La
lettura di questo lavoro di Paolo Littarru mi induce a interrogarmi
per dar ragione a diverse sensazioni e perché no, anche ad emozioni,
che Paolo mi ha trasmesso con la narrazione degli ultimi decenni di
archeologia nuragica.
Il
fulcro del libro è l’originale lettura della civiltà nuragica che
Mauro Zedda ha saputo declinare introducendo il parametro
archeoastronomico. Purtuttavia il testo comprende ulteriori e
importanti riflessioni sull’inconsistenza dell’attuale ricerca
scientifica dell’archeologia nuragica, ancora in buona parte
arroccata sul paradigma taramel-lilliano (questa aggettivazione, di
zeddiana invenzione, mette insieme due archeologi. Prima Antonio
Taramelli, bergamasco, che svolse la sua attività in Sardegna e fu
anche senatore e poi Giovanni Lilliu che ne raccolse l’eredità.
Costoro hanno segnato l’archeologia isolana di tutto lo scorso
secolo e sancirono la funzione militare dei nuraghi).
Per
certi versi è ovvio il mio straniamento emotivo, considerato che ho
fatto parte dell’avventura, ancora in atto, della sconfessione del
paradigma nuraghe-fortezza, ma soprattutto perché sono coinvolti
sentimenti di amicizia con i protagonisti, non solo con Mauro, ma con
l’autore stesso del libro, col formidabile studioso Massimo Pittau,
senza sottovalutare Arnold Lebeuf a partire da quando lo sentii la
prima volta a Serri, quando mi alzai dopo la sua conferenza sul Pozzo
di Santa Cristina e commentai con una sola delle poche parole
francesi che conosco: Chapeau!
Nemmeno
posso dimenticare il coraggioso Augusto Mulas per la “rottura”
col paradigma in cui si è formato. E neppure molti archeologi, che
ho spesso denigrato, tutto preso dall’evidenza delle nostre teorie,
dimenticandomi che anche loro tengono famiglia, convinzioni e
legittime aspirazioni di posto e di carriera, mi appaiono ora,
leggendo il libro, diversi e talmente modesti che infierire è stato
tempo perso e mi chiedo con quale diritto mi sia accanito, fino
all’esasperazione, contro le loro inconsistenti asserzioni, spesso
ripetute come i bambini recitano sotto l’imposizione della
maestrina di turno.
Mi
chiedo – per capire dove abbiamo sbagliato – perché tante
battaglie per far emergere semplici evidenze che una qualsiasi
persona dotata di un minimo di buon senso comune avrebbe difficoltà
ad ammettere, come la funzione militare di un nuraghe?
Eppure,
come sono duri a morire gli idola
di convenienza politica, culturale, sociale!
Le
continue prese di posizione sulla deriva che il paradigma
nuraghe-fortezza induceva, sugli ostacoli a nuove ipotesi, sui
corollari che gemmavano per sostenere quelle che ho definito
tonterias,
è stato perso troppo tempo, tempo sottratto a mettere a frutto
intuizione e impegno e causa prima del mio attuale disincanto nei
confronti dell’archeologia, che forse Paolo, magari inconsciamente,
cerca di rimuovere, chiedendomi di esprimere un mio parere sul suo
lavoro.
Comincio
dal titolo. La parola chiave più intrigante è contadino.
Mauro
stesso rivendica questo suo stato. C’è in ciò un compiacimento:
lavorare la terra significa contaminarsi con la grande dea, feconda
generatrice, che gode, introiettando il dio sole, che si relaziona
coi ritmi astronomici che dettano i tempi di semina e i cicli vitali
e si confronta con la loro ineluttabile e inesorabile iterazione.
Coltivare non può prescindere dall’osservare e quindi dedurre.
Coltivare
significa conoscere la scienza dell’agricoltura, avere strumenti di
misurazione e quindi nozioni forti di topografia, di cui Mauro ha
fatto tesoro. Come giustamente nota Paolo, i lavori di Mauro hanno
spesso un forte apparato statistico. Raccoglie puntigliosamente dati,
orientamenti, caratteristiche misurabili sui monumenti che indaga,
elabora e cerca spiegazione e deduce inferenze e corollari. Ripete,
in altre parole, la genesi della scienza: dall’osservazione alla
spiegazione. Passo successivo: logica comportamentale e speculativa,
fino alla predizione.
Come
è meglio orientare i filari di un vigneto? Aspettare o meno la luna
nuova per ripiantare i pomodori? A quale specie di cultivar destinare
un nuovo appezzamento? Le decisioni non possono che rapportarsi alla
propria visione cosmologica, a precisi paletti astrali e alla
meditazione che induce l’osservazione –
esagero – financo dell’ombra di un tutore che scandisce il tempo
del giorno, del mese, dell’anno. Contadino capace di cogliere il
rapporto inferi-terra-cielo ed entrare in sintonia con la perfezione
astronomica, dunque con l’osservazione e la scienza, sua fedele
ancella.
Contadino
dunque come chiave di lettura della sua curiosità e capacità di
inferenze, non solo scientificamente speculative, bensì di
concretezza, utilità e programmazione.
Ancora
sul titolo del libro, che mi piace analizzare. Il contadino indica la
luna. Il contadino è chino sulla terra. Anche l’archeologo è
chino sulla terra ed è attento a ciò che brilla
sulla punta del piccone.
Un archeologo, di norma, non può che resocontare ciò che scava,
senza spingersi ad immaginifiche supposizioni (per fortuna qualcuno
lo fa!). Mauro invece alza spesso la testa dalla terra verso il
cielo. Poi ritorna alla terra. Terra e cielo sono correlati. L’ordine
cosmico trova un corrispettivo, viene ricreato in terra. I modi di
ricreazione sono l’ampio campo di pensiero di Mauro. Un vero
scrigno di inferenze speculative che mettono in crisi convinzioni
radicate, compresi i modesti statuti dell’archeologia sarda a
partire dal paradigma nuraghe-fortezza, che assegna al profano e non
al sacro queste costruzioni.
È
qui appena il caso di sottolineare che il paradigma taramel-lilliano
non è la sola anomalia. A parole si auspica, ad esempio,
l’interdisciplinarietà. Appena però un piede estraneo osa varcare
il recinto degli scavi, viene inibito, escluso. Entra, a volte, chi
asseconda il già detto e lo conferma.
Provate
a sostenere che evidenti capitelli trovati negli scavi di Monte
Prama, oltretutto quadrati e non circolari, siano tali e non modelli
di nuraghe o che un bronzetto non sia un guerriero anziché un
sacerdote o ancora, che le palle litiche trovate nei nuraghi non
siano proiettili per fantasiose catapulte o fionde, bensì
raffigurazioni astrali.
Errori
interpretativi sono ricorrenti nella storia delle varie scienze. Ma a
fronte dell’evidenza si cambia e ci si ravvede. L’archeologia
sarda in ciò è perlomeno singolare: insiste a sostenere
l’insostenibile!
Spiegato
il paradigma nuraghe-fortezza e i nefasti corollari che ne sono
derivati e come tutt’ora tale paradigma si ostativo a studi e
ricerche, Littarru dedica un condivisibilissimo capitolo a Massimo
Pittau che con logica deduttiva fu il primo a smontare il castello
paradigmatico taramel-lilliano, partendo da una disciplina,
apparentemente distante dall’archeologia – la linguistica – a
cui gli archeologi non risposero, anzi, bellissima l’immagine di
Paolo, su cui misero un tappo.
Stesso tappo che misero alla disciplina archeastronomica e ad altre
discipline a loro estranee, come tutte le discipline della natura ed
anche a molte dello spirito. L’autoreferenzialità, per ogni
disciplina, è foriera di insuccesso, a priori.
Il
problema attuale – scrive Littarru – per l’archeologia isolana
è come uscire da una situazione ormai insostenibile. Elenca tutti i
tentativi di progressive smentite e raddrizzamento di tiro, ma ancora
manca l’accettazione del nuovo cambio di paradigma o perlomeno il
chiaro rigetto di una cantonata epocale.
La
narrazione del libro, puntuale e documentata, ha un forte pregio: non
si potrà più dire io non c’ero, io non condividevo, io non
potevo. Fino alla fine, Lilliu ha tenuto duro. Umanamente non poteva
smentire né sé, né la struttura che ha messo insieme e sostenuto
per una vita. Fra le righe, se si vuol leggere, si capisce comunque
il suo disagio e imbarazzo ben evidenziato da Paolo. A Lilliu
comunque non si possono tuttavia disconoscere pregi. Ha molto
contribuito a farci capire che una civiltà è tale anche quando non
ha gli stessi requisiti di quelle esaltate. Peccato che anche lui
ricorresse a graduatorie di civiltà, cosa priva di senso come alcuni
antropologi sardi – Miali Pira in primis, o Cherchi o Bandinu –
hanno evidenziato, mettendo in luce le caratteristiche e peculiarità
di quella sarda, senza rivendicazioni di priorità o primati. Nessun
archeologo ha saputo come Lilliu abbandonare il fattuale e concedersi
a brani intensi e poetici, come quando descrive la stilizzazione di
un antropomorfo che chiude le braccia nel volo verso gli inferi. Il
problema vero sono quelli dopo di lui e con lui. Una piaga ancora non
satura e purulenta. La forza del libro di Littarru è per me la sua
scrittura discreta e critica pacata, a volte asettica e quindi
credibile.
Il
libro è un atto di sincera ammirazione verso il contadino
che indica la luna
e di dispiacere verso coloro che vedono solo il dito che la indica.
Mi
auguro che il suo ottimismo sul cambio di paradigma sia concreto, non
solo un auspicio. Ne ricaverebbe grande interesse l’intera Isola,
non solo l’archeologia, bensì la stessa cultura sarda.
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