di Fabrizio Sarigu
In un post precedente si è cercato di dare una possibile risposta al significato simbolico del nuraghe quadrilobato come rappresentazione dell’universo (sempre partendo dalla concezione geocentrica, che è quella propria del mondo antico) così come concepito dalle genti nuragiche. In particolare tale rappresentazione simbolica può essere ricondotta al piano dell’eclittica, la “terra piatta”, così come definita nel mito fin dalle primissime origini.
In quest’ottica, la torre centrale rappresenta l’asse dell’eclittica intorno cui tutto ruota, compreso l’asse dell’equatore e la polare che quest’ultimo definisce. L’asse dell’eclittica delinea a sua volta un punto nel cielo, situato nella prima ansa della costellazione del dragone (da qui i tanti riferimenti mitici all’uccisione del drago come prima fase dell’ascesa alla conoscenza iniziatica, basti pensare al flauto magico di Mozart) noto probabilmente agli antichi come il “malo occhio” poiché non segnato da alcuna stella, a differenza di Canopo che presiede il polo sud dell’eclittica, e poiché causa della “trans-gressione” delle stelle tutte per via della precessione. Polo nord dell’eclittica come unico punto stabile e fermo dell’universo (degli antichi), quindi origine del moto del cielo, ergo del tempo. Attorno a questo asse abbiamo i quattro pilastri della terra (piatta) ossia i solstizi e gli equinozi (coluri), come i quattro punti-momento cardine dell’intero sistema per definire un’ “era precessionale”.
Accanto a questa rappresentazione, anche il nuraghe pentalobato potrebbe avere un significato di edificio “talismano”. Quindi non certo un castello ante litteram, quanto un monumento-tempio dedicato al pianeta-dio Venere. Ma perché ricondurre il numero cinque e il pentagono al pianeta Venere? In verità anche il numero otto….
Ricordando, come precisato in altri post, che gli antichi osservavano il cielo con “senso del ritmo” alla ricerca del harmonice mundi (armonia delle sfere), avviene che ogni OTTO anni, Venere sorga per CINQUE volte eliacamente (e cinque volte tramonti eliacamente).
Ciò significa che per cinque volte, e solo quelle, in un arco di tempo pari ad otto anni, Venere si elevi dall’orizzonte in contemporanea con il sole (qualche istante prima), il quale immediatamente poi rendeva invisibile l’astro. Ciò avviene ovviamente avendo, sempre nel ciclo di otto anni, dei determinati segni dello zodiaco come sfondo e sempre nel numero di cinque (i cinque compagni di venere che spesso si trovano in tante rappresentazioni artistiche e mitiche). Tali cinque segni, rispetto ai dodici totali potevano essere uniti fra loro (immaginate una rappresentazione circolare dello zodiaco) formando un pentagono quasi regolare e quindi il pentacolo (la stella a cinque punte) come simbolo parallelo. E’ necessario premettere che benché il pentacolo sia oggi associato al culto satanico, non ha nulla da spartire con esso, o meglio si tratta di un tentativo avvenuto in epoca cristiana di screditare simbologie e culti del passato, associando questi al demoniaco. Basti citare il nome di Baal (El), nome di un diavolo nella mitologia ecclesiastica, ma sappiamo tutti essere una divinità semitica come numerose altre nelle epoche passate.
Nella Sardegna nuragica non abbiamo il pentacolo pitagorico, ma vi è un quan numero di pintadere pentapartite … tutte da studiare.
Bisogna ancora ricordare che l’orizzonte era il telescopio degli antichi e che questi erano particolarmente attratti dalle levate eliache degli astri, poiché momento ZERO capace di tenere conto dell’eventuale ciclo di un astro. In oltre, ciò che rendeva sacro il cielo era la precisione matematica che esso mostrava nell’eterno ritorno dell’uguale, ossia il cielo era l’unica dimensione CERTA su cui l’uomo antico potesse fare affidamento, l’unica dimensione in cui i suoi attori (gli astri) sapevano quello che facevano, a differenza del divenire e della caducità della vita quotidiana. Individuata una data qualsiasi entro il ciclo venusiano ora descritto, dopo otto anni a quella stessa data il pianeta si ritrovava esattamente nello stesso punto del cielo. Questo non poteva che essere un segno dell’armonia del divino per quelle genti.
Premesso ciò, è possibili andare ad analizzare più da vicino il nuraghe Arrubiu dove le sue caratteristiche architettoniche poco o nulla si prestano alla funzionalità necessaria ad un edificio pensato per fini bellici. Altri meglio di me hanno già affrontato il problema al fine di confutare (riuscendoci assolutamente, benché qualcuno faccia orecchie da mercante..) l’idea del nuraghe fortezza (…madre di ogni sciocchezza….), ma il caso dell’Arrubiu, forse meglio di altri, manifesta una pianta architettonica assimilabile a quella di un santuario-tempio. In particolare la torre G, priva di alcun ingresso ( che come fa notare Mauro e altr. si presta bene all’idea di far calare una “Pizia” dall’alto), consta di un cortile apposito privo però anche lui di un ingresso questa volta al corpo centrale del nuraghe (cortili x1 e x2 secondo la piantina desunta dal sito http://www.comuneorroli.it/sito/arrubiu.htm ), che nel gergo militaresco proprio di certi ambienti accademici continua a definirsi cortile trappola. Ossia gli sprovveduti assedianti venivano tratti in inganno dal falso ingresso (che poi non conduceva a nulla) e li trucidati. Tuttavia nel nuraghe non sono mai stati trovati segni di qualsiasi tipo di azione militare, in oltre un tale sforzo costruttivo per edificare una trappola che poteva usarsi una sola volta in tutta la vita del nuraghe??? Caduti i primi si sarebbe sparsa la voce del fatto che fosse meglio non entrare da li, poveri nuragici gli abbiamo proprio presi per fessi, manco capaci di imparare dall’esperienza.
Oppure l’evidenza è tale da portarci per un’altra strada, quella che concepisce il monumento avente un significato sacrale legato forse al feminino, la cui pianta (oltre ad essere un evidente pentagono) è divisa in due parti, una dedicata ai profani che non dovevano accedere al monumento, ma che grazie alle “feritoie” della torre G potevano comunicare con chi si trovava al suo interno(una struttura oracolare evidentemente), e l’altro ingresso che conduce alla struttura dedicato a chi officiava il culto o i riti. In questo caso il senso “talismanico” della costruzione sarebbe perfettamente coerente con il suo utilizzo.
giovedì 17 febbraio 2011
martedì 8 febbraio 2011
Shardana Question
di Mario Cabriolu
La lettura del libro di Mauro Peppino Zedda, Archeologia del Paesaggio Nuragico, ed. Agorà Nuragica, 2009 mi ha dato modo di soffermarmi ancora una volta su un argomento che continua ad essere molto dibattuto fra studiosi e appassionati di archeologia. Si tratta dei “popoli del mare” ossia quelle genti che, a cavallo fra XIII e XII sec. a.C., tentarono ripetutamente di insediarsi in armi nei territori sotto il dominio egiziano, portando gli scontri fino alla foce del Nilo. Le loro scorrerie in diversi settori del Mediterraneo orientale risultano accompagnate da atti di violenza e devastazioni.
Nel XIII sec. a.C. alcuni dei popoli ricordati nelle cronache egizie, risultano insediati in Medio Oriente, nell’Egeo e nella penisola anatolica.
In Sardegna la discussione è da tempo particolarmente vivace, legata all’assonanza fra il nome di uno dei popoli del mare, gli Shardana (o Sherden) e il nome storico degli abitanti dell’isola.
Le posizioni degli studiosi sono riconducibili alle seguenti tre principali correnti di pensiero:
1) gli Sherden coincidono con i sardi nuragici
2) gli Sherden non hanno nulla a che vedere con gli abitanti dell’isola e mai ci furono contatti fra quelli e questa
3) gruppi di Sherden orientali si trasferirono intorno al XIII sec. in Sardegna e da loro discenderebbe il nome storico dell’isola e dei suoi abitanti
Il tema Shardana è trattato nel cap. XIX del libro citato dove Zedda affronta la descrizione della cultura materiale isolana negli ultimi secoli del II millennio a.C., così come risulta dalle ricerche archeologiche e dagli studi specialistici più recenti; evidenzia altresì i mutamenti riscontrabili in quell’epoca in vari settori del contesto materiale, i possibili risvolti in ambito sociale. Uno degli aspetti maggiormente apprezzabili è l’aver trattato l’argomento con una visione pan-mediterranea e con l’intento di risolvere e mettere a posto tutte le incognite introdotte dalle varie discipline: archeologia, metallurgia, genetica, etnologia, ecc. Esistono molti studi criticabili proprio per la parzialità con cui risulta trattato un argomento di portata tutt’altro che provinciale. Per Zedda gli Shardana delle iscrizioni egizie erano genti egeo-anatoliche, approdate in Sardegna intorno al XIII sec. a.C., responsabili dell’introduzione di una serie di innovazioni soprattutto in campo metallurgico e ceramico. Le sue argomentazioni e alcune intuizioni originalissime, sono equilibrate, obiettive, convincenti.
Tuttavia sono ancora tanti i quesiti ai quali non possiamo dare risposte certe, soprattutto per carenza di informazioni.
Faccio alcuni esempi, alla rinfusa, sulla scorta delle domande che Zedda pone a pag. 363 del libro in esame:
i)dove sono le testimonianze documentali e i resti della “civiltà” Shardana nella presunta madrepatria egeo-anatolica? (gli Shardana non figurano nei testi ittiti e omerici ad es.)
ii)perché normalmente nel descrivere della partecipazione in massa dei Meshwesh nei tentativi di invasione dell’Egitto al tempo dei popoli del mare non si commenta criticamente il come e il perché dei contatti fra un popolo libico proveniente dall’area sirtica e popoli egeo-anatolici? Perché questo popolo si muove in massa verso oriente? Dalle iscrizioni rupestri del Tassili e in base alle datazioni fornite dagli esperti, sembra di dedurre che l’area a sud e intorno allo Chott el-Djerid tunisino nel corso del XIV sec. fosse ancora una pianura semifertile: se ciò fosse vero, cosa è successo in quegli anni? E quegli eventi possono aver coinvolto anche la Sardegna?
iii)se la Sardegna nel XIII sec. a.C. non avesse risentito di un periodo di crisi dovuta a siccità o eventi simili perché i libici e i “vicini” Meshwesh non si sarebbero mossi verso di essa?
iv)è possibile, anche se non provato, che i Meshwesh delle iscrizioni egizie siano lo stesso popolo denominato Massi da Erodoto, che usavano tingersi il corpo di rosso, così come appaiono gli Shardana “egizi”: è attestato lo stesso uso fra genti egeo-anatoliche? E’ eccezionale a tal proposito il fatto che nelle statue di Monti Prama sia stata rilevata la presenza di colorante rosso, se non sbaglio;
v)dove sono i centri allogeni in Sardegna a partire dal XIII sec. a.C? Diamo per scontata la fondazione di città fenicie a partire dall’VIII sec. a.C. eppure l’archeologia ufficiale a quella data riesce a riferire scarsissime strutture attribuibili ad apporti architettonici esterni e più avanza la ricerca, più si scopre che i centri punici sono nati in sovrapposizione o adiacenza a centri nuragici;
vi)i nuovi usi sepolcrali post-tomba di giganti sembrano interessare contemporaneamente tutta la Sardegna e i dati disponibili sono davvero pochi per trarre conclusioni;
vii)analisi genetiche effettuate su resti ossei rinvenuti all’interno di tombe “fenicie” (vedere Sirai ad es.) ci parlano di coloni nord-africani! Non so se sia stata provata con analisi dirette la presenza di genti orientali;
viii)si chiede perché, qualora ammettessimo la coincidenza dei nuragici (costruttori dei nuraghi) con gli Shardana, questi ultimi non avrebbero colmato la Sardegna di armi in bronzo e di oggetti provenienti dall’Egitto: ritengo che, in base alle testimonianze scritte, gli Shardana mercenari non facessero ritorno a casa loro con bottini di guerra, e qualunque fosse la loro madrepatria, hanno finito con lo stanziarsi nei territori nei quali operavano. Diverso è il discorso sugli Shardana eventualmente dediti al commercio. La questione “armi” è molto più complessa e dovremmo chiederci anche il perché degli scarsissimi ritrovamenti attribuibili a periodi più recenti e sicuramente bellici per l’isola quali tutto il periodo V-II sec. a.C.
ix) si sa ancora pochissimo dei centri nuragici costieri data l’esiguità dei dati archeologici, anche per le epoche anteriori al XIII sec. a.C. e per le aree portuali più importanti;
x)possibile che i sardi non abbiano lasciato l’etnonimo nella presunta madrepatria orientale, cosa che invece è molto frequente nel Mediterraneo occidentale?
xi)perché gli Shardana lasciano bronzetti a Cipro nel XII sec. a.C., negli stessi anni del loro insediamento in Sardegna, ma insegnano l’arte della cera persa agli isolani solo 3 secoli dopo?
xii) perché nel loro girovagare gli Shardana sarebbero arrivati in Sardegna e non si sarebbero fermati prima in Sicilia, in Puglia, in Tunisia? E se lo hanno fatto perché non hanno lasciato impronte simili a quelle che si registrano in Sardegna?
xiii) la tradizione fa giungere in Sicilia i Siculi appena prima o subito dopo la presa di Troia, fatto che concorda cronologicamente, in base alla testimonianza di Dionigi di Alicarnasso, con l’epoca dell’epopea dei popoli del mare. I Siculi però arrivano nell’isola dall’Italia, a seguito di migrazioni di popoli da settentrione. La coincidenza dei Siculi con i Sekelesh dei documenti egizi non avrebbe in tal caso il conforto della tradizione mitografica. Che valore hanno, per i sostenitori dell’arrivo di quei popoli da oriente, le varie tradizioni tramandate dai mitografi?
xiv) perché se gli Shardana rappresentavano parte di una coalizione formata anche da filistei, tursha, sekelesh ecc., in Sardegna sarebbe stato ricordato solo il loro nome, come in Sicilia e in Toscana solo quello dei cugini egeo-anatolici?
xv)perché in Sardegna non si rinvengono iscrizioni con alfabeti egeo-anatolici risalenti a quel periodo?
xvi) perché nell’età delle colonizzazioni classiche greco-fenicie in Sardegna avrebbero prevalso i fenici e non i greci, cugini degli Shardana egeo-anatolici?
xvii)come avrebbero potuto i “fenici” (che rappresentano una delle “culture” storiche più “spugna” fra tutte), condizionare così facilmente gli Shardana egeo-anatolici, i cui pronipoti della madrepatria non furono condizionati neppure dai romani?
La lettura del libro di Mauro Peppino Zedda, Archeologia del Paesaggio Nuragico, ed. Agorà Nuragica, 2009 mi ha dato modo di soffermarmi ancora una volta su un argomento che continua ad essere molto dibattuto fra studiosi e appassionati di archeologia. Si tratta dei “popoli del mare” ossia quelle genti che, a cavallo fra XIII e XII sec. a.C., tentarono ripetutamente di insediarsi in armi nei territori sotto il dominio egiziano, portando gli scontri fino alla foce del Nilo. Le loro scorrerie in diversi settori del Mediterraneo orientale risultano accompagnate da atti di violenza e devastazioni.
Nel XIII sec. a.C. alcuni dei popoli ricordati nelle cronache egizie, risultano insediati in Medio Oriente, nell’Egeo e nella penisola anatolica.
In Sardegna la discussione è da tempo particolarmente vivace, legata all’assonanza fra il nome di uno dei popoli del mare, gli Shardana (o Sherden) e il nome storico degli abitanti dell’isola.
Le posizioni degli studiosi sono riconducibili alle seguenti tre principali correnti di pensiero:
1) gli Sherden coincidono con i sardi nuragici
2) gli Sherden non hanno nulla a che vedere con gli abitanti dell’isola e mai ci furono contatti fra quelli e questa
3) gruppi di Sherden orientali si trasferirono intorno al XIII sec. in Sardegna e da loro discenderebbe il nome storico dell’isola e dei suoi abitanti
Il tema Shardana è trattato nel cap. XIX del libro citato dove Zedda affronta la descrizione della cultura materiale isolana negli ultimi secoli del II millennio a.C., così come risulta dalle ricerche archeologiche e dagli studi specialistici più recenti; evidenzia altresì i mutamenti riscontrabili in quell’epoca in vari settori del contesto materiale, i possibili risvolti in ambito sociale. Uno degli aspetti maggiormente apprezzabili è l’aver trattato l’argomento con una visione pan-mediterranea e con l’intento di risolvere e mettere a posto tutte le incognite introdotte dalle varie discipline: archeologia, metallurgia, genetica, etnologia, ecc. Esistono molti studi criticabili proprio per la parzialità con cui risulta trattato un argomento di portata tutt’altro che provinciale. Per Zedda gli Shardana delle iscrizioni egizie erano genti egeo-anatoliche, approdate in Sardegna intorno al XIII sec. a.C., responsabili dell’introduzione di una serie di innovazioni soprattutto in campo metallurgico e ceramico. Le sue argomentazioni e alcune intuizioni originalissime, sono equilibrate, obiettive, convincenti.
Tuttavia sono ancora tanti i quesiti ai quali non possiamo dare risposte certe, soprattutto per carenza di informazioni.
Faccio alcuni esempi, alla rinfusa, sulla scorta delle domande che Zedda pone a pag. 363 del libro in esame:
i)dove sono le testimonianze documentali e i resti della “civiltà” Shardana nella presunta madrepatria egeo-anatolica? (gli Shardana non figurano nei testi ittiti e omerici ad es.)
ii)perché normalmente nel descrivere della partecipazione in massa dei Meshwesh nei tentativi di invasione dell’Egitto al tempo dei popoli del mare non si commenta criticamente il come e il perché dei contatti fra un popolo libico proveniente dall’area sirtica e popoli egeo-anatolici? Perché questo popolo si muove in massa verso oriente? Dalle iscrizioni rupestri del Tassili e in base alle datazioni fornite dagli esperti, sembra di dedurre che l’area a sud e intorno allo Chott el-Djerid tunisino nel corso del XIV sec. fosse ancora una pianura semifertile: se ciò fosse vero, cosa è successo in quegli anni? E quegli eventi possono aver coinvolto anche la Sardegna?
iii)se la Sardegna nel XIII sec. a.C. non avesse risentito di un periodo di crisi dovuta a siccità o eventi simili perché i libici e i “vicini” Meshwesh non si sarebbero mossi verso di essa?
iv)è possibile, anche se non provato, che i Meshwesh delle iscrizioni egizie siano lo stesso popolo denominato Massi da Erodoto, che usavano tingersi il corpo di rosso, così come appaiono gli Shardana “egizi”: è attestato lo stesso uso fra genti egeo-anatoliche? E’ eccezionale a tal proposito il fatto che nelle statue di Monti Prama sia stata rilevata la presenza di colorante rosso, se non sbaglio;
v)dove sono i centri allogeni in Sardegna a partire dal XIII sec. a.C? Diamo per scontata la fondazione di città fenicie a partire dall’VIII sec. a.C. eppure l’archeologia ufficiale a quella data riesce a riferire scarsissime strutture attribuibili ad apporti architettonici esterni e più avanza la ricerca, più si scopre che i centri punici sono nati in sovrapposizione o adiacenza a centri nuragici;
vi)i nuovi usi sepolcrali post-tomba di giganti sembrano interessare contemporaneamente tutta la Sardegna e i dati disponibili sono davvero pochi per trarre conclusioni;
vii)analisi genetiche effettuate su resti ossei rinvenuti all’interno di tombe “fenicie” (vedere Sirai ad es.) ci parlano di coloni nord-africani! Non so se sia stata provata con analisi dirette la presenza di genti orientali;
viii)si chiede perché, qualora ammettessimo la coincidenza dei nuragici (costruttori dei nuraghi) con gli Shardana, questi ultimi non avrebbero colmato la Sardegna di armi in bronzo e di oggetti provenienti dall’Egitto: ritengo che, in base alle testimonianze scritte, gli Shardana mercenari non facessero ritorno a casa loro con bottini di guerra, e qualunque fosse la loro madrepatria, hanno finito con lo stanziarsi nei territori nei quali operavano. Diverso è il discorso sugli Shardana eventualmente dediti al commercio. La questione “armi” è molto più complessa e dovremmo chiederci anche il perché degli scarsissimi ritrovamenti attribuibili a periodi più recenti e sicuramente bellici per l’isola quali tutto il periodo V-II sec. a.C.
ix) si sa ancora pochissimo dei centri nuragici costieri data l’esiguità dei dati archeologici, anche per le epoche anteriori al XIII sec. a.C. e per le aree portuali più importanti;
x)possibile che i sardi non abbiano lasciato l’etnonimo nella presunta madrepatria orientale, cosa che invece è molto frequente nel Mediterraneo occidentale?
xi)perché gli Shardana lasciano bronzetti a Cipro nel XII sec. a.C., negli stessi anni del loro insediamento in Sardegna, ma insegnano l’arte della cera persa agli isolani solo 3 secoli dopo?
xii) perché nel loro girovagare gli Shardana sarebbero arrivati in Sardegna e non si sarebbero fermati prima in Sicilia, in Puglia, in Tunisia? E se lo hanno fatto perché non hanno lasciato impronte simili a quelle che si registrano in Sardegna?
xiii) la tradizione fa giungere in Sicilia i Siculi appena prima o subito dopo la presa di Troia, fatto che concorda cronologicamente, in base alla testimonianza di Dionigi di Alicarnasso, con l’epoca dell’epopea dei popoli del mare. I Siculi però arrivano nell’isola dall’Italia, a seguito di migrazioni di popoli da settentrione. La coincidenza dei Siculi con i Sekelesh dei documenti egizi non avrebbe in tal caso il conforto della tradizione mitografica. Che valore hanno, per i sostenitori dell’arrivo di quei popoli da oriente, le varie tradizioni tramandate dai mitografi?
xiv) perché se gli Shardana rappresentavano parte di una coalizione formata anche da filistei, tursha, sekelesh ecc., in Sardegna sarebbe stato ricordato solo il loro nome, come in Sicilia e in Toscana solo quello dei cugini egeo-anatolici?
xv)perché in Sardegna non si rinvengono iscrizioni con alfabeti egeo-anatolici risalenti a quel periodo?
xvi) perché nell’età delle colonizzazioni classiche greco-fenicie in Sardegna avrebbero prevalso i fenici e non i greci, cugini degli Shardana egeo-anatolici?
xvii)come avrebbero potuto i “fenici” (che rappresentano una delle “culture” storiche più “spugna” fra tutte), condizionare così facilmente gli Shardana egeo-anatolici, i cui pronipoti della madrepatria non furono condizionati neppure dai romani?
venerdì 28 gennaio 2011
Una replica a Massimo Pittau
di Mario Alinei
Il collega Pittau, il 20/1/2011 su questo blog ha giudicato "un disastro" il capitolo da me dedicato alla Sardegna nel secondo volume delle mie Origini (1997-2000). Ciò che mi dispiace soltanto perché, dieci anni dopo (!) la pubblicazione, e circa quindici dopo la concezione, mi costringe a fare qualcosa che, come diceva Sartre, a nessun autore piace molto: rileggere a distanza di tempo una propria opera. Per di più, essendo io divenuto, dieci anni dopo, ormai abbastanza anziano, non avrei neanche il tempo per riscriverlo, quel capitolo, o per modificarlo, se la sua critica mi spingesse a farlo. Per mia fortuna, la sua critica non ha prodotto questo risultato. Mi limiterò quindi a rispondere alle sue otto "obiezioni di fondo", per chiarire alcuni punti e porgli, a mia volta, qualche interrogativo.
1) Pittau ritiene che io non abbia una "competenza sufficiente per immischiar[m]i e discutere di questioni archeologiche, che partono addirittura dal Mesolitico … o anche dal Neolitico». Per di più, valendomi di Lilliu, «del quale molti Sardi sanno che ha preso grossi abbagli, l'uno più grande dell'altro». Noto una duplice contraddizione: da un lato io, linguista, non avrei il diritto di immischiarmi in questioni archeologiche, mentre lui, linguista come me, avrebbe il diritto di giudicare severamente un rinomato ed autorevole archeologo? Inoltre, lo stesso Pittau dimostra di tenersi criticamente aggiornato sulle ricerche di geo-genetica, ed usa costantemente i nuraghi – cioè monumenti archeologici, e non linguistici – come punto di riferimento per le sue teorie. Come la mettiamo? Per di più, io credo che un linguista abbia non solo il diritto, ma il dovere di allargare i propri orizzonti in tutte le direzioni che gli sembrano opportune per l'approfondimento delle proprie conoscenze.
2) Come la maggioranza dei linguisti, anche Pittau non crede che a linguistica possa andare indietro nel tempo. Come la maggioranza dei linguisti, tuttavia, a mio avviso sbaglia: da attivo etimologo, quale è, Pittau dovrebbe rendersi conto, anche teoricamente e metodologicamente, dell'enorme valore che si nasconde nell'etimologia delle parole per la datazione del lessico. Parole latine come delirare 'uscire dal solco dell'aratro', o egregius, in origine 'che esce fuori del gregge', o parole italiane dialettali come mazza 'vomere dell'aratro', ed innumerevoli altre che ho elencato in tanti miei lavori, non possono essere di epoca romana, ma devono risalire, rispettivamente, alla scoperta dell'agricoltura, a quella dell'allevamento, e all'aratro di legno, cioè al Neo-Calcolitico. Evidentemente, Pittau non conosce la mia teoria dell'autodatazione lessicale, basata sul primato, nell'etimologia, dell'iconimo, o motivazione etimologica, e del suo rapporto con il significante ed il significato. Posso solo invitarlo a leggere il mio ultimo libro, Origine delle parole (2009), oltre che i miei numerosi articoli sull'argomento. A mio avviso, non si dovrebbe giudicare un autore senza conoscere le sue opere principali.
3) Pittau mi rimprovera aspramente (e, di nuovo, troppo frettolosamente) per avere scritto «i Barbaricini (cioè i Sardi mai romanizzati)» (p. 650), ritenendo che con questo io volessi negare la latinità della Barbagia. Ma non ho mai pensato, né tanto meno scritto, una cosa simile! Ho semplicemente fatto uso di una espressione della vulgata, con tanto di citazione da Gregorio Magno, per parlare dell'antico culto delle perdas fittas. Di nuovo, una lettura più attenta gli avrebbe risparmiato questo errore di giudizio.
4) Pittau mi rimprovera un'altra cosa che non ho mai né pensato né scritto, e cioè di negare l'esistenza della romanizzazione. E di far risalire tutto ciò che è latino al Neolitico. Assolutamente falso. Nella mia teoria c'è, sì, una prima latinizzazione, che risale al Neolitico, ma anche una seconda che risale alla romanizzazione. L'ho scritto innumerevoli volte nella mia opera, e l' ho ripetuto anche nel capitolo sulla Sardegna. Di nuovo, la lettura di Pittau si dimostra inaccurata.
5) Pittau si dichiara «esterrefatto» perché sostengo che la divisione dialettale della Sardegna, fra Gallurese- Sassarese, Nuorese-Logudorese e Campidanese, sarebbe già riconoscibile nel Neolitico, e mi invita a dimostrarlo. Non ce n'è nessun bisogno: credo di averlo già fatto, e proprio nel capitolo da lui criticato, in cui sono illustrati tutti gli elementi – archeologici, geografici e cronologici – atti a sostenere la tesi. Rilegga quindi più attentamente il mio capitolo, e si aggiorni sulle culture archeologiche da me illustrate: evidentemente, la sua cultura archeologica si ferma all'età nuragica. In effetti, non solo il capitolo sulla Sardegna, ma l'intera mia opera delle Origini si basa su una buona conoscenza della preistoria europea, e mira a dimostrare la continuità delle aree etnolinguistiche europee dal Neolitico in poi, basandomi sulla precisa convergenza delle aree linguistiche (e dialettali) europee con quelle archeologiche.
6) Per quanto riguarda la presenza dei Celti in Sardegna non basta dire "non convincente" per demolire una tesi.
7) Ammetto l'imprecisione, nell'aver definito Sassari “centro di diffusione linguistica” (pagg. 680-681).
8) Capisco che ricondurre nuraghe a nura 'nuora' possa sembrare "umoristico", fuori del contesto in cui ho posto la mia etimologia. Ma anche per questo punto, rileggendo a distanza di anni il mio testo, trovo che vi siano sufficienti argomenti che giustificano l'ipotesi. Ovviamente, per usare due miei neologismi, un'etimologia è molto più spesso un'etimotesi, cioè un'ipotesi di lavoro, che non un'etimografia, cioè una tesi dimostrabile con argomenti inoppugnabili. Anche l'etimologia di nuraghe proposta da Pittau è un'etimotesi, e non una etimografia. Ora, confrontare due diverse etimotesi, e decidere quale delle due sia migliore, non è mai un esercizio facile: non lo è neanche in questo caso. Auguriamoci che la ricerca ulteriore possa decidere quale delle due abbia più senso.
Alla fine della mia replica, dato che solo una (la meno importante, e in sé trascurabile) delle sue otto "obiezioni di fondo" Pittau si dimostra giustificata, potrei dire che "un disastro" si adatta forse più alla sua lettura del mio capitolo, che non al mio capitolo stesso; ma preferisco suggerire, al mio collega, una maggiore attenzione per quello che legge e per il suo autore.
Il collega Pittau, il 20/1/2011 su questo blog ha giudicato "un disastro" il capitolo da me dedicato alla Sardegna nel secondo volume delle mie Origini (1997-2000). Ciò che mi dispiace soltanto perché, dieci anni dopo (!) la pubblicazione, e circa quindici dopo la concezione, mi costringe a fare qualcosa che, come diceva Sartre, a nessun autore piace molto: rileggere a distanza di tempo una propria opera. Per di più, essendo io divenuto, dieci anni dopo, ormai abbastanza anziano, non avrei neanche il tempo per riscriverlo, quel capitolo, o per modificarlo, se la sua critica mi spingesse a farlo. Per mia fortuna, la sua critica non ha prodotto questo risultato. Mi limiterò quindi a rispondere alle sue otto "obiezioni di fondo", per chiarire alcuni punti e porgli, a mia volta, qualche interrogativo.
1) Pittau ritiene che io non abbia una "competenza sufficiente per immischiar[m]i e discutere di questioni archeologiche, che partono addirittura dal Mesolitico … o anche dal Neolitico». Per di più, valendomi di Lilliu, «del quale molti Sardi sanno che ha preso grossi abbagli, l'uno più grande dell'altro». Noto una duplice contraddizione: da un lato io, linguista, non avrei il diritto di immischiarmi in questioni archeologiche, mentre lui, linguista come me, avrebbe il diritto di giudicare severamente un rinomato ed autorevole archeologo? Inoltre, lo stesso Pittau dimostra di tenersi criticamente aggiornato sulle ricerche di geo-genetica, ed usa costantemente i nuraghi – cioè monumenti archeologici, e non linguistici – come punto di riferimento per le sue teorie. Come la mettiamo? Per di più, io credo che un linguista abbia non solo il diritto, ma il dovere di allargare i propri orizzonti in tutte le direzioni che gli sembrano opportune per l'approfondimento delle proprie conoscenze.
2) Come la maggioranza dei linguisti, anche Pittau non crede che a linguistica possa andare indietro nel tempo. Come la maggioranza dei linguisti, tuttavia, a mio avviso sbaglia: da attivo etimologo, quale è, Pittau dovrebbe rendersi conto, anche teoricamente e metodologicamente, dell'enorme valore che si nasconde nell'etimologia delle parole per la datazione del lessico. Parole latine come delirare 'uscire dal solco dell'aratro', o egregius, in origine 'che esce fuori del gregge', o parole italiane dialettali come mazza 'vomere dell'aratro', ed innumerevoli altre che ho elencato in tanti miei lavori, non possono essere di epoca romana, ma devono risalire, rispettivamente, alla scoperta dell'agricoltura, a quella dell'allevamento, e all'aratro di legno, cioè al Neo-Calcolitico. Evidentemente, Pittau non conosce la mia teoria dell'autodatazione lessicale, basata sul primato, nell'etimologia, dell'iconimo, o motivazione etimologica, e del suo rapporto con il significante ed il significato. Posso solo invitarlo a leggere il mio ultimo libro, Origine delle parole (2009), oltre che i miei numerosi articoli sull'argomento. A mio avviso, non si dovrebbe giudicare un autore senza conoscere le sue opere principali.
3) Pittau mi rimprovera aspramente (e, di nuovo, troppo frettolosamente) per avere scritto «i Barbaricini (cioè i Sardi mai romanizzati)» (p. 650), ritenendo che con questo io volessi negare la latinità della Barbagia. Ma non ho mai pensato, né tanto meno scritto, una cosa simile! Ho semplicemente fatto uso di una espressione della vulgata, con tanto di citazione da Gregorio Magno, per parlare dell'antico culto delle perdas fittas. Di nuovo, una lettura più attenta gli avrebbe risparmiato questo errore di giudizio.
4) Pittau mi rimprovera un'altra cosa che non ho mai né pensato né scritto, e cioè di negare l'esistenza della romanizzazione. E di far risalire tutto ciò che è latino al Neolitico. Assolutamente falso. Nella mia teoria c'è, sì, una prima latinizzazione, che risale al Neolitico, ma anche una seconda che risale alla romanizzazione. L'ho scritto innumerevoli volte nella mia opera, e l' ho ripetuto anche nel capitolo sulla Sardegna. Di nuovo, la lettura di Pittau si dimostra inaccurata.
5) Pittau si dichiara «esterrefatto» perché sostengo che la divisione dialettale della Sardegna, fra Gallurese- Sassarese, Nuorese-Logudorese e Campidanese, sarebbe già riconoscibile nel Neolitico, e mi invita a dimostrarlo. Non ce n'è nessun bisogno: credo di averlo già fatto, e proprio nel capitolo da lui criticato, in cui sono illustrati tutti gli elementi – archeologici, geografici e cronologici – atti a sostenere la tesi. Rilegga quindi più attentamente il mio capitolo, e si aggiorni sulle culture archeologiche da me illustrate: evidentemente, la sua cultura archeologica si ferma all'età nuragica. In effetti, non solo il capitolo sulla Sardegna, ma l'intera mia opera delle Origini si basa su una buona conoscenza della preistoria europea, e mira a dimostrare la continuità delle aree etnolinguistiche europee dal Neolitico in poi, basandomi sulla precisa convergenza delle aree linguistiche (e dialettali) europee con quelle archeologiche.
6) Per quanto riguarda la presenza dei Celti in Sardegna non basta dire "non convincente" per demolire una tesi.
7) Ammetto l'imprecisione, nell'aver definito Sassari “centro di diffusione linguistica” (pagg. 680-681).
8) Capisco che ricondurre nuraghe a nura 'nuora' possa sembrare "umoristico", fuori del contesto in cui ho posto la mia etimologia. Ma anche per questo punto, rileggendo a distanza di anni il mio testo, trovo che vi siano sufficienti argomenti che giustificano l'ipotesi. Ovviamente, per usare due miei neologismi, un'etimologia è molto più spesso un'etimotesi, cioè un'ipotesi di lavoro, che non un'etimografia, cioè una tesi dimostrabile con argomenti inoppugnabili. Anche l'etimologia di nuraghe proposta da Pittau è un'etimotesi, e non una etimografia. Ora, confrontare due diverse etimotesi, e decidere quale delle due sia migliore, non è mai un esercizio facile: non lo è neanche in questo caso. Auguriamoci che la ricerca ulteriore possa decidere quale delle due abbia più senso.
Alla fine della mia replica, dato che solo una (la meno importante, e in sé trascurabile) delle sue otto "obiezioni di fondo" Pittau si dimostra giustificata, potrei dire che "un disastro" si adatta forse più alla sua lettura del mio capitolo, che non al mio capitolo stesso; ma preferisco suggerire, al mio collega, una maggiore attenzione per quello che legge e per il suo autore.
La Lingua sarda secondo Mario Alinei (2)
di Massimo Pittau
Rispondo in maniera essenziale e globale agli Amici che mi hanno fatto obiezioni per quanto io ho scritto sulla tesi che il prof. Mario Alinei ha formulato sulla lingua sarda.
1) Io non intendo entrare per nulla in questioni relative al Mesolitico e al Neolitico, per il fatto che questa non è la mia specializzazione scientifica e sull’argomento non saprei dire nulla di scientifico. Però mi permetto di dire che mi fanno sorridere coloro che, solo per aver letto alcuni libri o articoli, si sentono autorizzati a manifestare adesioni e a formulare giudizi sull’argomento.
2) Io non sono specialista in “linguistica indoeuropea” e pertanto neppure in questo campo oso entrare per dire il mio parere. Dico soltanto di constatare che il prof. Alinei è stato per l’appunto criticato da linguisti indoeuropeisti. Ed anche qui dico che mi fanno sorridere coloro che, non essendo linguisti e tanto meno linguisti indoeuropeisti, osano entrare con disinvoltura e sicurezza anche su questo argomento.
3) Io non oso entrare neppure sul tema delle lingue romanze o neolatine in generale (sul quale pure il prof. Alinei è stato contestato dallo specialista prof. Lorenzo Renzi), per il fatto che io sono specialista in una sola delle lingue neolatine, il sardo. Ebbene, credo di poter affermare, con cognizione di causa, che la tesi del prof. Alinei sulla lingua sarda è completamente errata. In una eventuale nuova edizione della sua opera il prof. Alinei dovrebbe, a mio parere, togliere del tutto quel capitolo XVI. A meno che non decida di rifarlo completamente, non senza essersi prima informato su quanto è stato scritto sulla lingua sarda nell’ultimo cinquantennio, dopo le ultime opere di Max Leopold Wagner, che sono degli anni Sessanta.
4) Anche il signor Jesùs Sanchis ha letto con molta disattenzione il mio articolo, arrivando a formulare giudizi alquanto avventati. Esempio: dice che esistono zone della Romania (cioè dell’antico Impero Romano), nelle quali c’è stata una forte presenza di Romani, ma gli odierni abitanti non parlano affatto una lingua neolatina. Lo sapevo bene, basti pensare alla Grecia. Ma in Sardegna e particolarmente in Barbagia abbiamo una situazione del tutto opposta: c’è stata sicuramente una forte presenza dei Romani, perché lo dimostrano chiarissimamente tutti i suddialetti dei paesi della Barbagia, che sono totalmente e profondamente neolatini. Veda, signor Sanchis, se Lei chiede a un Sardo quale sia il villaggio della Barbagia che sia “il più barbaricino degli altri”, indubitabilmente Le risponderà Orgosolo. Io qualche anno fa ho avuto modo di interessarmi in maniera particolare del dialetto orgolese e, con mio notevole stupore, ho constatato che esso è quasi del tutto identico a quello della vicina mia città natale, Nùoro, del quale ho già citato la mia fortunata opera: Grammatica del Sardo-Nuorese – il più conservativo dei parlari neolatini, Bologna, II edizione 1972, 5ª ristampa 1986. È quasi incredibile: due soli lievissimi fenomeni fonetici differenziano il dialetto di Nùoro da quello di Orgosolo: noi Nuoresi diciamo deke «dieci», luke «luce», pake «pace», mentre gli Orgolesi dicono deqe, luqe, paqe (con la lettera /q/ stiamo ormai scrivendo il “colpo di glottide” barbaricino, che non è altro che un forte iato); noi Nuoresi diciamo fémina «donna», fizu «figlio», focu «foglia», mentre gli Orgolesi dicono émina, izu, oqu (con la caduta della /f/). Questi due lievi fenomeni fonetici del dialetto orgolese e anche di tutti i suddialetti della Barbagia di Ollolai, sono gli unici resti dell’antica lingua prelatina e protosarda. Essi sono tanto lievi, che non è affatto legittimo tentare di trarne tracce e motivi di origine e derivazione. Oltre a ciò, ovviamente, è da citare un centinaio di relitti lessicali, che esistono nei suddialetti barbaricini, come in quasi tutti gli altri sardi. E pure non pochi toponimi.
Ebbene, questo carattere totalmente e profondamente latino di tutti i suddialetti barbaricini trova una sola possibile spiegazione: anche in Barbagia i Romani hanno vinto e stravinto e dominato.
E poi presento un elenco aggiornato dei ponti romani, intatti o deruti, che si trovano in Barbagia e nel centro montano: Illorai, Galtellì, Dorgali, Oliena, Fonni, Gavoi, Isili, Allai e chiedo al signor Sanchis: anche questi ponti risalgono al Neolitico? E risalgono al Neolitico pure le iscrizioni latine che sono state trovate in questi villaggi del Centro montano: Benetutti, Bitti, Orune, Orotelli, Fonni, Austis, Sorgono, Meana, Laconi, Nurallao, Nuragus, Ortueri, Samugheo, Isili, Seulo, Ussassài, Ulassài? Ma non sappiamo tutti che i Romani hanno derivato il loro alfabeto da quello greco (forse anche per tramite dell’etrusco) solamente verso il VI secolo a. C. (Lapis niger 575-550)?
Rispondo in maniera essenziale e globale agli Amici che mi hanno fatto obiezioni per quanto io ho scritto sulla tesi che il prof. Mario Alinei ha formulato sulla lingua sarda.
1) Io non intendo entrare per nulla in questioni relative al Mesolitico e al Neolitico, per il fatto che questa non è la mia specializzazione scientifica e sull’argomento non saprei dire nulla di scientifico. Però mi permetto di dire che mi fanno sorridere coloro che, solo per aver letto alcuni libri o articoli, si sentono autorizzati a manifestare adesioni e a formulare giudizi sull’argomento.
2) Io non sono specialista in “linguistica indoeuropea” e pertanto neppure in questo campo oso entrare per dire il mio parere. Dico soltanto di constatare che il prof. Alinei è stato per l’appunto criticato da linguisti indoeuropeisti. Ed anche qui dico che mi fanno sorridere coloro che, non essendo linguisti e tanto meno linguisti indoeuropeisti, osano entrare con disinvoltura e sicurezza anche su questo argomento.
3) Io non oso entrare neppure sul tema delle lingue romanze o neolatine in generale (sul quale pure il prof. Alinei è stato contestato dallo specialista prof. Lorenzo Renzi), per il fatto che io sono specialista in una sola delle lingue neolatine, il sardo. Ebbene, credo di poter affermare, con cognizione di causa, che la tesi del prof. Alinei sulla lingua sarda è completamente errata. In una eventuale nuova edizione della sua opera il prof. Alinei dovrebbe, a mio parere, togliere del tutto quel capitolo XVI. A meno che non decida di rifarlo completamente, non senza essersi prima informato su quanto è stato scritto sulla lingua sarda nell’ultimo cinquantennio, dopo le ultime opere di Max Leopold Wagner, che sono degli anni Sessanta.
4) Anche il signor Jesùs Sanchis ha letto con molta disattenzione il mio articolo, arrivando a formulare giudizi alquanto avventati. Esempio: dice che esistono zone della Romania (cioè dell’antico Impero Romano), nelle quali c’è stata una forte presenza di Romani, ma gli odierni abitanti non parlano affatto una lingua neolatina. Lo sapevo bene, basti pensare alla Grecia. Ma in Sardegna e particolarmente in Barbagia abbiamo una situazione del tutto opposta: c’è stata sicuramente una forte presenza dei Romani, perché lo dimostrano chiarissimamente tutti i suddialetti dei paesi della Barbagia, che sono totalmente e profondamente neolatini. Veda, signor Sanchis, se Lei chiede a un Sardo quale sia il villaggio della Barbagia che sia “il più barbaricino degli altri”, indubitabilmente Le risponderà Orgosolo. Io qualche anno fa ho avuto modo di interessarmi in maniera particolare del dialetto orgolese e, con mio notevole stupore, ho constatato che esso è quasi del tutto identico a quello della vicina mia città natale, Nùoro, del quale ho già citato la mia fortunata opera: Grammatica del Sardo-Nuorese – il più conservativo dei parlari neolatini, Bologna, II edizione 1972, 5ª ristampa 1986. È quasi incredibile: due soli lievissimi fenomeni fonetici differenziano il dialetto di Nùoro da quello di Orgosolo: noi Nuoresi diciamo deke «dieci», luke «luce», pake «pace», mentre gli Orgolesi dicono deqe, luqe, paqe (con la lettera /q/ stiamo ormai scrivendo il “colpo di glottide” barbaricino, che non è altro che un forte iato); noi Nuoresi diciamo fémina «donna», fizu «figlio», focu «foglia», mentre gli Orgolesi dicono émina, izu, oqu (con la caduta della /f/). Questi due lievi fenomeni fonetici del dialetto orgolese e anche di tutti i suddialetti della Barbagia di Ollolai, sono gli unici resti dell’antica lingua prelatina e protosarda. Essi sono tanto lievi, che non è affatto legittimo tentare di trarne tracce e motivi di origine e derivazione. Oltre a ciò, ovviamente, è da citare un centinaio di relitti lessicali, che esistono nei suddialetti barbaricini, come in quasi tutti gli altri sardi. E pure non pochi toponimi.
Ebbene, questo carattere totalmente e profondamente latino di tutti i suddialetti barbaricini trova una sola possibile spiegazione: anche in Barbagia i Romani hanno vinto e stravinto e dominato.
E poi presento un elenco aggiornato dei ponti romani, intatti o deruti, che si trovano in Barbagia e nel centro montano: Illorai, Galtellì, Dorgali, Oliena, Fonni, Gavoi, Isili, Allai e chiedo al signor Sanchis: anche questi ponti risalgono al Neolitico? E risalgono al Neolitico pure le iscrizioni latine che sono state trovate in questi villaggi del Centro montano: Benetutti, Bitti, Orune, Orotelli, Fonni, Austis, Sorgono, Meana, Laconi, Nurallao, Nuragus, Ortueri, Samugheo, Isili, Seulo, Ussassài, Ulassài? Ma non sappiamo tutti che i Romani hanno derivato il loro alfabeto da quello greco (forse anche per tramite dell’etrusco) solamente verso il VI secolo a. C. (Lapis niger 575-550)?
giovedì 20 gennaio 2011
La lingua sarda secondo Mario Alinei
di Massimo Pittau
Debbo riconoscerlo: nella mia qualifica di già professore ordinario di Linguistica Sarda nell’Università di Sassari e soprattutto di autore che finora ha scritto e pubblicato più di tutti gli altri linguisti intorno alla «Lingua Sarda» - ormai molto più dello stesso Max Leopold Wagner – incombeva su di me l’obbligo di esprimere un parere pubblico intorno al capitolo che il prof. Mario Alinei ha dedicato alla nostra lingua, nella sua molto discussa opera “Origine delle lingue d’Europa” – II. Continuità dal Mesolitico all’età del ferro nelle principali aree etnolinguistiche (Bologna 2000, cap. XVI). Se non ho espresso il mio parere sul capitolo dell’Alinei dipende dal fatto che, a lettura finita del capitolo, ho tratto la conclusione che quanto vi risulta scritto è un “disastro”. E questo è dipeso – a mio modesto avviso - dalla circostanza che l’Alinei si è infilato nell’argomento con una notevole disinformazione sia sulla preistoria, protostoria e storia della Sardegna, sia sugli ultimi 50 anni di studi linguistici sul sardo.
Avevo dunque deciso di sorvolare e di tacere. Senonché vado constatando che le tesi dell’Alinei sono state fatte proprie da alcuni intellettuali sardi – che però non sono affatto specialisti di linguistica sarda né di linguistica in generale – i quali le stanno mettendo in circolazione, sia pure non in scritti scientifici. Ed allora ho preso la decisione di esprimere pubblicamente il mio parere sulle tesi dell’Alinei, al quale io formulo le seguenti obiezioni di fondo.
1) Siccome l’Alinei è stato sempre un linguista, io gli contesto il fatto che egli abbia la competenza sufficiente per immischiarsi e discutere di questioni archeologiche, che partono addirittura dal Mesolitico (VII millennio a. C.) o anche dal Neolitico (pag. 642). Per il vero egli si rifà continuamente e solamente a un archeologo sardo, del quale però molti Sardi sanno che ha preso grossi abbagli, l’uno più grande dell’altro.
2) Anche io obietto all’Alinei che in realtà la linguistica storica non ha alcuna possibilità di andare tanto indietro nei secoli. In miei recenti interventi, che ho anche messo in circolazione in vari siti internet, ho segnalato che, rispetto agli studi sul sostrato linguistico prelatino della Sardegna, l’unica cosa quasi certa che possiamo dichiarare in termini cronologici è che un trentina di nomi di piante o fitonimi di chiara “matrice mediterranea” sono ascrivibili alla lingua o alle lingue che parlavano i “Prenuragici”. Ma questi non risultano, sul piano strettamente linguistico, tanto antichi nel tempo, posto che tra gli archeologi la data di inizio della costruzione dei nuraghi non viene riportata oltre il XVI sec. a. C.
3) L’Alinei paga il suo tributo a un “luogo comune”, che in Sardegna va avanti solamente per motivi sciovinistici, secondo cui «i Barbaricini non furono mai romanizzati» (pag. 650). Ma come è possibile che un linguista di professione sostenga una tesi di questo genere? Nei villaggi più isolati della Barbagia si parlano tuttora “dialetti neolatini” e non soltanto rispetto ai fonemi /k/, /g/ (velari), ma anche e soprattutto rispetto alla “struttura grammaticale” e al “lessico”, i quali sono campi molto più importanti e più significativi della fonetica. L’Alinei evidentemente non conosce la mia opera - molto fortunata - che si trova in tutti gli Istituti di Lingue Neolatine d’Europa, Grammatica del Sardo-Nuorese – il più conservativo dei parlari neolatini (Bologna, II edizione 1972, 5ª ristampa 1986). Anche nel lessico di questi dialetti latino-barbaricini i relitti prelatini sono scarsissimi. Nella mia recente opera La Lingua Sardiana o dei Protosardi, Cagliari 2001 (Libreria Koinè Sassari) sono riuscito a raggranellarne solamente 350 circa. E analoghi risultati ho ottenuto nello studio di circa 20.000 toponimi della Sardegna centrale, quali risulteranno in una mia ampia opera di imminente pubblicazione: l’82,5% dei toponimi sono neolatini e solamente il 12,5% sono prelatini.
4) L’Alinei ignora il fatto, storicamente accertato, dell’esistenza del tracciato di una strada romana che attraversava, da nord a sud, non solo la Barbagia, ma anche tutto il Centro montano dell’Isola, con mansioni a Caput Tyrsi (Sant’Efis di Orune), Mamoiada (dal lat. mansio manubiata «stazione controllata»), Fonni (Sorabile), Austis (da Forum Augusti), Meana (da lat. Mediana) e Valentia (presso Nuragus). Di questi toponimi il più significativo è di certo Austis (mediev. Augustis), dato che ci assicura che proprio all’epoca di Augusto - il quale aveva avocato a sé l’amministrazione della Provincia Sardinia - risale il periodo della massima pressione dei Romani sui Barbaricini.
Evidentemente l’Alinei ignora che resti archeologici romani esistono tuttora a Sant’Efis, Sorabile, Austis e ponti romani a Illorai, Oliena, Dorgali, Fonni, Gavoi; che iscrizioni latine sono state trovate in tutti questi villaggi del Centro montano: Benetutti, Bitti, Orune, Orotelli, Fonni, Austis, Sorgono, Meana, Laconi, Nurallao, Nuragus, Ortueri, Samugheo, Isili, Seulo, Ussassài, Ulassài.
Egli ignora che nel centro montano sono tuttora attestati questi cognomi e toponimi di chiara origine latina: Biteddi, Calvisi, Creschentina, Curreli, Lisini, Mameli, Marcheddine, Marongiu, Masuri, Monni, Pascasi, Prischiani, Serusi, Sisini, Useli, Valeri, Vavori, Verachi, Viriddi, Viseni, i quali sono evidentemente da riportare ai gentilizi o cognomina latini Vitellius, Calvisius, Cornelius o Currelius, Crescentinus-a, Lisinius, Mamelius, Marcellinus, Maronius, Masurius, Monnius, Paschasius, Priscianus, Selusius, Sisinius, *Uselius, Valerius, Favorius, Veracius, Virillius, Visenius (H. Solin et O. Salomies, Repertorium nominum gentilium et cognominum Latinorum, Hildesheim-Zürich-New York 1988), tutti - meno uno - nella forma del vocativo.
La presenza di tutto questo abbondantissimo materiale linguistico latino nel centro montano l’Alinei non la nega, ma egli la riporta all’età neolitica (VI-IV millennio a. C.) come relitto di quella che egli chiama lingua “italide”.
Senonché in tutte le discipline scientifiche si ha il dovere e pure l’interesse a optare sempre per la soluzione più ovvia e più semplice o meno costosa dei problemi ed è immensamente meno costoso riportare la latinità linguistica della Barbagia all’epoca della conquista militare e politica della Sardegna da parte dei Romani (più precisamente, dalla fine della Repubblica ai primi decenni dell’Impero) che non ai millenni lontanissimi e nebulosi del Mesolitito e del Neolitico.
D’altronde, in codesta sua ipotesi, come spiegherebbe l’Alinei le iscrizioni latine, i resti archeologici e i ponti romani che si trovano in tutta la Barbagia, perfino nei suoi siti più isolati? Anche questi risalirebbero al Mesolitico e al Neolitico?
5) Secondo l’Alinei la divisione delle «aree linguistiche Gallurese-Sassarese, Nuorese-Logudorese e Campidanese è riconoscibile fin dal Neolitico» (pag. 665). Mi dichiaro esterrefatto. Come fa a dimostrarlo?
6) Egli parla di influenze linguistiche celtiche in Sardegna (pagg. 674-678), ma non ne presenta una sola convincente.
7) Egli presenta l’area sassarese come “centro di diffusione linguistica” (pagg. 680-681). Ma Sassari non lo è mai stato, come dimostra il fatto che tutti i paesi che gli stanno attorno, anche quelli vicinissimi, parlano il “logudorese” e nient’affatto il “sassarese”.
8) Infine, premesso che l’Alinei ha ignorato quanto io avevo sostenuto, circa l’etimologia dell’appellativo protosardo nuraghe in un mio intervento nel Convegno “Per Giovanni Flechia” (Ivrea 6/12/1992) (ripubblicato dopo nella mia opera Ulisse e Nausica in Sardegna, 1994; e adesso nel mio Dizionario della Lingua Sarda – fraseologico ed etimologico, vol. II 858), chiedo all’egregio collega, se era in vena di umorismo quando ha scritto che l’appellativo nuraghe deriva da nura «nuora» (pag. 684)...
Debbo riconoscerlo: nella mia qualifica di già professore ordinario di Linguistica Sarda nell’Università di Sassari e soprattutto di autore che finora ha scritto e pubblicato più di tutti gli altri linguisti intorno alla «Lingua Sarda» - ormai molto più dello stesso Max Leopold Wagner – incombeva su di me l’obbligo di esprimere un parere pubblico intorno al capitolo che il prof. Mario Alinei ha dedicato alla nostra lingua, nella sua molto discussa opera “Origine delle lingue d’Europa” – II. Continuità dal Mesolitico all’età del ferro nelle principali aree etnolinguistiche (Bologna 2000, cap. XVI). Se non ho espresso il mio parere sul capitolo dell’Alinei dipende dal fatto che, a lettura finita del capitolo, ho tratto la conclusione che quanto vi risulta scritto è un “disastro”. E questo è dipeso – a mio modesto avviso - dalla circostanza che l’Alinei si è infilato nell’argomento con una notevole disinformazione sia sulla preistoria, protostoria e storia della Sardegna, sia sugli ultimi 50 anni di studi linguistici sul sardo.
Avevo dunque deciso di sorvolare e di tacere. Senonché vado constatando che le tesi dell’Alinei sono state fatte proprie da alcuni intellettuali sardi – che però non sono affatto specialisti di linguistica sarda né di linguistica in generale – i quali le stanno mettendo in circolazione, sia pure non in scritti scientifici. Ed allora ho preso la decisione di esprimere pubblicamente il mio parere sulle tesi dell’Alinei, al quale io formulo le seguenti obiezioni di fondo.
1) Siccome l’Alinei è stato sempre un linguista, io gli contesto il fatto che egli abbia la competenza sufficiente per immischiarsi e discutere di questioni archeologiche, che partono addirittura dal Mesolitico (VII millennio a. C.) o anche dal Neolitico (pag. 642). Per il vero egli si rifà continuamente e solamente a un archeologo sardo, del quale però molti Sardi sanno che ha preso grossi abbagli, l’uno più grande dell’altro.
2) Anche io obietto all’Alinei che in realtà la linguistica storica non ha alcuna possibilità di andare tanto indietro nei secoli. In miei recenti interventi, che ho anche messo in circolazione in vari siti internet, ho segnalato che, rispetto agli studi sul sostrato linguistico prelatino della Sardegna, l’unica cosa quasi certa che possiamo dichiarare in termini cronologici è che un trentina di nomi di piante o fitonimi di chiara “matrice mediterranea” sono ascrivibili alla lingua o alle lingue che parlavano i “Prenuragici”. Ma questi non risultano, sul piano strettamente linguistico, tanto antichi nel tempo, posto che tra gli archeologi la data di inizio della costruzione dei nuraghi non viene riportata oltre il XVI sec. a. C.
3) L’Alinei paga il suo tributo a un “luogo comune”, che in Sardegna va avanti solamente per motivi sciovinistici, secondo cui «i Barbaricini non furono mai romanizzati» (pag. 650). Ma come è possibile che un linguista di professione sostenga una tesi di questo genere? Nei villaggi più isolati della Barbagia si parlano tuttora “dialetti neolatini” e non soltanto rispetto ai fonemi /k/, /g/ (velari), ma anche e soprattutto rispetto alla “struttura grammaticale” e al “lessico”, i quali sono campi molto più importanti e più significativi della fonetica. L’Alinei evidentemente non conosce la mia opera - molto fortunata - che si trova in tutti gli Istituti di Lingue Neolatine d’Europa, Grammatica del Sardo-Nuorese – il più conservativo dei parlari neolatini (Bologna, II edizione 1972, 5ª ristampa 1986). Anche nel lessico di questi dialetti latino-barbaricini i relitti prelatini sono scarsissimi. Nella mia recente opera La Lingua Sardiana o dei Protosardi, Cagliari 2001 (Libreria Koinè Sassari) sono riuscito a raggranellarne solamente 350 circa. E analoghi risultati ho ottenuto nello studio di circa 20.000 toponimi della Sardegna centrale, quali risulteranno in una mia ampia opera di imminente pubblicazione: l’82,5% dei toponimi sono neolatini e solamente il 12,5% sono prelatini.
4) L’Alinei ignora il fatto, storicamente accertato, dell’esistenza del tracciato di una strada romana che attraversava, da nord a sud, non solo la Barbagia, ma anche tutto il Centro montano dell’Isola, con mansioni a Caput Tyrsi (Sant’Efis di Orune), Mamoiada (dal lat. mansio manubiata «stazione controllata»), Fonni (Sorabile), Austis (da Forum Augusti), Meana (da lat. Mediana) e Valentia (presso Nuragus). Di questi toponimi il più significativo è di certo Austis (mediev. Augustis), dato che ci assicura che proprio all’epoca di Augusto - il quale aveva avocato a sé l’amministrazione della Provincia Sardinia - risale il periodo della massima pressione dei Romani sui Barbaricini.
Evidentemente l’Alinei ignora che resti archeologici romani esistono tuttora a Sant’Efis, Sorabile, Austis e ponti romani a Illorai, Oliena, Dorgali, Fonni, Gavoi; che iscrizioni latine sono state trovate in tutti questi villaggi del Centro montano: Benetutti, Bitti, Orune, Orotelli, Fonni, Austis, Sorgono, Meana, Laconi, Nurallao, Nuragus, Ortueri, Samugheo, Isili, Seulo, Ussassài, Ulassài.
Egli ignora che nel centro montano sono tuttora attestati questi cognomi e toponimi di chiara origine latina: Biteddi, Calvisi, Creschentina, Curreli, Lisini, Mameli, Marcheddine, Marongiu, Masuri, Monni, Pascasi, Prischiani, Serusi, Sisini, Useli, Valeri, Vavori, Verachi, Viriddi, Viseni, i quali sono evidentemente da riportare ai gentilizi o cognomina latini Vitellius, Calvisius, Cornelius o Currelius, Crescentinus-a, Lisinius, Mamelius, Marcellinus, Maronius, Masurius, Monnius, Paschasius, Priscianus, Selusius, Sisinius, *Uselius, Valerius, Favorius, Veracius, Virillius, Visenius (H. Solin et O. Salomies, Repertorium nominum gentilium et cognominum Latinorum, Hildesheim-Zürich-New York 1988), tutti - meno uno - nella forma del vocativo.
La presenza di tutto questo abbondantissimo materiale linguistico latino nel centro montano l’Alinei non la nega, ma egli la riporta all’età neolitica (VI-IV millennio a. C.) come relitto di quella che egli chiama lingua “italide”.
Senonché in tutte le discipline scientifiche si ha il dovere e pure l’interesse a optare sempre per la soluzione più ovvia e più semplice o meno costosa dei problemi ed è immensamente meno costoso riportare la latinità linguistica della Barbagia all’epoca della conquista militare e politica della Sardegna da parte dei Romani (più precisamente, dalla fine della Repubblica ai primi decenni dell’Impero) che non ai millenni lontanissimi e nebulosi del Mesolitito e del Neolitico.
D’altronde, in codesta sua ipotesi, come spiegherebbe l’Alinei le iscrizioni latine, i resti archeologici e i ponti romani che si trovano in tutta la Barbagia, perfino nei suoi siti più isolati? Anche questi risalirebbero al Mesolitico e al Neolitico?
5) Secondo l’Alinei la divisione delle «aree linguistiche Gallurese-Sassarese, Nuorese-Logudorese e Campidanese è riconoscibile fin dal Neolitico» (pag. 665). Mi dichiaro esterrefatto. Come fa a dimostrarlo?
6) Egli parla di influenze linguistiche celtiche in Sardegna (pagg. 674-678), ma non ne presenta una sola convincente.
7) Egli presenta l’area sassarese come “centro di diffusione linguistica” (pagg. 680-681). Ma Sassari non lo è mai stato, come dimostra il fatto che tutti i paesi che gli stanno attorno, anche quelli vicinissimi, parlano il “logudorese” e nient’affatto il “sassarese”.
8) Infine, premesso che l’Alinei ha ignorato quanto io avevo sostenuto, circa l’etimologia dell’appellativo protosardo nuraghe in un mio intervento nel Convegno “Per Giovanni Flechia” (Ivrea 6/12/1992) (ripubblicato dopo nella mia opera Ulisse e Nausica in Sardegna, 1994; e adesso nel mio Dizionario della Lingua Sarda – fraseologico ed etimologico, vol. II 858), chiedo all’egregio collega, se era in vena di umorismo quando ha scritto che l’appellativo nuraghe deriva da nura «nuora» (pag. 684)...
lunedì 17 gennaio 2011
Sul martello dell’accabadora.
di Franco Laner
Vorrei aggiungere una mia versione ed interpretazione del martello per l’accabadura, stimolato dall’intrigante saggio di Massimo Pittau, pubblicato sulla rivista “Sardegna mediterranea” (n. 29, speciale per capodanno 2011) che la sua infaticabile Direttrice Dolores Turchi ha regalato ai suoi affezionati lettori abbonati al semestrale.
Mi scuso intanto di scrivere accabadora con una sola b. Non mi sento di smentire il titolo del mio libro del 1999, frutto di una ricerca. Nel suo dizionario , il canonico Scano la scrive con una b e mi pare che lo stesso Pittau l’abbia così scritta nel suo “Ulisse e Nausica in Sardegna” (1994), anche se ora ci invita a scriverlo con due b!
Comunque sia, in questo freschissimo saggio l’emerito linguista sviscera l’impiego sacro e profano del martello, con notazioni semantiche, ma anche linguistiche, con lo scopo ultimo di portare ulteriori prove alla tesi della provenienza dalla Lidia degli etruschi e la parentela sardo-etrusca.
Il saggio ha un apparato iconografico molto appropriato. Simpatica la notazione dell’impiego del martello, che decreta la fine di molte operazioni.
Ma spesso anche l’inizio, come il richiamo del gong, aggiungo io!
Facilmente condivisibile l’ipotesi del professore che il ricorso al martello avesse il pregio dell’immediato effetto e soprattutto non cruento. Anche il soffocamento dell’ammalato terminale, altra pratica di eutanasia, potrebbe avere questa giustificazione.
Osservo però che il martello dell’accabadora -mi riferisco anch’io a quello del museo di Luras, amorosamente curato da Giacomo Pala- è assai particolare.
Il legno è l’olivastro ed è costituito da un unico pezzo, non ci sono cioè i due classici pezzi, manico e testa. La spiegazione potrebbe dipendere dal fatto che prima che l’accabadora entrasse nella stanza dell’ammalato, ogni oggetto sacro veniva tolto e così ogni immagine ed ogni riferimento religioso.
La forma del martello tradizionale, col manico e la testa infilata, ha forma di croce e perciò l’atto sarebbe stato compiuto con qualcosa che non andava bene…Sarà per questo?
La scelta dell’olivastro potrebbe dipendere dal fatto che il peso specifico di questa specie è molto elevato e quindi più funzionale, perché pesante oppure che solo nell’olivastro si può trovare un’anomalia di crescita da poter ricavare quella particolare forma. Oppure ancora ad un particolare significato di questa specie legnosa.
Qualche ulteriore riflessione potrebbe chiarire meglio la singolare forma del martello di Luras, mentre sul martello etrusco e sardo basta e avanzano le notazioni di Massimo Pittau
Vorrei aggiungere una mia versione ed interpretazione del martello per l’accabadura, stimolato dall’intrigante saggio di Massimo Pittau, pubblicato sulla rivista “Sardegna mediterranea” (n. 29, speciale per capodanno 2011) che la sua infaticabile Direttrice Dolores Turchi ha regalato ai suoi affezionati lettori abbonati al semestrale.
Mi scuso intanto di scrivere accabadora con una sola b. Non mi sento di smentire il titolo del mio libro del 1999, frutto di una ricerca. Nel suo dizionario , il canonico Scano la scrive con una b e mi pare che lo stesso Pittau l’abbia così scritta nel suo “Ulisse e Nausica in Sardegna” (1994), anche se ora ci invita a scriverlo con due b!
Comunque sia, in questo freschissimo saggio l’emerito linguista sviscera l’impiego sacro e profano del martello, con notazioni semantiche, ma anche linguistiche, con lo scopo ultimo di portare ulteriori prove alla tesi della provenienza dalla Lidia degli etruschi e la parentela sardo-etrusca.
Il saggio ha un apparato iconografico molto appropriato. Simpatica la notazione dell’impiego del martello, che decreta la fine di molte operazioni.
Ma spesso anche l’inizio, come il richiamo del gong, aggiungo io!
Facilmente condivisibile l’ipotesi del professore che il ricorso al martello avesse il pregio dell’immediato effetto e soprattutto non cruento. Anche il soffocamento dell’ammalato terminale, altra pratica di eutanasia, potrebbe avere questa giustificazione.
Osservo però che il martello dell’accabadora -mi riferisco anch’io a quello del museo di Luras, amorosamente curato da Giacomo Pala- è assai particolare.
Il legno è l’olivastro ed è costituito da un unico pezzo, non ci sono cioè i due classici pezzi, manico e testa. La spiegazione potrebbe dipendere dal fatto che prima che l’accabadora entrasse nella stanza dell’ammalato, ogni oggetto sacro veniva tolto e così ogni immagine ed ogni riferimento religioso.
La forma del martello tradizionale, col manico e la testa infilata, ha forma di croce e perciò l’atto sarebbe stato compiuto con qualcosa che non andava bene…Sarà per questo?
La scelta dell’olivastro potrebbe dipendere dal fatto che il peso specifico di questa specie è molto elevato e quindi più funzionale, perché pesante oppure che solo nell’olivastro si può trovare un’anomalia di crescita da poter ricavare quella particolare forma. Oppure ancora ad un particolare significato di questa specie legnosa.
Qualche ulteriore riflessione potrebbe chiarire meglio la singolare forma del martello di Luras, mentre sul martello etrusco e sardo basta e avanzano le notazioni di Massimo Pittau
mercoledì 1 dicembre 2010
Solstizio d’inverno tra i nuraghi
Nei giorni 18 e 19 dicembre 2010 , siete tutti invitati alla gita archeoastronomica organizzata da Paolo Littarru e Mauro Peppino Zedda.
Si visiteranno:
- il pozzo sacro di Santa Cristina di Paulilatino,
- i nuraghi Zuras e Losa di Abbasanta, il Santu Antine di Torralba,
- l'altare tronco piramidale di Monte d’Accoddi a Portotorres.
Nella mattina del 18 dicembre (h 11.00) visiteremo il pozzo di Santa Cristina illustrando il significato astronomico di questo straordinario monumento, definito dal Prof. Arnold Lebeuf “il più sofisticato osservatorio astronomico lunare dell’antichità”.
Nel primo pomeriggio, dopo un pranzo al sacco, la visita si sposterà al nuraghe Zuras di Abbasanta , dove verrà illustrato lo straordinario significato astronomico lunare di questo nuraghe.
Poi ci recheremo al Losa di Abbasanta, un nuraghe astronomicamente concepito, i cui lati sono incardinati lungo gli assi solstiziali; dopo l’illustrazione delle caratteristiche astronomiche del monumento si potrà osservare (nuvole permettendo) il tramonto del Sole in asse col paramento murario orientato lungo l’asse alba solstizio d’estate – tramonto solstizio d’inverno.
La mattina del 19 dicembre appuntamento presso il nuraghe Santu Antine di Torralba alle 7.20 del mattino, Si inizierà con l’osservazione del sorgere del Sole , sperimentando empiricamente il significato astronomico di questo nuraghe, poi verrà illustrato il significato astronomico complessivo di questo monumento.
A mezza mattina ci si recherà a visitare l’altare tronco piramidale di Monte d’Accoddi , verrà illustrato il suo significato astronomico , connesso coi cicli del Sole, Luna e Venere.
La partecipazione alla gita è libera e gratuita , ogni partecipante dovrà provvedere alle proprie spese di vitto e alloggio e all’eventuale biglietto d’ingresso ai monumenti.
Per info : Paolo Littarru cell. 339 5745528
Si visiteranno:
- il pozzo sacro di Santa Cristina di Paulilatino,
- i nuraghi Zuras e Losa di Abbasanta, il Santu Antine di Torralba,
- l'altare tronco piramidale di Monte d’Accoddi a Portotorres.
Nella mattina del 18 dicembre (h 11.00) visiteremo il pozzo di Santa Cristina illustrando il significato astronomico di questo straordinario monumento, definito dal Prof. Arnold Lebeuf “il più sofisticato osservatorio astronomico lunare dell’antichità”.
Nel primo pomeriggio, dopo un pranzo al sacco, la visita si sposterà al nuraghe Zuras di Abbasanta , dove verrà illustrato lo straordinario significato astronomico lunare di questo nuraghe.
Poi ci recheremo al Losa di Abbasanta, un nuraghe astronomicamente concepito, i cui lati sono incardinati lungo gli assi solstiziali; dopo l’illustrazione delle caratteristiche astronomiche del monumento si potrà osservare (nuvole permettendo) il tramonto del Sole in asse col paramento murario orientato lungo l’asse alba solstizio d’estate – tramonto solstizio d’inverno.
La mattina del 19 dicembre appuntamento presso il nuraghe Santu Antine di Torralba alle 7.20 del mattino, Si inizierà con l’osservazione del sorgere del Sole , sperimentando empiricamente il significato astronomico di questo nuraghe, poi verrà illustrato il significato astronomico complessivo di questo monumento.
A mezza mattina ci si recherà a visitare l’altare tronco piramidale di Monte d’Accoddi , verrà illustrato il suo significato astronomico , connesso coi cicli del Sole, Luna e Venere.
La partecipazione alla gita è libera e gratuita , ogni partecipante dovrà provvedere alle proprie spese di vitto e alloggio e all’eventuale biglietto d’ingresso ai monumenti.
Per info : Paolo Littarru cell. 339 5745528
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