di Bachisio Bandinu
La scena è avvolta in una dimensione magica: nel silenzio della notte, sotto un antico firmamento, donne e uomini del nostro tempo stanno seduti sui gradoni della grande vasca del pozzo sacro nel santuario di Romanzesu, altri stanno in piedi come le pietre conficcate sul terreno, come le sughere della tanca.
Si avverte il sentimento del sacro, una sensazione di estraniamento e allo stesso tempo di familiarità: si sta in attesa che qualcosa avvenga, come se un mistero si svelasse. Ed ecco rinnovarsi l’antica scena di oltre 3000 anni: sono tornati i progenitori per rivivere i riti ancestrali, sono scesi nella grande vasca colma d’acqua per le abluzioni, per liberarsi dal male di vivere, dalle malattie del corpo e dello spirito. Rigenerati, si sono allontanati con movimenti rituali e sono risaliti lungo il percorso che conduce alle loro capanne e ai loro templi, sino al labirinto del grande tempio dello stregone. Per allontanarsi poi per i sentieri di Mandra ‘e Chervos. Sono tornati per rinnovare la memoria lungo il filo della storia. Contenti che il loro villaggio sia ancora abitato e che i loro eredi ne siano custodi. Così la loro storia ha senso, così la nostra storia ha senso. Poi noi, donne e uomini del nostro tempo, ci siamo ridestati dal sogno. Abbiamo ripreso coscienza dell’oggi e abbiamo provato la gioia della profonda comunione con i nostri antenati, grazie al luogo magico abbiamo vissuto gli antichi riti di liberazione dai mali della vita. Poi ci siamo guardati e ci siamo visti mascherati, come uomini primitivi a esorcizzare un male moderno. Allora, dai gradoni abbiamo rivolto lo sguardo al centro della vasca per una cerimonia di purificazione, ma nel grande vascone non c’è acqua lustrale, né il pozzo è per noi sacro. Così ci siamo accorti della nostra fragilità di uomini moderni, seppure capaci di andare su Marte: abbiamo affidato la nostra salvezza a un pezzo di tela per coprire il respiro, l’alito di vita, divenuto rischio di morte. Un virus, minuscolo e invisibile, ci ha reso meno protetti dei nostri antenati che nel santuario di Poddi Arvu avevano trovato rimedio ai loro mali invocando gli dei. Quel villaggio nuragico era luogo di fede e di salvezza, di incontri e di comunione. Gli abitatori avevano un rapporto fiducioso con il cielo e con la terra, con l’acqua e con il sole. Tra uomo e natura c’era una simbiosi: elevavano nuraghi verso il cielo per onorare gli dei e per studiare gli astri, noi eleviamo torri d’acciaio per il profitto di pochi rapinatori. Ci sentiamo poveri perché non abbiamo potuto vivere i nostri riti di fede e di speranza, neppure per il nostro patrono, neppure per la Madonna dell’Annunziata, e probabilmente neanche pro nostra Segnora de su Meraculu. Speriamo almeno nel tempo di Avvento, su Nenneddu ci donerà una rinnovata comunità. Lo porteremo anche nella casetta della cooperativa di Romanzesu.
E propriu a sa cooperativa “Istelai” devimus torrare gratzias pro su donu de custos abbojos chi non aberin su chelu de su firmamentu e su sartu mannu de s’istoria. E gai torramus in pache chin sos Mannos nostros, pro nos dare fortza in su tempus presente e ispera pro su tempus inveniente. Eris e oje, torran tempos de dolu, ma nois amus presse de nos iscurrutare, pro torrare a cantare sos gosos de sas festas nostras e nos videre in caras nettas, lassanne sas macaras a su carrasecare.
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