti mitici? È possibile che per iniziare la costruzione si aspettasse un momento particolare definito da una speciale posizione di uno o più astri, oppure che il monumento venisse venisse orientato in modo tale da registrare la data d'inizio della costruzione? Sulla scorta di simili valutazioni si potrebbero ricondurre ad un quadro di riferimento, senza spiegarle, le forti oscillazioni di orientamento e altre apparenti stranezze; ma ciò non rivelerebbe la natura e funzione dei nuraghi, che è azzardato cercare al di fuori del legame con la terra, le risorse e le attività umane.”

Questi concetti Usai li aveva già espressi in un suo articolo inserito nel volume l'Isola delle Torri a cui risposi in questo blog (cfr Alessandro Usai e la disposizione deinuraghi).
In quel libro mise il mio Archeologia del Paesaggio Nuragico in bibliografia mentre ora ha ritenuto di non mettere riferimenti ai miei studi, anche se ne attinge a piene mani.
Il paradigma militarista viene fortemente ridimensionato ma Usai e Perra (comunque sia, le punte più avanzate dell'archeologia sarda) brancolano ancora nel buio.
Per descrivere il loro agire non trovo di meglio che un riferimento al mito della caverna di Platone che ne La Repubblica scrive:

Dentro una dimora sotterranea a forma di caverna […] pensa di vedere uomini che vi stiano dentro sin da fanciulli, incatenati gambe e collo, si da dover restare fermi e da poter vedere soltanto in avanti, incapaci, a causa della catena, di volgere attorno il capo. Alta e lontana brilli alle loro spalle la luce d'un fuoco [...] Immagina di vedere uomini che portano lungo il muricciolo oggetti di ogni sorta sporgenti dal margine, e statue e altre figure di pietra e di legno, in qualunque modo lavorate; e, come è naturale, alcuni portatori parlano, altri tacciono. - Strana immagine è la tua, disse, e strani sono quei prigionieri. - Somigliano a noi risposi; credi che che tali persone possano vedere, anzitutto di sé e dei compagni, altro se non le ombre proiettate dal fuoco sulla parete della caverna che sta loro di fronte? E come possono, replicò, se sono costretti a tenere immobile il capo tutta la vita? E per gli oggetti che trasportano non è lo stesso? Sicuramente. […] Esamina ora, ripresi, come potrebbero sciogliersi dalle catene e guarire dall'incoscienza. Metti che capitasse loro naturalmente un caso come questo: che uno fosse sciolto, costretto improvvisamente ad alzarsi, a girare attorno il capo, a camminare e levare lo sguardo alla luce; e che così facendo provasse dolore e barbuglio lo rendesse incapace di scorgere quegli oggetti di cui prima vedeva le ombre. Che cosa credi che risponderebbe, se gli si dicesse che prima vedeva vacuità prive di senso, ma che ora, essendo più vicino a ciò che è ed essendo rivolto verso oggetti aventi più essere, può vedere meglio? E se, mostrandogli anche ciascuno degli oggetti che passano, gli si domandasse e lo si costringesse a rispondere che cosa è? Non credi che rimarrebbe dubbioso e giudicherebbe più vere le cose che vedeva prima di quelle che gli fossero mostrate adesso? Certo, rispose.

E se lo si costringesse a guardare la luce stessa, non sentirebbe male agli occhi e non fuggirebbe volgendosi verso gli oggetti di cui può sostenere la vista? E non li giudicherebbe realmente più chiari di quelli che gli fossero mostrati? È così, rispose. Se poi, continuai, lo si trascinasse via da lì a forza, su per l'ascesa scabra ed erta, e non lo si lasciasse prima di averlo tratto alla luce del sole, non ne soffrirebbe e non s'irriterebbe di essere trascinato? E, giunto alla luce, essendo i suoi occhi abbagliati, non potrebbe vedere nemmeno una delle cose che ora sono dette vere. Non potrebbe, certo, rispose, almeno all'improvviso. Dovrebbe, credo, abituarvisi, se vuole vedere il mondo superiore. E prima osserverà, molto facilmente, le ombre e poi le immagini degli esseri umani e degli altri oggetti nei loro riflessi nell'acqua, e infine gli oggetti stessi; da questi poi, volgendo lo sguardo alla luce delle stelle e della luna, potrà contemplare di notte i corpi celesti e il cielo stesso più facilmente che durante il giorno il sole e la luce del sole. Come no? Alla fine, credo, potrà osservare e contemplare quale è veramente il sole, non le sue immagini nelle acque o su altra superficie, ma il sole in se stesso, nella regione che gli è propria. Per forza, disse. Dopo di che, parlando del sole, potrebbe già concludere che è esso a produrre le stagioni e gli anni e a governare tutte le cose del mondo visibile, e ad essere causa, in certo modo, di tutto quello che egli e i suoi compagni vedevano.”

Il discorso di Platone continua sempre più avvincente e denso di significato epistemologico, nel leggere il contenuto del libro curato da Cossu, Perra e Usai il mio pensiero, come d'incanto, è andato a parare nell'allegoria della caverna descritta da Platone. Mi pare perfettamente calzante con le catene culturali imposte da Lilliu al mondo dell'archeologia sarda.

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