giovedì 20 giugno 2019

Il contadino che indicava la luna, prefazione di Franco Laner


 

La lettura di questo lavoro di Paolo Littarru mi induce a interrogarmi per dar ragione a diverse sensazioni e perché no, anche ad emozioni, che Paolo mi ha trasmesso con la narrazione degli ultimi decenni di archeologia nuragica.

Il fulcro del libro è l’originale lettura della civiltà nuragica che Mauro Zedda ha saputo declinare introducendo il parametro archeoastronomico. Purtuttavia il testo comprende ulteriori e importanti riflessioni sull’inconsistenza dell’attuale ricerca scientifica dell’archeologia nuragica, ancora in buona parte arroccata sul paradigma taramel-lilliano (questa aggettivazione, di zeddiana invenzione, mette insieme due archeologi. Prima Antonio Taramelli, bergamasco, che svolse la sua attività in Sardegna e fu anche senatore e poi Giovanni Lilliu che ne raccolse l’eredità. Costoro hanno segnato l’archeologia isolana di tutto lo scorso secolo e sancirono la funzione militare dei nuraghi).

Per certi versi è ovvio il mio straniamento emotivo, considerato che ho fatto parte dell’avventura, ancora in atto, della sconfessione del paradigma nuraghe-fortezza, ma soprattutto perché sono coinvolti sentimenti di amicizia con i protagonisti, non solo con Mauro, ma con l’autore stesso del libro, col formidabile studioso Massimo Pittau, senza sottovalutare Arnold Lebeuf a partire da quando lo sentii la prima volta a Serri, quando mi alzai dopo la sua conferenza sul Pozzo di Santa Cristina e commentai con una sola delle poche parole francesi che conosco: Chapeau!

Nemmeno posso dimenticare il coraggioso Augusto Mulas per la “rottura” col paradigma in cui si è formato. E neppure molti archeologi, che ho spesso denigrato, tutto preso dall’evidenza delle nostre teorie, dimenticandomi che anche loro tengono famiglia, convinzioni e legittime aspirazioni di posto e di carriera, mi appaiono ora, leggendo il libro, diversi e talmente modesti che infierire è stato tempo perso e mi chiedo con quale diritto mi sia accanito, fino all’esasperazione, contro le loro inconsistenti asserzioni, spesso ripetute come i bambini recitano sotto l’imposizione della maestrina di turno.

Mi chiedo – per capire dove abbiamo sbagliato – perché tante battaglie per far emergere semplici evidenze che una qualsiasi persona dotata di un minimo di buon senso comune avrebbe difficoltà ad ammettere, come la funzione militare di un nuraghe?

Eppure, come sono duri a morire gli idola di convenienza politica, culturale, sociale!

Le continue prese di posizione sulla deriva che il paradigma nuraghe-fortezza induceva, sugli ostacoli a nuove ipotesi, sui corollari che gemmavano per sostenere quelle che ho definito tonterias, è stato perso troppo tempo, tempo sottratto a mettere a frutto intuizione e impegno e causa prima del mio attuale disincanto nei confronti dell’archeologia, che forse Paolo, magari inconsciamente, cerca di rimuovere, chiedendomi di esprimere un mio parere sul suo lavoro.

Comincio dal titolo. La parola chiave più intrigante è contadino.

Mauro stesso rivendica questo suo stato. C’è in ciò un compiacimento: lavorare la terra significa contaminarsi con la grande dea, feconda generatrice, che gode, introiettando il dio sole, che si relaziona coi ritmi astronomici che dettano i tempi di semina e i cicli vitali e si confronta con la loro ineluttabile e inesorabile iterazione. Coltivare non può prescindere dall’osservare e quindi dedurre.

Coltivare significa conoscere la scienza dell’agricoltura, avere strumenti di misurazione e quindi nozioni forti di topografia, di cui Mauro ha fatto tesoro. Come giustamente nota Paolo, i lavori di Mauro hanno spesso un forte apparato statistico. Raccoglie puntigliosamente dati, orientamenti, caratteristiche misurabili sui monumenti che indaga, elabora e cerca spiegazione e deduce inferenze e corollari. Ripete, in altre parole, la genesi della scienza: dall’osservazione alla spiegazione. Passo successivo: logica comportamentale e speculativa, fino alla predizione.

Come è meglio orientare i filari di un vigneto? Aspettare o meno la luna nuova per ripiantare i pomodori? A quale specie di cultivar destinare un nuovo appezzamento? Le decisioni non possono che rapportarsi alla propria visione cosmologica, a precisi paletti astrali e alla meditazione che induce l’osservazione esagero – financo dell’ombra di un tutore che scandisce il tempo del giorno, del mese, dell’anno. Contadino capace di cogliere il rapporto inferi-terra-cielo ed entrare in sintonia con la perfezione astronomica, dunque con l’osservazione e la scienza, sua fedele ancella.

Contadino dunque come chiave di lettura della sua curiosità e capacità di inferenze, non solo scientificamente speculative, bensì di concretezza, utilità e programmazione.

Ancora sul titolo del libro, che mi piace analizzare. Il contadino indica la luna. Il contadino è chino sulla terra. Anche l’archeologo è chino sulla terra ed è attento a ciò che brilla sulla punta del piccone. Un archeologo, di norma, non può che resocontare ciò che scava, senza spingersi ad immaginifiche supposizioni (per fortuna qualcuno lo fa!). Mauro invece alza spesso la testa dalla terra verso il cielo. Poi ritorna alla terra. Terra e cielo sono correlati. L’ordine cosmico trova un corrispettivo, viene ricreato in terra. I modi di ricreazione sono l’ampio campo di pensiero di Mauro. Un vero scrigno di inferenze speculative che mettono in crisi convinzioni radicate, compresi i modesti statuti dell’archeologia sarda a partire dal paradigma nuraghe-fortezza, che assegna al profano e non al sacro queste costruzioni.

È qui appena il caso di sottolineare che il paradigma taramel-lilliano non è la sola anomalia. A parole si auspica, ad esempio, l’interdisciplinarietà. Appena però un piede estraneo osa varcare il recinto degli scavi, viene inibito, escluso. Entra, a volte, chi asseconda il già detto e lo conferma.

Provate a sostenere che evidenti capitelli trovati negli scavi di Monte Prama, oltretutto quadrati e non circolari, siano tali e non modelli di nuraghe o che un bronzetto non sia un guerriero anziché un sacerdote o ancora, che le palle litiche trovate nei nuraghi non siano proiettili per fantasiose catapulte o fionde, bensì raffigurazioni astrali.

Errori interpretativi sono ricorrenti nella storia delle varie scienze. Ma a fronte dell’evidenza si cambia e ci si ravvede. L’archeologia sarda in ciò è perlomeno singolare: insiste a sostenere l’insostenibile!

Spiegato il paradigma nuraghe-fortezza e i nefasti corollari che ne sono derivati e come tutt’ora tale paradigma si ostativo a studi e ricerche, Littarru dedica un condivisibilissimo capitolo a Massimo Pittau che con logica deduttiva fu il primo a smontare il castello paradigmatico taramel-lilliano, partendo da una disciplina, apparentemente distante dall’archeologia – la linguistica – a cui gli archeologi non risposero, anzi, bellissima l’immagine di Paolo, su cui misero un tappo. Stesso tappo che misero alla disciplina archeastronomica e ad altre discipline a loro estranee, come tutte le discipline della natura ed anche a molte dello spirito. L’autoreferenzialità, per ogni disciplina, è foriera di insuccesso, a priori.

Il problema attuale – scrive Littarru – per l’archeologia isolana è come uscire da una situazione ormai insostenibile. Elenca tutti i tentativi di progressive smentite e raddrizzamento di tiro, ma ancora manca l’accettazione del nuovo cambio di paradigma o perlomeno il chiaro rigetto di una cantonata epocale.

La narrazione del libro, puntuale e documentata, ha un forte pregio: non si potrà più dire io non c’ero, io non condividevo, io non potevo. Fino alla fine, Lilliu ha tenuto duro. Umanamente non poteva smentire né sé, né la struttura che ha messo insieme e sostenuto per una vita. Fra le righe, se si vuol leggere, si capisce comunque il suo disagio e imbarazzo ben evidenziato da Paolo. A Lilliu comunque non si possono tuttavia disconoscere pregi. Ha molto contribuito a farci capire che una civiltà è tale anche quando non ha gli stessi requisiti di quelle esaltate. Peccato che anche lui ricorresse a graduatorie di civiltà, cosa priva di senso come alcuni antropologi sardi – Miali Pira in primis, o Cherchi o Bandinu – hanno evidenziato, mettendo in luce le caratteristiche e peculiarità di quella sarda, senza rivendicazioni di priorità o primati. Nessun archeologo ha saputo come Lilliu abbandonare il fattuale e concedersi a brani intensi e poetici, come quando descrive la stilizzazione di un antropomorfo che chiude le braccia nel volo verso gli inferi. Il problema vero sono quelli dopo di lui e con lui. Una piaga ancora non satura e purulenta. La forza del libro di Littarru è per me la sua scrittura discreta e critica pacata, a volte asettica e quindi credibile.

Il libro è un atto di sincera ammirazione verso il contadino che indica la luna e di dispiacere verso coloro che vedono solo il dito che la indica.

Mi auguro che il suo ottimismo sul cambio di paradigma sia concreto, non solo un auspicio. Ne ricaverebbe grande interesse l’intera Isola, non solo l’archeologia, bensì la stessa cultura sarda.


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