mercoledì 28 febbraio 2018

QUADRO ODIERNO DEGLI STUDI SULLA LINGUA ETRUSCA


 
Di Massimo Pittau
È da circa quarant’anni che io mi dedico allo studio della lingua etrusca, però assieme a quello di altre lingue vicine nello spazio e nel tempo, cioè il latino, il greco, il protosardo o paleosardo. Sia pure per il semplice effetto della mia salute e della mia longevità, io sono il linguista storico o glottologo che ha dedicato un così ampio lasso di tempo alla lingua etrusca. Ed ho pubblicato su di essa 18 libri e un centinaio di studi.
Di fatto io ho analizzato, studiato e tentato di interpretare e spiegare tutti i relitti di questa lingua, epigrafici e letterari, i quali assommano alla cifra di circa 12.000. Questi adesso sono registrati nel Corpus Inscriptionum Etruscarum (CIE) e ormai anche nel Thesaurus Linguae Etruscae (ThLE, I edizione 1978, II edizione 2009). E non si può negare che si tratta di una somma quasi stupefacente di vocaboli, di gran lunga superiore a quella di molte altre lingue frammentarie antiche, che sono assai lungi dal presentare una documentazione così ampia e anche così varia.
Tutto ciò premesso, con la mia acquisita esperienza di un quarantennio circa di studi, mi sento del tutto in grado di poter formulare un giudizio motivato sulla situazione dello “studio della lingua etrusca” nel momento attuale. Giudizio che espongo con le considerazioni seguenti.
1. Lo studio della lingua etrusca nel momento attuale è in una situazione che non si può non definire “paradossale” oppure “sconcertante”, perfino “buffa”, senz’altro “disastrosa” e comunque “antiscientifica”. Ciò è esatta e necessaria conseguenza del fatto che della lingua etrusca si sono impadroniti da un settantennio gli archeologi. Ed è chiaro a tutti che fra la archeologia e la linguistica esiste un oceano di differenze. In linea molto generale si deve affermare che l’archeologia studia “cose” od “oggetti”, mentre la linguistica studia “parole” o “vocaboli”. Ed è alla portata di tutti coloro che abbiano un minimo di cultura classica costatare l’abissale differenza esistente tra queste due discipline, le quali pure hanno il comune fondamento della ricerca storiografica.
2. Come si spiega la circostanza che soprattutto qui in Italia, patria della civiltà degli Etruschi, gli archeologi siano riusciti a impadronirsi dello studio della lingua etrusca e ad esercitare su di essa una forma di assoluto monopolio?
La questione è che gli archeologi hanno dappertutto, ma soprattutto qui in Italia, patria delle arti visive, un grande potere politico e un conseguente grande potere economico. Essi infatti interloquiscono continuamente coi poteri politici, coi Ministri, alti burocrati, Presidenti di Regioni e di Province, Sindaci di città grandi e piccole. Sono infatti gli archeologi “i consegnatari e i conservatori dei beni artistici” dell’Italia, quelli che decidono sulla loro conservazione, esposizione e pubblicazione. Capita infatti di frequente che direttori dei musei evitino per interi anni di pubblicare i reperti archeologici ed epigrafici rinvenuti di nuovo, con l’intento di effettuarne essi stessi la prima pubblicazione scientifica. Proprio come è capitato qualche anno or sono, quando il direttore di un museo si tenne nascosta la Tabula Cortonensis, rinvenuta di recente, per interi 6 anni e dopo farne uscire una sua pubblicazione personale.
In virtù del totale controllo dei nostri “tesori culturali”   pienamente previsto e consentito dalle leggi, gli archeologi sono ascoltati, ubbiditi, aiutati e vezzeggiati dalle amministrazioni di tutte le comunità locali italiane. Dalle quali essi ottengono sempre grandi mezzi economici per tutte le iniziative che essi propongono ed attuano. Mai gli archeologi hanno trovato difficoltà ad organizzare mostre, convegni e ad effettuare la pubblicazione delle loro opere.
Su questo specifico argomento delle pubblicazioni di valenza artistica gli archeologi sono bene accolti dai grandi editori, i quali, come sono in genere pronti a respingere le noiose opere dei linguisti costituite da grammatiche, vocabolari e da pesanti riviste specialistiche, così sono sempre pronti a pubblicare edizioni artistiche di lusso, fatte di bellissime fotografie e di bellissimi disegni. E parecchi archeologi hanno pure fatto la loro fortuna economica con la pubblicazione delle loro splendide e lussuose opere.
3. Gli archeologi hanno anche un immenso potere nel mondo universitario: ad esempio essi non hanno mai consentito che si aprisse in qualche Università italiana un insegnamento particolare denominato “Linguistica Etrusca”. La “Linguistica Etrusca” è da loro conglobata nell’insegnamento generale della “Etruscologia” e di questa essi ovviamente sono i padroni assoluti. E sono tanto sicuri di questo loro “paradossale” monopolio culturale, che sono essi stessi ad insegnare nelle Università italiane la lingua etrusca, facendo uso di manualetti del tutto privi di valore scientifico, che è perfino mortificante vedere entrare nelle aule delle nostre Università. Con questa indecorosa circolazione di quei manualetti e inoltre dei semplici capitoli che si trovano nelle opere generali di etruscologia, si spiega come sia ancora molto frequente perfino fra individui di elevata cultura classica, il concetto secondo cui “la lingua etrusca è tutta un mistero!”
4. Come finora hanno reagito e reagiscono i linguisti italiani e forestieri a questo monopolio culturale esercitato dagli archeologi sulla lingua etrusca? Quei linguisti che si sono adattati a questa posizione di umiliante sudditanza sono ben accolti dagli archeologi nei loro convegni di studio, nelle loro riviste e pubblicazioni, sia pure sottostando alle vedute e alle imposizioni dei padreterni della archeologia italiana, ad esempio mai effettuando “traduzioni” di testi etruschi, ma solamente proponendo “interpretazioni” generiche, mai effettuando confronti e comparazioni dell’etrusco con altre lingue, dato che gli archeologi credono al dogma della impossibilità di confrontare l’etrusco con una qualsiasi altra lingua. E siccome il primo strumento di un linguista storico o glottologo è quello di effettuare confronti e “comparazioni” fra le lingue studiate, con un tale divieto gli archeologi impediscono ai linguisti di fare esattamente il loro mestiere. Invece i linguisti che non sottostanno a queste restrizioni e a questi divieti degli archeologi vengono da questi trascurati del tutto ed emarginati, mai invitati a tenere lezioni nei loro convegni, mai invitati a presentare scritti per le loro pubblicazioni e riviste ...
E non soltanto, ma col potere che gli archeologi hanno ottenuto anche nel campo della editoria, riescono pure ad convincere gli editori a rifiutare le opere dei “linguisti eretici”. Esattamente come è capitato allo scrivente quando propose ad un importante editore italiano la pubblicazione di questo suo “Dizionario della Lingua Etrusca”. Per il suo rifiuto di effettuare la pubblicazione della mia opera, alla quale pure egli aveva all’inizio manifestato un vivo interesse, l’editore mi comunicò – per interposta persona - che non poteva andare contro il parere negativo dell’“Istituto di Studi ....” col quale egli aveva continui rapporti di collaborazione e di lavoro....
5. È cosa abbastanza nota che intorno all'origine degli Etruschi si è dibattuta nell'Europa moderna e colta, ad iniziare dal secolo XIX, una lunga e travagliata questione imperniata sul quesito: «Si deve prestare credito a Erodoto e ritenere vera la sua notizia circa la provenienza degli Etruschi in Italia dalla Lidia, in Asia Minore, oppure si deve accettare la differente notizia di un altro storico greco, Dionigi di Alicarnasso, circa il fatto che gli Etruschi sarebbero stati “autoctoni”, ossia nativi proprio e soltanto dell'Italia?». Le due teorie antagoniste sull'origine degli Etruschi, quella migrazionista riferita da Erodoto e quella autoctonista prospettata da Dionigi, hanno per lungo tempo tenuto sotto pressione numerosissimi studiosi, storici archeologi linguisti e storici delle religioni.
Negli ultimi decenni, nonostante che l'attuale scuola archeologica italiana sia nella sostanza favorevole alla teoria autoctonista di Dionigi, non si può negare che ormai si sono fatti più numerosi gli studiosi favorevoli alla teoria migrazionista di Erodoto e si tratta in particolare non solamente di archeologi, ma anche e soprattutto di storici propriamente detti, di storici delle religioni e di linguisti.
Facendo riferimento al campo specifico della linguistica storica o glottologia, è un fatto che i più recenti interventi che i linguisti hanno effettuato sulla classificazione della lingua etrusca, cioè quelli di Albert Carnoy, Marcello Durante, Vladimir Georgiev, Onofrio Carruba, Francisco R. Adrados, Alessandro Morandi e Helmut Rix, hanno dimostrato significative connessioni fra questa lingua ed alcune antiche dell'Asia Minore. Ed anche l'autore della presente opera è dell'avviso che essa sia da connettere appunto con lingue anatoliche ed in particolare con quella lidia ed inoltre ritiene che la tesi erodotea della migrazione degli Etruschi/Tirreni dalla Lidia in Italia sia quella sola da accettarsi.
Riesce perfino difficile comprendere gli esatti motivi per i quali da tutto un gruppo di studiosi moderni sia stata rifiutata la tesi migrazionista di Erodoto ed accettata invece quella auctotonista di Dionigi di Alicarnasso. In primo luogo infatti è indubitabile che a favore di Erodoto interviene la priorità cronologica rispetto a Dionigi, dato che il primo era vissuto nel V secolo a. C. e quindi era molto più vicino nel tempo agli avvenimenti narrati, mentre il secondo ne era molto più lontano, essendo vissuto nel I secolo a. C. In secondo luogo Dionigi era tutt'altro che portato ad approfondire a dovere la storia degli Etruschi ed a simpatizzare con essi, dato che invece era tutto inteso a sminuire il loro apporto alla creazione di Roma come grande potenza ed a tentare di dimostrare che invece Roma era una creazione o fondazione dei Greci.
In terzo luogo, mentre la tesi auctotonista di Dionigi non è stata confermata da alcun altro autore antico, quella migrazionista di Erodoto è stata accettata, condivisa e confermata da altri 30 autori antichi, greci e latini, e questi sono: Ellanico di Mitilene, Timeo di Taormina, Anticle di Atene, Scimno di Chio, Scoliaste di Platone, Diodoro Siculo, Licofrone, Strabone, Plutarco, Appiano, Catullo, Virgilio, Orazio, Ovidio, Silio Italico, Stazio, Cicerone, Pompeo Trogo, Velleio Paterculo, Valerio Massimo, Plinio il Vecchio, Seneca, Servio, Solino, Tito Livio, Tacito, Festo, Rutilio Namaziano, Giovanni Lorenzo  Lidio, C. Pedone Albinovano. Anche dando per scontato che molti di questi autori antichi in realtà si sono fatti la loro opinione su quella degli autori precedenti, pure questa loro adesione ai precedenti è già per se stessa molto significativa.
Non solo, ma è molto significativo anche il seguente fatto: ancora in epoca romana gli abitanti della città di Sard(e)is (capitale della Lidia) avevano la convinzione di essere imparentati con gli Etruschi dell'Italia, dato che nel 26 d. C. chiesero al senato romano - senza però ottenerlo - l'onore di poter innalzare nella loro città un tempio da dedicare all'imperatore Tiberio; e chiesero questo in nome di quei vincoli di sangue che li legavano agli Etruschi, vincoli dei quali gli stessi Etruschi erano ancora consapevoli e convinti, come dimostrava un loro decreto ricordato dai Lidi (Tacito, Annales, IV 55,8).
E non è assolutamente accettabile l'ipotesi che tutti i citati 30 autori antichi e inoltre gli abitanti di una città anatolica e infine quelli dell'Etruria si limitassero a ripetere quella che sarebbe stata la "leggenda" di Erodoto, dato che è accertato che la notizia della trasmigrazione degli Etruschi è talvolta riferita da quegli altri autori con particolari che non risultano affatto nel racconto di Erodoto. Fra di loro mi piace citare il giudizio di un autore classico, molto noto ed autorevole anche in termini culturali e scientifici, L. A. Seneca (ad Helviam matrem de consolatione, VII 2): Asia Etruscos sibi vindicat «L'Asia rivendica a sé gli Etruschi». E c'è da osservare e da sottolineare che nei tempi antichi «Asia» significava «Asia Minore» ed in maniera particolare indicava la «Lidia» (LISNE 165); toponimo il quale trova esatto riscontro anche nella lingua etrusca, sia pure come antroponimo: AŚIA, ASIA (ThLE²).
A me sembra logico ed evidente che la testimonianza di 31 autori antichi, col padre della storiografia greca ed occidentale in testa, sia da privilegiare senza alcuna esitazione rispetto a quella del solo Dionigi di Alicarnasso. Inoltre non si può fare a meno di osservare che sorgono perfino molti e forti dubbi circa la "sensibilità storica e storiografica" di quegli studiosi moderni che invece sostengono la ipotesi autoctonista, che cioè di contro a 31 testimoni antichi preferiscono privilegiarne uno solo. A meno che non sia appropriato il giudizio che pure è stato formulato che la ipotesi autoctonista in realtà sia stata determinata dalla adesione di qualche autorevole studioso italiano alla dottrina fascista della “purezza della razza italica”.
6. Nelle mie ricerche sul sostrato linguistico prelatino della Sardegna, cioè sul Protosardo o Paleosardo, con mia notevole sorpresa mi imbattei in casi di concordanza di lessemi protosardi con lessemi etruschi. Soprattutto notai che i Greci chiamavano gli Etruschi Tyrrhenói, Tyrsenói intendendoli come «costruttori di torri» (da týrris, týrsis «torre») e inoltre l’autorevole geografo e storico greco Strabone (V,2,7) definisce Tyrrhenói anche gli antichi Sardi. Considerato poi che nella loro isola i Sardi hanno costruito circa 8.000 nuraghi in tutte le sue zone e considerato che nell’intero bacino del Mediterraneo non esiste alcun altro popolo al quale spetti, più di qualsiasi altro, il titolo di «costruttori di torri, di torriani, torrigiani, turritani», ho concluso che i veri ed originari Tirreni sono da intendersi i Sardi costruttori delle 8.000 «torri nuragiche». Più tardi la denominazione di Tirreni è passata ad indicare anche gli Etruschi in virtù del fatto che questi erano parenti dei Sardi, dato che gli uni e gli altri erano arrivati prima in Sardegna e dopo anche nell’Italia centrale partendo dalla loro lontana sede nell’Asia Minore e precisamente dalla Lidia, dalla cui capitale Sard(e)is i Sardi o Sardiani hanno pure derivato il loro nome. E in senso inverso anche i Tusci od Etrusci hanno derivato il loro nome da týrsis, týrris «torre», secondo questa trafila fonetica: Tuscus < *Turs-c-us < *Tuss-c-us; Etruscus < E-trus-c-us < *Turs-c-us< *Tuss-c-us.
A questo punto però tengo a precisare che il protosardo non coincide esattamente con l’etrusco per il motivo che il primo è arrivato in Sardegna attorno al 1250 a. C. ed è quindi più arcaico, mentre il secondo è arrivato in Etruria nel sec. VIII a. C. ed è quindi più recente.
7. Disattendendo del tutto dal diktat degli archeologi, che hanno sempre definito “la lingua etrusca non comparabile con nessun’altra lingua”, io ovviamente ho continuato col mio mestiere di “linguista comparatista” e pertanto ho proceduto a comparare e confrontare l’etrusco col latino, cioè con la lingua dei Latini e dei Romani, coi quali essi sono vissuti quasi in “simbiosi” per tanti decenni. Sia sufficiente ricordare che la dinastia etrusca dei Tarquini ha regnato sulla città di Roma per più di 100 anni e che, a parere del pur malevolo Dionigi di Alicarnasso (I,29,2), «molti degli scrittori sostennero che la stessa Roma era un città Tirrena» (cioè Etrusca).
In primo luogo ho indirizzato la mia attenzione comparativa alla terminologia religiosa dei Romani, sapendo già da fonti storiche che la religione dei Romani era stata fortemente influenzata da quella degli Etruschi. E di fatto sono riuscito ad individuare un discreto numero di vocaboli latini di carattere sacrale, in genere privi di etimologia, che trovano riscontro in altrettanti vocaboli etruschi.
8. Sempre nella mia attività comparativa ho constatato che circa 2.000 antroponimi etruschi corrispondono, più o meno esattamente, ad altrettanti antroponimi latini. Questa vistosa circostanza da una parte sottolinea la stretta simbiosi che si era determinata col passare dei decenni fra le gentes o famiglie gentilizie etrusche e quelle romane, dall’altra questa quasi stupefacente corrispondenza offre un’ottima opportunità per individuare il “significato” di molti dei circa 2.000 antroponimi etruschi. È senz’altro ben appropriato il forte rammarico che moltissime delle iscrizioni funerarie etrusche siano costituite solamente da antroponimi, ma questi, prima di essere solamente “antroponimi”, erano altrettanti appellativi, i quali offrono appunto l’opportunità di individuare il “significato” originario del precedente appellativo etrusco. Il frequente prenome o nome personale etrusco LARCE è testimoniato in una recente iscrizione in alfabeto latino come Large, ed allora dall’aggettivo lat. largus «largo, generoso, magnanimo» (finora privo di etimologia) è possibile dedurre che anche l’etrusco LARCE in origine significasse «largo, generoso, magnanimo». Dal prenome etrusco SPURIE, corrispondendo chiaramente all’aggettivo latino spurius «figlio spurio o illegittimo» è facile ed ovvio dedurre che anche l’etrusco SPURIE in origine significava «figlio spurio o illegittimo». Siccome il gentilizio etrusco SATURE corrisponde chiaramente all’aggettivo lat. satur «saturo, sazio», è facile dedurne che anche l’etr. SATURE significava «saturo, sazio».
9. Gli Etruschi hanno convissuto nel medesimo ambito spaziale e nel medesimo torno di decenni sia coi Latini e coi Romani nell’antico Lazio (Latium vetus), sia con i Greci del golfo di Napoli e della Magna Grecia. Sommati i vocaboli delle rispettive lingue latina e greca si arriva ad un Thesaurus greco-latino probabilmente superiore ai 200.000 lemmi. Ebbene, è pressoché assurdo, dal punto di vista statistico, che gli 8.000 lemmi che figurano nel Thesaurus etrusco non trovino riscontri anche numerosi coi 200.000 lemmi del Thesaurus greco-latino. E in linea di fatto io questi riscontri li ho trovati, consentendomi di dare un significato a vocaboli etruschi che ne erano finora privi, in virtù del significato dei rispettivi vocaboli greco-latini.
 10. Un analogo discorso mi sono fatto rispetto al Thesaurus indeuropeo ed un analogo risultato ho ottenuto rispetto agli 8.000 vocaboli del Thesaurus della lingua etrusca.
Anche da questo punto di vista era stato dagli archeologi imposto un altro diktat e ripetuto fino alla noia un analogo ritornello: l’“etrusco non è una lingua indoeuropea”. Per il vero, non pochi linguisti, anche autorevoli avevano già sostenuto la tesi opposta. Sì, proprio con la grande famiglia delle lingue indoeuropee od indogermaniche l'etrusco è stato connesso ed inserito da numerosi linguisti, come W. Corssen, S. Bugge, I. Thomopoulos, E. Vetter, A. Trombetti, E. Sapir, G. Buonamici, E. Goldmann, P. Kretschmer, F. Ribezzo, F. Schachermayr, A. Carnoy, V.I. Georgiev, W.M. Austin, R.W. Wescott, A. Morandi, F.C. Woodhuizen, F. Bader, F.R. Adrados, ecc.
È cosa abbastanza nota che ciò che soprattutto aveva spinto non pochi studiosi nel passato a dichiarare che l'etrusco non era una lingua indoeuropea, era la constatazione - che si riteneva di aver fatto - della mancata corrispondenza dei numerali etruschi della prima decade con la serie dei corrispondenti numerali indoeuropei. In quel periodo infatti si era ormai a conoscenza del fatto che lo stesso primo impianto della linguistica indoeuropea e cioè la prima formulazione della famiglia delle lingue indoeuropee aveva preso il suo avvio iniziale proprio dalla circostanza che già alcuni uomini di cultura, ad iniziare dal fiorentino Filippo Sassetti (1540-1588), avevano visto e segnalato alcune chiare corrispondenze fra i numerali latini e greci da una parte e quelli dell'antica lingua religiosa dell'India, il sanscrito, dall'altra. Ed allora si era ragionato nel seguente modo: «Siccome i numerali etruschi della prima decade non si inquadrano nella serie di quelli indoeuropei, si deve concludere che l'etrusco non è una lingua indoeuropea».
Senonché in uno studio del 1994 io ritengo di avere dimostrato che ormai si deve considerare come acquisito dalla linguistica il fatto che la maggior parte dei numerali etruschi nella prima decade trova un congruente riscontro fonetico con altrettanti numerali indoeuropei; come dimostra il seguente quadro:

1  θun, tun           lat. unum
2  zal, sal, esal, esl german. zwa, ted. zwei
3  ci, ki                  ------
4  huθ, hut           lat. quattuor
5  mac, maχ                ------
6  śa, sa             lat. sex, sanscr. ṣáṣ
7  semφ               lat. septem
8  cezp                   ------
9  nurφ               lat. novem
10 sar, śar, zar, θar, tar ------    
 
Ragion per cui d'ora in avanti si deve sostenere la seguente tesi del tutto opposta a quella su riferita: «Siccome anche i numerali etruschi della prima decade in maggioranza si inquadrano nella serie di quelli indoeuropei, si deve concludere che anche l'etrusco è una lingua indoeuropea».
11. D’altronde c’era e c’è di mezzo non un problema di alta metodologia linguistica, ma una questione di semplice buonsenso: siccome il “diktat” o il “dogma” della non appartenenza della lingua etrusca alla famiglia indoeuropea ha in linea di fatto bloccato per un intero sessantennio qualsiasi avanzamento della conoscenza di questa lingua, perché non si prova ad accettare la ipotesi opposta per vedere quali risultati darà? Io sono perfettamente convinto che si costateranno subito i risultati positivi di questa prova.
12. I risultati da me ottenuti riguardo alla “traduzione” – non semplice “interpretazione” - di testi etruschi sono ormai ragguardevoli: ho proposto di tradurre I) Numero 624 iscrizioni etrusche; II) Quasi tutte le defixiones. III) La Tabula cortonensis; IV) Il Cippus di Perugia; V) Le Lamine auree di Pyrgi, VI) Il Fegato di Piacenza; VII) L’elogio funebre di Laris Pulenas; VIII) La scritta di San Manno di Perugia; IX) La scritta dell’Arringatore; X) La scritta sepolcrale dei Claudii; XI) L’iscrizione del Guerriero; XII) Il piombo o “cuore” di Magliano; XIII) Ampli brani del Liber linteus di Zagabria; XIV) Ampie delucidazioni della Tavola di Capua (vedi M. Pittau, I grandi testi della Lingua Etrusca - tradotti e commentati, Sassari 2011, Carlo Delfino editore; ovviamente da me perfezionati negli ultimi anni).
I quali non sono affatto risultati di poco conto!
 

 




mercoledì 24 gennaio 2018

Ozieri, origine ed etimologia

di Massimo Pittau e Cristiano Becciu

Ozieri [Otziéri, localmente e in zona (B)Ottiéri] (cittadina del Logudoro centrale). L’abitante (B)Ottieresu . Le più antiche attestazioni del toponimo si trovano nel Condaghe di Salvenor (CSMS 181, 185, 191) come Othigeri, Otigeri, Otier.
- Per questo toponimo è molto plausibile la spiegazione seguente: può corrispondere all’appellativo pansardo gutta, gúttia, (b)úttiu, (b)uttíu, gúttiu, guttíu, gútziu, (g)útzu «goccia, stilla», che è da confrontare – non derivare – col lat. gutta (di origine incerta; ThLL, DELL, AEI, OLD). Pertanto è molto probabile che il toponimo Ozieri sia protosardo o sardiano col significato di «sito gocciolante o stillante», cioè «sito ricco di sorgenti», alcune tuttora chiamate Su càntaru, Cantareddu, Sa 'Ena (vena d'acqua) ecc.
- Ozieri è caratterizzato dal suffisso -éri, che ritroviamo negli appellativi protosardi ereméri «dafne gnidio», istiéri «polline depositato nel miele», tonéri «rilievo tabulare dolomitico» e negli altri toponimi Licchéri (Ghilarza), Mattaleri (Santu Lussurgiu), Oniféri (Comune di O.?), Orgheri (Buddusò), Oroeri (Teti), Ortuéri (Comune di O.), Troccheri (Tonara), Venathitheri (Mamoiada), tutti relitti protosardi (questo suffisso protosardo non è confondere con quello molto più recente di banduléri «vagabondo», barbéri «barbiere, secapredéri «tagliapietra», ecc.; NVLS).
- Tale nostra spieazione è luminosamente confermata da questi altri troponimi di certo protosardi: Gotziddái (Olzai), Guthiddái (conca ricca di acque, Oliena), Othiddái (Lodè/Onanì), Otieri (Irgoli) ; Guttánnaro, Guttibái (Nùoro); (G)Ottianu, (G)Uttianu (= Gocèano; vedi); Guttímene, rivu Guthioddo (Orgosolo), Guttulichè (Nùoro/Orani), Guttuíne (Loculi), funtana Buttiachis (Suni), Búttule (Ozieri; antico Gutule, VSG).
- L’abbondanza particolare di sorgenti è propria delle due coste dal Monte Rasu, come è dimostrato dalla costa (sa Costera o Gocèano,] volta a sud/est, dove si trovano ben sette villaggi, uno vicino all’altro, Anela, Bono, Bottidda, Bultei, Burgos, Esporlatu e Illorai.
- D’altra parte è anche possibile che la più antica citazione del nostro toponimo sia quella dell’Anonimo Ravennate (scrittore latino del VII sec. d. C.): Eteri praesidium. Rispetto ad Otieri è facilmente spiegabile una forma in parte errata di Eteri, dato che la prima vocale è pretonica e quindi facilmente esposta a mutare, per cui si può ipotizzare una forma originaria *Guteri.
- Questa nostra spiegazione viene rafforzata dall’analisi storico-linguistica  del citato Eteri presidium. Questo sarà stato disposto dai Romani per difendere dagli attacchi dei sempre ribelli e razziatori Sardi delle montagne la assai importante strada romana che andava da Calaris ad Olbia attraversando anche la Piana di Chilivani. Una conferma per questa ipotesi viene dal fatto che subito dopo l’Anonimo Ravennate cita un altro presidio chiamato Castra Felicia, il quale corrisponde chiaramente a Castra presso Oschiri . E c’ è da osservare il procedere dal meridione al settentrione secondo cui l’Anonimo Ravennate cita le località: Nora praesidium, Aque calide Neapolitanorum, Eteri praesidium, Castra Felicia.
- [Questo procedere dal meridione al settentrione è un’ottima prova del fatto che la varietà campi danese della lingua sarda si differenzia alquanto dalla varietà logudorese per il motivo essenziale che questa proveniva dal latino di Roma e del Lazio, mentre quella campidanese proveniva dal latino dell’Africa Proconsolare, che era omai diventata un grande centro di cultura romana e di lingua latina (vi erano nati gli scrittori Cipriano, Lattanzio, Tertulliano, Sant’Agostino, ecc.)].
- La lunga presenza dei Romani nella zona di Ozieri è chiaramente dimostrata dal vicino ponte romano (Ponte ‘Etzu) a sei arcate che valica il riu Mannu. In una mia visita di circa 50 anni fa avevo notato una specie di scacchiera da gioco incisa su una pietra levigata inserita all'inizio del parapetto del ponte nella riva sinistra: sarà stata adoperata come passatempo dai soldati romani in servizio di guardia. In una mia visita successiva purtroppo la pietra risultava scomparsa: buttata nel fiume oppure trafugata?
- Però il sito di Ozieri ha conosciuto la presenza umana anche molto tempo prima, in epoca nuragica e pure in quella prenuragica, come dimostrano sia il grandioso nuraghe Bùrghidu (Bùghhidu) sia quello  situato all’inizio della salita per Ozieri, detto di Santu Pantaleo,
sia infine i reperti archeologici rinvenuti nella grotte di San Michele, appartenenti a quella che per l’appunto è stata chiamata la “cultura di Ozieri”. Queste grotte sono il sito gocciolante per eccellenza, posto all'interno della cerchia urbana di Oziei.
La presenza di stanziamenti umani nel sito era determinata e favorita sia dalla notevole abbondanza di sorgenti sia dall’antistante Piana di Chilivani, molto adatta alle attività pastorale ed agricola.
-  Ozieri risulta fra i borghi della diocesi di Bisarcio che nella metà del sec. XIV versavano le decime alla curia romana (RDS 259, 901, 1745). Esso è citato nel Codice Diplomatico delle relazioni fra la Santa Sede e la Sardegna (CDSS II 98), nel Codex Diplomaticus Sardiniae, nell'atto di pace fra Eleonora d'Arborea e Giovanni d'Aragona del 1388 (CDS 831/1, 832/1), nel Codice di Sorres (CSorr 255 dell'anno 1471). Risulta ancora citato parecchie volte nella Chorographia Sardiniae (100.30; 126.31,32; 128.12,19,24; 184.28,31) di G. F. Fara (anni 1580-1589) come oppidum Ocieris.


domenica 21 gennaio 2018

D’accordo con Usai. La scienza è una cosa seria


Breve commento all’intervista di Oubliette Magazine al Soprintendente su Monte Prama

di Franco Laner



“Io osservo che le statue sono molto fragili e facilmente sbilanciabili; penso che non potessero restare in piedi a lungo, perciò credo che siano cadute da sole dopo qualche tempo; però non escludo un’azione violenta da parte di altri nuragici. In ogni caso mi sembra probabile che fenici e cartaginesi abbiano visto solo pietre rotte; possono aver continuato a romperle, ma che abbiano avuto l’intenzione di distruggere l’eredità culturale nuragica, dopo tanti secoli, è tutto da dimostrare…
In conclusione, nessun mistero e nessuna omissione; solo la dimostrazione, l’ennesima, che la scienza è una cosa seria e complessa, ovvero la conoscenza sulla base di dati storici e scientifici, sui quali ci si confronta mettendo da parte complotti, congetture ed invenzioni, questi ultimi elementi cardine della pseudoscienza, ovvero gabbare l’insipiente muovendone “la pancia” piuttosto che la testa, magari saggiandone le tasche nel mentre.”
La lettura di questa intervista ha mosso anche la mia di pancia. Fortunatamente il cesso non era distante!
Che bella osservazione ha fatto il Soprintendente:
“Io osservo che le statue sono molto fragili e facilmente sbilanciabili; penso che non potessero restare in piedi a lungo, perciò credo che siano cadute da sole dopo qualche tempo.”
Ecco, proprio come sostiene l’Intervistato, la scienza è una cosa seria e complessa: l’osservazione è solo il punto di partenza della ricerca scientifica. L’osservazione è importante, ma poi l’oggetto dell’osservazione va sostenuto con logica e consequenzialità. Va quantificato, ne vanno argomentate le deduzioni. Dire che le statue siano fragili non basta. È necessario quantificare la fragilità, argomentare la “sbilanciabilità”. Per far ciò è necessario conoscere le caratteristiche fisico-meccaniche delle pietre per scolpire, bisogna conoscere la scienza dell’equilibrio, ovvero la statica. Solo allora ha senso dedurre e validare un’osservazione.
Ma allora, quando chiesi -iteratamente- al Soprintendente Usai di avere qualche frammento per effettuare analisi e prove di laboratorio mi fu rifiutato sostenendo che non era necessario.
Commentare il resto dell’intervista sarebbe un esercizio inutile. Basti l’affermazione che un oggetto con un abaco, un echino, l’attacco della colonna sia un modello di nuraghe -nuraghi quadrati?- e non possa essere un capitello!
Perché? Ecco la spiegazione:
“Qui il problema è semplicemente archeologico: esistono capitelli nella civiltà nuragica? Un capitello ha bisogno di una colonna o di un pilastro di dimensioni adeguate, e anche ammesso che fossero in legno, una colonna o un pilastro hanno bisogno di una base in pietra di dimensioni adeguate, come si vede in molte parti del mondo, per esempio negli arcinoti palazzi minoici e micenei. Ma in Sardegna non se ne conoscono. Strano che nessuno, all’infuori degli archeologi che lavorano sul campo, pensi a queste semplici connessioni funzionali di elementi costruttivi.”
Ahimé, proprio dagli scavi di Monte Prama vengono fuori elementi cilindrici, di un paio di metri di lunghezza e diametro di alcuni decimetri, che ora non mi sento più di chiamare colonne.
Forse Usai, ammettendo che ci possano essere capitelli, dovrebbe conseguentemente sostenere che Monte Prama abbia datazione attorno al V secolo, quando in Grecia si cominciano a realizzare templi di pietra, al posto di quelli di legno.
Concordo con la conclusione di Usai: sulla scienza ci si confronta mettendo da parte complotti, congetture e invenzioni.

Perché non lo mette in pratica?

venerdì 12 gennaio 2018

Etruschi a Tavolara

di Massimo Pittau

A proposito della recente notizia del ritrovamento di un centro abitato degli Etruschi nell’isola sarda di Tavolara, mi permetto di intervenire per fare una importante precisazione, riportando un capitolo della mia opera “Storia dei Sardi Nuragici 8 Selargius, CA, 2007).

§ 64. L'"Orientalizzante" nella civiltà etrusca e nella civiltà nuragica

Che l'etnia etrusca non sia affatto autoctona nella penisola italiana, ma sia al contrario venuta dal di fuori è chiaramente dimostrato da due elementi che caratterizzano la sua civiltà al suo primo apparire: la repentinità e la maturità. In termini archeologici la civiltà etrusca si presenta innanzi tutto in maniera repentina od improvvisa nelle coste tirreniche dell'Italia centrale, senza alcun precedente adeguato nei luoghi e nelle città in cui essa si è affermata storicamente; in secondo luogo essa si presenta fornita di tutti i caratteri di una civiltà già matura, cioè già molto avanzata in termini di sviluppo civile e per di più enormemente ricca.
Per il vero questi due fattori della repentinità e della maturità sono stati messi in discussione e respinti dagli studiosi moderni appartenenti alla corrente autoctonista (§ 11). Questi infatti hanno tentato di dimostrare che fra la precedente «cultura villanoviana» dell'età del bronzo e degli inizi di quella del ferro affermatasi in Italia da un lato e quella etrusca dall'altro non sarebbe esistita alcuna soluzione di continuità, non sarebbe mai esistito alcun "salto" né quantitativo né qualitativo e che quindi la «civiltà etrusca» non sarebbe altro che il progressivo e lento sviluppo della precedente «cultura villanoviana», la sua naturale e progressiva "maturazione". Senonché questo tentativo degli autoctonisti è fallito, come doveva fallire, completamente, posto che nessuno studioso che non abbia idee fisse e preconcette da difendere, potrà sostenere con serietà e soprattutto con prove oggettive che esiste una esatta continuità di sviluppo e di maturazione, ad esempio, fra le modestissime tombe villanoviane costituite da due scodelle coperchiate l'una sull'altra e le tombe monumentali a pseudocupola dei primordi della civiltà etrusca. La circostanza poi - sottolineata ed enfatizzata dagli studiosi autoctonisti - della presenza di reperti villanoviani nei medesimi siti in cui si è poi sviluppata la civiltà etrusca non costituisce affatto una prova contraria alla tesi dell'origine anatolica o microasiatica degli Etruschi, ma anzi si staglia perfettamente nelle notizie storiche che ci sono state tramandate, quale quella di Plinio il Vecchio, che parla di 300 città strappate dai Tirreni od Etruschi agli Umbri, e quali quelle che conservano il ricordo della conquista da parte dei Tirreni/Etruschi di parecchie città dell'Italia centrale, come Cere, Pisa, Saturnia, Alsium ed anche Roma\1\.
Dunque i Tirreni/Etruschi invasori che venivano da terre d'oltre mare, cioè sia i Tirreni/Nuragici della Sardegna sia i Tirreni/Lidi dell'Asia Minore, non hanno in linea generale "fondato" propriamente le loro città, bensì si sono limitati a conquistare i precedenti centri di «cultura villanoviana» abitati dagli Umbri. E proprio così si può spiegare la circostanza che di alcune di quelle città si conoscevano due nomi, evidentemente quello originario dato dagli Umbri o dalle popolazioni italiche e quello successivo imposto dagli Etruschi: Agylla/Caere, Anxur/Tarracina, (A)Urina/Saturnia, Camaris/Clusium, Teuta/Pisa, Volturnum/Capua, ecc.\2\.
«La civiltà etrusca dell'età storica - ha scritto l'autorevole storico francese Jean Bérard, nella sua geniale opera La colonisation grecque de l'Italie méridionale et de la Sicilie dans l'antiquité - si afferma in opposizione a quella villanoviana nel cui seno si sviluppa; e nulla è più diverso e contrastante dalle povere tombe a incinerazione del periodo villanoviano delle ricche camere funerarie del periodo etrusco vero e proprio»\3\.
Lo ripeto e ribadisco: di fronte e di contro alle modestissime manifestazioni della precedente «cultura villanoviana», la «civiltà etrusca» si presenta in maniera repentina od improvvisa come una civiltà del tutto matura in termini civili ed inoltre caratterizzata da una ricchezza straordinaria.
Non solo, ma questa civiltà etrusca presenta una precisa e inconfondibile connotazione: quella di essere permeata e sostanziata da innumerevoli e chiarissimi elementi che rimandano all'Oriente mediterraneo: usanze, credenze religiose, vasi, armi, vestiario, moduli architettonici, plastici e figurativi, ecc. ecc. L'insieme di tutti questi elementi appartiene già alla più sicura e ormai indubitabile storiografia etrusca ed è entrato nel vocabolario degli studiosi col termine di «Orientalizzante».
Anche per l'«Orientalizzante» i moderni studiosi della corrente autoctonista hanno tentato una operazione disperata: i numerosissimi e vistosi elementi orientali che si trovano ai primordi della civiltà etrusca non sarebbero affatto il risultato dell'arrivo di folti gruppi di uomini dall'Oriente mediterraneo in Italia, ma sarebbero semplicemente il risultato di intensi scambi intercorsi - anche per il tramite dei soliti Fenici! - fra gli eredi della «cultura villanoviana» e le varie popolazioni del Mediterraneo orientale. Senonché ha giustamente fatto notare Jacques Heurgon, uno dei più acuti studiosi della civiltà etrusca, che gli elementi dell'Orientalizzante sono tanti e tali, che è difficile che siano il frutto di semplici scambi commerciali, mentre è assai più ovvio ritenere che siano il frutto di un massiccio arrivo di uomini orientali in terra d'Etruria (§ 11 e note).
Però è molto importante aggiungere e precisare che un fonemeno di «Orientalizzante» esiste sicuramente anche nella «civiltà nuragica»: come abbiamo visto ampiamente nelle pagine precedenti, pure usanze, credenze religiose, vasi, armi, vestiario, moduli architettonici, plastici e figurativi, ecc. dei Nuragici rimandano sicuramente e chiaramente all'Oriente mediterraneo. 

martedì 2 gennaio 2018

Spocchia dell’archeologia e archeologia della spocchia in Sardegna Consuntivo di un anno di attenzione e studio

di Franco Laner

Già l’atteggiamento altezzoso dà fastidio. Se però esso è accompagnato dal vuoto, il fastidio si trasforma in disagio. Voglio dire che si può tollerare la superbia di uno studioso vero, anche se l’umiltà paga con gli interessi, ma qualora l’altezzosità sia accompagnata dall’ignoranza, il rifiuto è doveroso e il malessere giustificato.
Questa è la sintesi di alcuni episodi provocati dai miei tentativi di capire gli ultimi eventi archeologici sardi, come la vicenda di Monte Prama, all’apice dell’interesse archeologico nell’Isola, assolutamente sconosciuta altrove, nonostante i tentativi promozionali della Regione, in particolare turistici.
Eppure l’anno si era aperto per me positivamente. Avevo chiesto di partecipare con una relazione sui risultati di caratterizzazione meccanica del biocalcare di Monte Prama al Convegno regionale “Notizie e scavi della Sardegna nuragica”, Serri, 20 aprile 2017. Dapprima la memoria era stata accettata e inserita nel programma del Convegno. Successivamente mi sono state chieste informazioni su come avessi reperito i frammenti sottoposti a prova. La relazione è stata quindi declassata a poster. Alla fine non relazionai sui risultati di caratterizzazione meccanica, che dimostrano che le statue non potevano stare in piedi, con buona pace degli organizzatori e dell’archeologia ufficiale, che non vuole discutere nemmeno alla luce dei dati di sperimentazione eseguiti da Laboratori specializzati.
Pazienza. E che dire della Soprintendenza archeologica di Cagliari che rifiuta sistematicamente ogni confronto su evidenti discrasie ricostruttive delle statue, con errori evidenti e dimostrabili, pur di sostenere assunti fantasiosi, come definire modello di nuraghe capitelli quadrati, scambiare chevron con parapetti apicali di legno dei nuraghi, ricostruire scudi quadripartiti al posto dei chiari pentapartiti ed attaccare membra posticce a corpi casuali con il risultato di esibire anacronistici Frankestein.
Trovo del tutto indegno il rifiuto della Soprintendenza - posso esibire il carteggio intercorso - ad uno studioso, pur esterno all’Archeologia sarda, accademico di disciplina non estranea ad una visione interdisciplinare e capace di apporti originali, di effettuare prove meccaniche e petrografiche, pur previste dal protocollo di indagine sulle statue, in assenza anche di dati del Dipartimento di Geologia di Cagliari. In altre parole, è concepibile ragionare, ricomporre, esibire oggetti di cui non si conosce la sostanza, la durabilità, la resistenza meccanica e quindi la scolpibilità?
Fortunatamente si possono ancora pubblicare nel nostro Paese i risultati di studi e ricerche, dedurre consequenziali giudizi e sottoporsi al confronto delle risultanze. Perciò ho potuto pubblicare “Indagini su Monte Prama” di cui sono orgoglioso, nonostante i legittimi giudizi dispregiativi, mai comunque sostenuti da prove, da logica o critica scientifica. I pochi giudizi sono stati espressi in forma anonima, quindi vigliacca.
Già vent’anni fa con “Accabadora” mi esposi sostenendo teorie distanti dall’ufficialità, lo stesso ho fatto con “Sa ‘ena” ed ora con queste “Indagini” ho chiuso la mia avventura archeologica sarda.
Mi dispiace che l’Archeologia si sia seduta sul coperchio dell’incommensurabile scrigno del patrimonio archeologico. Il peso enorme dei culi di pietrameri burocrati – impedisce che si sollevi il coperchio e che si goda del contenuto, sia culturalmente, sia economicamente.
Infine, per la gioia degli occhi ecco due foto, che M. Muscas mi ha spedito da Santa Cristina, straordinario monumento della storia dell’architettura mediterranea. La terra e il sole visti dalla luna e il sole nella geometria del pozzo. Astronomia che gli archeologi sardi non riescono a coniugare con l’archeologia, troppo intenti a solo ciò che brilla sulla punta del piccone, incapaci di alzare gli occhi della mente.

Venezia, 1 gennaio 2018


mercoledì 6 dicembre 2017

Congruenza linguistica protosarda ed etrusca




di Massimo Pittau

In Sardegna, nella sua zona centrale di Mores, Padria, Bonorva, Benetutti, Bono, Silanus, Norbello, Busachi e Samugheo, in occasione delle feste religiose e dei matrimoni, è tuttora in uso il cosiddetto tzicchi (tzikki), pane de ~ «pane di fior di farina».

In primo luogo c’è da precisare che per tzicchi si intendono numerose varietà di pane, tutte di «fior di farina», ma di forme assai differenti da paese a paese e pure di impasto e di cottura. Spesso presentano disegni floreali oppure sono lavorati con figure di uccelli. Talvolta presentano la rosella solare fatta con la cosiddetta “pintadera” oppure il nome del panettiere fatti con timbri di legno.
A pensarci bene, ciò che accomuna queste varie forme di tzicchi è il fatto che tutte vengono preparate in occasione delle feste, dunque tutte come «pane delle feste». Anche se ormai si trovano tutti giorni nei supermercati.
Del pane tzicchi aveva già parlato Max Leopold Wagner nel suo Dizionario Etimologico Sardo (DES II 589), ma senza prospettare alcuna etimologia del vocabolo.
Sia nel mio Dizionario della Lingua Sarda (Cagliari 2000) sia nella sua nuova edizione intitolata Nuovo Vocabolario della Lingua Sarda (Selargius, CA, 2014, ormai anche in edizione digitale) io avevo riportato l’appellativo sardo probabilmente al franc.-ital. chic «fine, di lusso, di stile». Senonché mi sono accorto di avere sbagliato per due motivi: I) Essendo certamente il franc.-ital. chic un cultismo, esso sarebbe conosciuto e diffuso dappertutto nell’Isola e particolarmente nelle città e cittadine, mentre di fatto esso risulta documentato solamente in una zona limitata dell’Isola; II) Questo cultismo avrebbe dato origine, soprattutto nella sua parte finale, a varianti in rapporto alle diverse località isolane; il che invece non si constata per nulla.
Ciò premesso decido di ritornare ad una mia tesi originaria, che avevo pubblicizzato in precedenza nella mia opera Origine e Parentela dei Sardi e degli Etruschi (Sassari 1995), pgg. 231-232).
Io torno a connettere il (proto)sardo tzikki con gli etruschi ZIC, ZIK, ZIX «segno, disegno, pittura, firma», «scritto» (sost.), «libro»; ZICU, ZIXU «scriba, scrivano»; ZIXAN( probabilmente «segnano, disegnano, scrivono»; ZIXINA/E forse «segna(no), disegna(no), indica(no), scrive(ono)»; ZIXNE «segno, disegno, segnale, insegna, pittura», da confrontare coi lat. signum «segno» (finora di origine incerta; DELL, DEI, DELI) e sigillum «piccolo segno, sigillo» (Orazio, Ep., II, 2, 180 cita i Tyrrhena sigilla «bronzetti etruschi»); ZIXRI «da segnare, da contrassegnare, da firmare»; ZIXUNCE «(e) che (tu) segni!, (e) che (tu) scriva!», oppure «ha segnato, ha scritto»; ZIXUXE «segnò(arono), disegnò(arono), dipinse(ro), scrisse(ro), firmò(arono); ha(nno) segnato, disegnato, scritto, dipinto, firmato» (vedi Thesaurus Linguae Etruscae).
La piena e chiara conferma di questa mia tesi viene dal fatto che su pane tikki in alcune località viene detto pane pintau «pane dipinto»!

lunedì 4 dicembre 2017

Archeoastronomia in salsa turritana



di Mauro Peppino Zedda


In un mio precedente articolo in questo blog Archeoastronomia allaCabizza-Forteleoni analizzai l'articolo di esordio dei due astrofili turritani in campo archeoastronomico
Il loro primo articolo “La misura del tempo”, risultati preliminari, in Cronache di Archeologia, vol 8, 2011), trattava dell’orientamento delle 156 domus de janas. I due esordienti presentarono un "azimut", che non era il vero azimut geografico, ma un azimut corretto con l’altezza dell’orizzonte visibile.
Mi chiedevo perché i due astrofili Turritani non avessero seguito le procedure comunemente seguite dagli studiosi di archeoastronomia di tutto il mondo?
Perché Cabizza e Forteleoni, non presentarono i dati relativi all’azimut geografico, all’altezza dell’orizzonte e alla declinazione di ogni singolo orientamento?
Nell'articolo era presente pure una tabella che riportava i dati azimutali riferiti ai lunistizi maggiori meridionale e settentrionale, in cui i dati risultavano invertiti. Pensai ad un refuso piuttosto che a una scarsa conoscenza dei cicli lunari, dunque su questa questione non feci nessuna critica.
Nel loro secondo articolo (La misura del tempo. Il neolitico e lo stato delle ricerche, in Cronache di Archeologia, 10. La misura del tempo. Atti del 2° convegno internazionale di Archeoarcheoastronomia in Sardegna dicembre 2012, Sassari, 2013, pp 19-43) i due astrofili, citano il lunistizio maggiore meridionale, mentre avrebbero dovuto citare il lunistizio maggiore settentrionale, dunque l'errore presente nella tabella inserita nel primo articolo non è un errore dovuto ad un refuso, ma conseguente ad una scarsa conoscenza dei cicli lunari.
In relazione ai dati dell'orientamento delle domus de janas questa volta hanno seguito un criterio normale agli studi di archeoastronomia, presentando un azimut geografico, un altitudine e la relativa declinazione per ogni singolo orientamento.
Ma dall'analisi dei loro dati emerge un fatto curioso, quasi tutti i loro 300 (circa) azimut (eccezione di 5 domus de janas a Goni) sono espressi in numeri non interi. É difficile comprendere il motivo per cui hanno indicato l'azimut sempre con l'aggiunta del mezzo grado (69,5 – 98,5 – 82,5 ecc.).
Come può essere possibile che non abbiano trovato orientamenti caratterizzati da un numero intero?
Che tipo di bussola hanno utilizzato?
Che bussola eccentrica!
In tutto il panorama dell'archeoastronomia mondiale deve essere il solo caso in cui l'insieme delle misure viene presentato in questo modo.
Mi assale il dubbio che volessero far intendere di aver approssimato i valori al quarto di grado, ma nel giochetto gli è scappata la "virgola"...
I dati sull'altezza sempre con numeri interi (1 - 2 - 3 ecc). Bene, l'approssimazione è di mezzo grado, ed è giusto farla con i numeri interi
La declinazione l'hanno espressa approssimandola al decimo di grado, forse non sanno che quando si approssimano gli azimut e le altezza al mezzo grado, per la declinazione si deve riportare un dato anch'esso approssimato al quarto di grado per evitare che il dato in declinazione (frutto del calcolo sulla base dei dati in azimut e altezza) mostri una precisione che in realtà non c'è, per via della approssimazione precedente.
In premessa alla loro analisi quando descrivono le procedure utilizzate nella misurazione scrivono: "La scelta per lo strumento di misurazione è caduta sulla bussola, invece del teodolite o del Gps topografico – che garantirebbero elevate accuratezze inferiori al secondo d'arco,- per il fatto che le domus sono monumenti preistorici realizzati con tecniche di lavorazione spesso non di precisione e che oggi versano in gran parte in cattivo stato di conservazione.
La determinazione del dato da rilevare non è infatti sempre univoca e l'errore generato dalla scelta soggettiva della direzione è ben superiore a quello prodotto dal fatto di non aver utilizzato una strumentazione di alta precisione."
Il concetto è ripreso pari passo da diverse pubblicazioni di Michael Hoskin a partire dagli anni novanta, che sulla questione criticò Proverbio e Romano per l'utilizzo del teodolite anche dove non serviva, ovvero in classi di monumenti ove la direzione dell'asse d'ingresso non è definibile in modo univoco. I concetti metodologici enunciati da Hoskin li ho adottati e ripresi nei miei libri. Non so se Cabizza e Forteleoni siano arrivati a quelle stesse deduzioni in modo autonomo, ma comunque una citazione ci sarebbe stata bene.
Per quanto riguarda le loro conclusioni sul target dell'orientamento delle domus de janas scrivono:
il 96% dei rilievi ricadono nell'intervallo compreso tra azimut di levata e tramonto del sole al solstizio d'estate;
il 4% degli ipogei di conseguenza si affacci in un arco di orizzonte in cui non sorge mai il sole;
il 69% ricade nell'intervallo compreso tra la levata e il tramonto eliaco nel solstizio invernale;
il 98% è compreso tra la levata e tramonto della Luna nel massimo lunistizio meridionale.
In perfetta sintonia con il loro precedente articolo continuano a confondere il lunistizio meridionale con quello settentrionale.
Se la prima poteva essere una svista ora c'è la conferma che sul concetto di lunistizio Cabizza e Forteleoni hanno le idee confuse!
Comunque sia, seppur condotti in maniera maldestra, gli studi di Cabiza e Forteleoni hanno confermato i miei studi precedenti (vedi Belmonte e Zedda “From Domus de Janas to Hawanat: on the orientations of rock carved tombs in the Western Mediterranean” in proceedings of the SEAC 2005 Lights and Shadows in Cultural Astronomy, 2007 Isili) ripresi nel libro Astronomia nella Sardegna Preistorica (2013).
Su un campione di 649 domus de janas si è rilevato che il:
il 95% sono orientate entro l'arco di orizzonte che percorre il sole al sosltizio d'estate, un arco d'orizzonte pari a due terzi dell'intero orizzonte;
Il 5% entro l'arco di orizzonte dove non passa il sole, un terzo dell'intero orizzonte;
il 98% entro l'arco di orizzonte che percorre la luna al lunistizio maggiore settentrionale;
il 2% entro l'arco di orizzonte dove non passa la Luna.