di Massimo Pittau
Mi fa piacere presentare Le conclusioni culturali e storiografiche del mio ultimo libro "Gli antichi Sardi fra i “Popoli del Mare”», Domus de Janas, Selargius (CA) 2011.
Noi moderni dunque abbiamo di fronte una massa imponente di connessioni archeologiche e culturali, che legano strettamente l’antica isola di Sardegna all’antica civiltà egizia. Di fronte alle quali connessioni ci sembra che le deduzioni logiche che se ne debbano trarre siano le seguenti:
I) Questo materiale egizio - ed eventualmente egittizzante - non può essere stato importato in Sardegna dagli antichi Egizi, dato che è del tutto certo storicamente che questo popolo non ha mai espresso una politica imperialistica marittima e nemmeno un’ampia attività commerciale nel Mediterraneo e tanto meno nel Mediterraneo centro-occidentale.
II) Questo materiale egizio non può essere stato importato in Sardegna dai Fenici, sia perché numerosi elementi di quel materiale hanno una datazione precedente di alcuni secoli all’arrivo dei Fenici in Sardegna (fine del IX, inizi dell’VIII sec. a. C.), sia per il loro carattere culturale prevalente.
Il carattere culturale prevalente è senza alcun dubbio quello “religioso”, ragion per cui, avendo i Fenici una loro “religione fenicia” differente dalla “religione egizia”, non si capirebbe per nulla il fatto che essi avessero fatto gli esportatori e i “propagandisti” in Sardegna di una religione differente da quella loro nazionale. È ben vero che i “commercianti” – e i Fenici lo erano in maniera preminente – non hanno mai sentito “puzzare” i soldi guadagnati da una qualsiasi merce venduta, ma il fatto è che il tabù religioso nell’antichità era molto più forte di adesso, per cui allora molto meno di adesso “si scherzava coi santi”, ossia col materiale religioso e le credenze che vi erano annesse.
Nella supposizione pertanto che avessero assunto la parte e la funzione di “propagandisti religiosi”, perché i Fenici non avrebbero importato in Sardegna esclusivamente la loro “religione fenicia”?
(E tutto questo contribuisce a ridimensionare notevolmente la presenza dei Fenici in Sardegna, presenza che invece i “feniciomani” nostrani avevano enfatizzato in misura spropositata).
III) Non resta altra soluzione: il ricco materiale egizio di carattere religioso, assieme con la religione egizia corrispondente, sono stati importati in Sardegna dai Sardi stessi, a iniziare dall’epoca della loro partecipazione alle imprese dei “Popoli del Mare” in Egitto (fra il 1230 e il 1170 a. C. circa). Come abbiamo accennato in precedenza, dopo quelle imprese, i Sardi non avranno interrotto i loro rapporti con quello che era il paese più ricco e più civile di tutto il bacino del Mediterraneo, ma anzi li avranno mantenuti a lungo, di secolo in secolo, anche nell’epoca della presenza nell’isola dei Fenici e pure dei Cartaginesi. In quest’ultimo periodo, sì, si può accettare che i Fenici e perfino i Cartaginesi siano diventati i prevalenti “vettori” del materiale egizio in Sardegna; ma questo essi facevano in quanto trovavano nei Sardi dei buoni acquirenti, soprattutto quei Sardi che continuavano a vivere nelle città sardo-puniche di Caralis, Bitia, Nora, Sulcis, Tharros, ecc.
Dunque l’interesse per l’Egitto e la sua splendida civiltà da parte degli antichi Sardi è iniziato all’epoca della loro partecipazione alle imprese tra i “Popoli del Mare”, ma è continuato di secolo in secolo fino a tempi molto recenti, sino all’epoca della dominazione romana, come fanno intendere non pochi reperti egizi rinvenuti in Sardegna.
mercoledì 30 novembre 2011
lunedì 28 novembre 2011
Sulcis: fondazione e toponimo nuragici
di Massimo Pittau
In miei studi precedenti sui “macrotoponimi” della Sardegna avevo sostenuto, circa il toponimo Sulcis (antico nome di Sant’Antioco), una certa tesi, che in parte ho revisionato in una mia opera recente. Oggi ritorno a quella mia tesi iniziale e ciò in virtù del fatto che ritengo di avere decifrato e tradotto un vocabolo etrusco, che compare nel famoso “Libro della Mummia di Zagabria” e del quale do la spiegazione in una mia ampia opera sulla lingua etrusca, di imminente pubblicazione («I Grandi Testi della Lingua Etrusca tradotti e commentati», Carlo Delfino Editore, Sassari 2011). Pertanto la mia tesi ultima sul toponimo e pure sull’insediamento umano dell’antico Sulcis è il seguente.
««Sulcis - Attualmente indica tutta la parte sud-occidentale dell'Isola, mentre nel Medioevo e in età moderna ha indicato una diocesi, che ebbe come capoluogo prima Sant'Antioco, dopo Tratalias e infine Iglesias. In virtù di quest'ultima circostanza il coronimo è citato molto per tempo e numerose volte nei documenti medioevali.
Esso deriva dal nome originario di Sant'Antioco, che è citato come Sulci da Claudiano (V, 518), dall'«Itinerario di Antonino» (84), dalla Tavola Peutingheriana e dall'Anonimo Ravennate; come Sulcis (da interpretarsi come un locativo plur.) è citato da Mela (II, 19); come Sólkoi da Tolomeo (III 3, 3); Soûlchoi da Strabone (V 2, 7); Sylkoi da Pausania (X 17, 9) e da Stefano di Bisanzio; Solkói da Artemidoro, in Stefano di Bisanzio (581,7-8; 591 M s. vv.); Soúlkes da Leone il Saggio (Patrologia Graeca, CVII c. 344).
Io sono dell’avviso che il toponimo sia sardiano o protosardo e sia da connettere con l’appellativo etrusco SULΧVA «solchi» (Liber X 17) (plur.) (da cui dopo è derivato il lat. sulcus) (LEGL 69; DICLE 166).
A mio avviso l’antico insediamento traeva molta della sua importanza dal “solco o canale” o anche dai “solchi o canali” che tagliavano l’istmo che unisce l’isola di Sant’Antioco alla Sardegna propriamente detta, canali che costituivano altrettanti "passaggi" per le navi che costeggiavano la Sardegna, anche per evitare il lungo e pericoloso periplo delle isole di Sant'Antioco e di San Pietro. I «canali» dell'istmo dunque saranno stati più d'uno, in quanto saranno stati usati variamente a seconda del frequente interramento provocato dallo spirare dei venti e dal movimento delle correnti marine. Sul principale di questi canali in età romana è stato costruito quel ponte che rimane tuttora (OPSE 159, 269).
Hanno quasi certamente errato alcuni archeologi recenti che, senza darne alcuna prova, hanno parlato di "istmo artificiale" di Sulci: al contrario l'istmo sembra costituitosi in epoca molto antica, come dimostra anche il fatto che nella sua parte centrale si trovano ancora in posizione eretta due pedras longas o pedras fittas (menhirs) di epoca prenuragica.
A differenza della città di Sulci, nell’antichità l'isola veniva chiamata, come risulta dal geografo greco-alesandrino Tolomeo (III 3, 8), Molibódes nésos «Isola plumbea», evidentemente per i suoi giacimenti di piombo. Ma questa sarà stata la traduzione greca di una precedente locuzione sardiana o protosarda, che ormai a noi risulta sconosciuta»».
Questo avevo scritto riguardo a Sulcis, quando ho avuto la soddisfazione di leggere nella recente opera di Piero Bartoloni, «I Fenici e i Cartaginesi in Sardegna» (Sassari 2009): (pag. 62) «Sulky, certamente di fondazione nuragica», (pag. 81) «abitanti Sulcitani di origine nuragica», (pag. 77) «nome Sulky, forse di origine non fenicia».
Da parte mia aggiungo che nell’isola di Sant’Antioco si trovano tuttora i resti di ben 23 nuraghi, prova evidente che essa era intensamente abitata sia per i suoi giacimenti di piombo sia per l’abbondanza di pesci, compresi i tonni, nelle sue coste.
Fenici e Cartaginesi sono arrivati nell’isola quattro o cinque secoli dopo.
A proposito degli Etruschi mi piace citare un fatto quasi del tutto sconosciuto agli studiosi sardi: nel Lazio è stata rinvenuta una tessera ospitale d’avorio in figura di leone (del sec. VI a. C.), la quale riporta l’iscrizione etrusca ARAZ SILQETENAS SPURIANAS «(tessera) di Arunte Sulcitano (ospite) di Spurianio» (ET, La 2.3 - 6:). SILQETENA(-S) «(di) Sulcitano» è un cognomen masch. in genitivo, da confrontare col lat. Sulcitanus = "nativo od originario di Sulcis" (in Sardegna) (alternanze i/u, e/i, a/e; DICLE 13). I due individui dunque si erano legati da obblighi di reciproca ospitalità nelle rispettive residenze (DETR 375; DICLE 166).
Oltre a ciò ricordo che qualche tempo fa a Sant’Antioco è stata rinvenuta una lapide funeraria, che contiene una iscrizione etrusca; non mi risulta però che sia stata già interpretata e nemmeno pubblicata (vedi M. Pittau, Il Sardus Pater e i Guerrieri di Monte Prama, I ediz. 2008, II ediz. 2009, Sassari, EDES, pag. 65, fig. 7).
In miei studi precedenti sui “macrotoponimi” della Sardegna avevo sostenuto, circa il toponimo Sulcis (antico nome di Sant’Antioco), una certa tesi, che in parte ho revisionato in una mia opera recente. Oggi ritorno a quella mia tesi iniziale e ciò in virtù del fatto che ritengo di avere decifrato e tradotto un vocabolo etrusco, che compare nel famoso “Libro della Mummia di Zagabria” e del quale do la spiegazione in una mia ampia opera sulla lingua etrusca, di imminente pubblicazione («I Grandi Testi della Lingua Etrusca tradotti e commentati», Carlo Delfino Editore, Sassari 2011). Pertanto la mia tesi ultima sul toponimo e pure sull’insediamento umano dell’antico Sulcis è il seguente.
««Sulcis - Attualmente indica tutta la parte sud-occidentale dell'Isola, mentre nel Medioevo e in età moderna ha indicato una diocesi, che ebbe come capoluogo prima Sant'Antioco, dopo Tratalias e infine Iglesias. In virtù di quest'ultima circostanza il coronimo è citato molto per tempo e numerose volte nei documenti medioevali.
Esso deriva dal nome originario di Sant'Antioco, che è citato come Sulci da Claudiano (V, 518), dall'«Itinerario di Antonino» (84), dalla Tavola Peutingheriana e dall'Anonimo Ravennate; come Sulcis (da interpretarsi come un locativo plur.) è citato da Mela (II, 19); come Sólkoi da Tolomeo (III 3, 3); Soûlchoi da Strabone (V 2, 7); Sylkoi da Pausania (X 17, 9) e da Stefano di Bisanzio; Solkói da Artemidoro, in Stefano di Bisanzio (581,7-8; 591 M s. vv.); Soúlkes da Leone il Saggio (Patrologia Graeca, CVII c. 344).
Io sono dell’avviso che il toponimo sia sardiano o protosardo e sia da connettere con l’appellativo etrusco SULΧVA «solchi» (Liber X 17) (plur.) (da cui dopo è derivato il lat. sulcus) (LEGL 69; DICLE 166).
A mio avviso l’antico insediamento traeva molta della sua importanza dal “solco o canale” o anche dai “solchi o canali” che tagliavano l’istmo che unisce l’isola di Sant’Antioco alla Sardegna propriamente detta, canali che costituivano altrettanti "passaggi" per le navi che costeggiavano la Sardegna, anche per evitare il lungo e pericoloso periplo delle isole di Sant'Antioco e di San Pietro. I «canali» dell'istmo dunque saranno stati più d'uno, in quanto saranno stati usati variamente a seconda del frequente interramento provocato dallo spirare dei venti e dal movimento delle correnti marine. Sul principale di questi canali in età romana è stato costruito quel ponte che rimane tuttora (OPSE 159, 269).
Hanno quasi certamente errato alcuni archeologi recenti che, senza darne alcuna prova, hanno parlato di "istmo artificiale" di Sulci: al contrario l'istmo sembra costituitosi in epoca molto antica, come dimostra anche il fatto che nella sua parte centrale si trovano ancora in posizione eretta due pedras longas o pedras fittas (menhirs) di epoca prenuragica.
A differenza della città di Sulci, nell’antichità l'isola veniva chiamata, come risulta dal geografo greco-alesandrino Tolomeo (III 3, 8), Molibódes nésos «Isola plumbea», evidentemente per i suoi giacimenti di piombo. Ma questa sarà stata la traduzione greca di una precedente locuzione sardiana o protosarda, che ormai a noi risulta sconosciuta»».
Questo avevo scritto riguardo a Sulcis, quando ho avuto la soddisfazione di leggere nella recente opera di Piero Bartoloni, «I Fenici e i Cartaginesi in Sardegna» (Sassari 2009): (pag. 62) «Sulky, certamente di fondazione nuragica», (pag. 81) «abitanti Sulcitani di origine nuragica», (pag. 77) «nome Sulky, forse di origine non fenicia».
Da parte mia aggiungo che nell’isola di Sant’Antioco si trovano tuttora i resti di ben 23 nuraghi, prova evidente che essa era intensamente abitata sia per i suoi giacimenti di piombo sia per l’abbondanza di pesci, compresi i tonni, nelle sue coste.
Fenici e Cartaginesi sono arrivati nell’isola quattro o cinque secoli dopo.
A proposito degli Etruschi mi piace citare un fatto quasi del tutto sconosciuto agli studiosi sardi: nel Lazio è stata rinvenuta una tessera ospitale d’avorio in figura di leone (del sec. VI a. C.), la quale riporta l’iscrizione etrusca ARAZ SILQETENAS SPURIANAS «(tessera) di Arunte Sulcitano (ospite) di Spurianio» (ET, La 2.3 - 6:). SILQETENA(-S) «(di) Sulcitano» è un cognomen masch. in genitivo, da confrontare col lat. Sulcitanus = "nativo od originario di Sulcis" (in Sardegna) (alternanze i/u, e/i, a/e; DICLE 13). I due individui dunque si erano legati da obblighi di reciproca ospitalità nelle rispettive residenze (DETR 375; DICLE 166).
Oltre a ciò ricordo che qualche tempo fa a Sant’Antioco è stata rinvenuta una lapide funeraria, che contiene una iscrizione etrusca; non mi risulta però che sia stata già interpretata e nemmeno pubblicata (vedi M. Pittau, Il Sardus Pater e i Guerrieri di Monte Prama, I ediz. 2008, II ediz. 2009, Sassari, EDES, pag. 65, fig. 7).
venerdì 25 novembre 2011
L'orientamento delle Domus de Janas
di Paolo Littarru
Le evidenze scientifiche dell’orientamento astronomico dei nuraghi, costituiscono ormai un dato di fatto incontrovertibile, oggetto di diversi studi e pubblicazioni internazionali e facilmente verificabile per chiunque volesse.
Ma quando iniziarono gli antichi Sardi ad ammirare la volta stellata e a orientare con gli astri i loro monumenti? L’”ossessione” degli antichi abitanti dell’Isola per l’astronomia nacque improvvisamente con i nuraghe?
Uno studio di Mauro P. Zedda e Juan Antonio Belmonte (direttore dell'IAC e presidente della SEAC), pubblicato nel 2007, ci rivela interessantissimi dettagli di un’”astronomia” prima dei nuraghi.
Le oltre 2000 tombe ipogee dette Domus de Janas costituiscono la più importante testimonianza del periodo tardo neolitico (3800-2900 a.C. c.d. “cultura di Ozieri), possono trovarsi isolate, in piccoli gruppi o addirittura in vere e proprie necropoli. In molti casi sono decorate con incisioni o con meravigliosi dipinti rosso ocra. Il motivo più ricorrente sono le corna di toro, diversamente stilizzate, isolate o in sequenza.
Zedda e Belmonte, nel loro studio, passano in rassegna l’orientamento di 300 Domus de Janas in tutta l’Isola. L’istogramma degli orientamenti mostra dei picchi ben precisi ed evidenzia in modo nettissimo una distribuzione non casuale:
- un primo importante picco di frequenze è centrato sul Sud;
- un secondo picco sull’Est ed un terzo sugli azimut all’incirca corrispondenti al solstizio d’inverno
- pochissime sono le Domus orientate a Nord, dove il sole non splende.
Incredibilmente lo studio di 85 Tombe a Pozzetto della Sicilia (località Tanchina, Rocazzo e Capaci), coeve alle Domus de Janas Sarde, mostra un istogramma degli orientamenti assolutamente simile a quello delle Domus sarde (principale picco di azimuth poco prima del Sud, picco associato al solstizio d’inverno, minimo delle frequenze dopo il tramonto del solstizio d’inverno).
Zedda e Belmonte ritengono che questa similitudine non sia casuale ma possa essere indicativa di un qualche contatto tra i costruttori.
Molto simile alle Domus sarde anche l’orientamento delle tombe tunisine dette Hawanat, datate però al primo millennio a.C., il che permette di escludere un contatto tra le due civiltà.
Un’analisi più approfondita degli orientamenti delle Domus de Janas è stata ottenuta calcolando la declinazione degli orientamenti e dividendo le Domus in due gruppi, a Nord e a Sud del 40° parallelo.
I risultati sono ancor più sorprendenti:
- un cumulo di frequenze per le “basse” declinazioni (ca. -45°);
- un accumulo di frequenze sul solstizio d’inverno (principalmente per le Domus “meridionali”);
- un accumulo di frequenze sul solstizio estivo (principalmente per le Domus “ settentrionali”).
Ma la scoperta più suggestiva, relativa alle Domus de Janas sarde, è che il picco ad Est del diagramma degli azimuth, da luogo a un insieme di picchi di declinazione compatibili nel tempo con le Pleiadi e le Iadi, i più importanti asterismi della costellazione del Toro. Le Iadi costituiscono proprio la testa del Toro.
Che esista un nesso tra la testa del Toro celeste a cui guardano le Domus e le corna taurine raffigurate al loro ingresso?
Non lo sappiamo con certezza. Dovremmo sapere se davvero gli antichi Sardi vedevano già un Toro nella costellazione in cui noi lo vediamo ora.
L’identificazione della costellazione del Toro con un toro è molto antica, certamente risalente al Calcolitico e forse al tardo Paleolitico. Michael Rappenglück dell’Università di Monaco, ritiene che la costellazione del Toro sia addirittura rappresentata nella “Sala dei Tori” delle grotte di Lascaux (datate ca. al 15.000 a.C.) Di sicuro lo vedevano gli antichi Greci, per i quali Zeus assunse la forma di Toro per vincere Europa, una principessa fenicia.
Ma è suggestivo il fatto che davanti alla stupenda necropoli di Sant’Andrea Priu, campeggi un magnifico Toro, scolpito nella roccia, orientato con il tramonto delle Iadi nella prima fase della Cultura di Ozieri (3500 a.C.): oltre 1500 anni prima dei nuraghi, gli antichi Sardi contemplavano il cielo stellato.
Le evidenze scientifiche dell’orientamento astronomico dei nuraghi, costituiscono ormai un dato di fatto incontrovertibile, oggetto di diversi studi e pubblicazioni internazionali e facilmente verificabile per chiunque volesse.
Ma quando iniziarono gli antichi Sardi ad ammirare la volta stellata e a orientare con gli astri i loro monumenti? L’”ossessione” degli antichi abitanti dell’Isola per l’astronomia nacque improvvisamente con i nuraghe?
Uno studio di Mauro P. Zedda e Juan Antonio Belmonte (direttore dell'IAC e presidente della SEAC), pubblicato nel 2007, ci rivela interessantissimi dettagli di un’”astronomia” prima dei nuraghi.
Le oltre 2000 tombe ipogee dette Domus de Janas costituiscono la più importante testimonianza del periodo tardo neolitico (3800-2900 a.C. c.d. “cultura di Ozieri), possono trovarsi isolate, in piccoli gruppi o addirittura in vere e proprie necropoli. In molti casi sono decorate con incisioni o con meravigliosi dipinti rosso ocra. Il motivo più ricorrente sono le corna di toro, diversamente stilizzate, isolate o in sequenza.
Zedda e Belmonte, nel loro studio, passano in rassegna l’orientamento di 300 Domus de Janas in tutta l’Isola. L’istogramma degli orientamenti mostra dei picchi ben precisi ed evidenzia in modo nettissimo una distribuzione non casuale:
- un primo importante picco di frequenze è centrato sul Sud;
- un secondo picco sull’Est ed un terzo sugli azimut all’incirca corrispondenti al solstizio d’inverno
- pochissime sono le Domus orientate a Nord, dove il sole non splende.
Incredibilmente lo studio di 85 Tombe a Pozzetto della Sicilia (località Tanchina, Rocazzo e Capaci), coeve alle Domus de Janas Sarde, mostra un istogramma degli orientamenti assolutamente simile a quello delle Domus sarde (principale picco di azimuth poco prima del Sud, picco associato al solstizio d’inverno, minimo delle frequenze dopo il tramonto del solstizio d’inverno).
Zedda e Belmonte ritengono che questa similitudine non sia casuale ma possa essere indicativa di un qualche contatto tra i costruttori.
Molto simile alle Domus sarde anche l’orientamento delle tombe tunisine dette Hawanat, datate però al primo millennio a.C., il che permette di escludere un contatto tra le due civiltà.
Un’analisi più approfondita degli orientamenti delle Domus de Janas è stata ottenuta calcolando la declinazione degli orientamenti e dividendo le Domus in due gruppi, a Nord e a Sud del 40° parallelo.
I risultati sono ancor più sorprendenti:
- un cumulo di frequenze per le “basse” declinazioni (ca. -45°);
- un accumulo di frequenze sul solstizio d’inverno (principalmente per le Domus “meridionali”);
- un accumulo di frequenze sul solstizio estivo (principalmente per le Domus “ settentrionali”).
Ma la scoperta più suggestiva, relativa alle Domus de Janas sarde, è che il picco ad Est del diagramma degli azimuth, da luogo a un insieme di picchi di declinazione compatibili nel tempo con le Pleiadi e le Iadi, i più importanti asterismi della costellazione del Toro. Le Iadi costituiscono proprio la testa del Toro.
Che esista un nesso tra la testa del Toro celeste a cui guardano le Domus e le corna taurine raffigurate al loro ingresso?
Non lo sappiamo con certezza. Dovremmo sapere se davvero gli antichi Sardi vedevano già un Toro nella costellazione in cui noi lo vediamo ora.
L’identificazione della costellazione del Toro con un toro è molto antica, certamente risalente al Calcolitico e forse al tardo Paleolitico. Michael Rappenglück dell’Università di Monaco, ritiene che la costellazione del Toro sia addirittura rappresentata nella “Sala dei Tori” delle grotte di Lascaux (datate ca. al 15.000 a.C.) Di sicuro lo vedevano gli antichi Greci, per i quali Zeus assunse la forma di Toro per vincere Europa, una principessa fenicia.
Ma è suggestivo il fatto che davanti alla stupenda necropoli di Sant’Andrea Priu, campeggi un magnifico Toro, scolpito nella roccia, orientato con il tramonto delle Iadi nella prima fase della Cultura di Ozieri (3500 a.C.): oltre 1500 anni prima dei nuraghi, gli antichi Sardi contemplavano il cielo stellato.
mercoledì 19 ottobre 2011
Sa 'ena di Franco Laner
di Mauro Peppino Zedda
Sa ‘ena, è il titolo che Franco Laner ha dato al suo ultimo libro sulla Sardegna Preistorica (edito da Condaghes 2011).
L’autore insegna allo IAUV di Venezia Tecnologia dell’Architettura.
In lingua sarda bena o ‘ena significa vena, e il termine indica anche una sorgente d’acqua.
Laner intitolò Accabbadora il suo primo libro sui nuraghi (1999), intendendo con quel titolo rafforzare l’idea che sarebbe ora di smetterla con l’idea del nuraghe fortezza che per Laner è madre di ogni sciocchezza. Un definizione forte, che indica con chiarezza una verità scientifica. Infatti gli archeologi sardi (Lilliu in primis), convinti che i nuraghi siano fortezze, forzando le loro interpretazioni sulla cultura materiale nuragica spesso e volentieri sostengono delle vere e proprie assurdità (nuraghi trappola, finestrelle che diventano micidiali feritoie, palle litiche intese come proiettili di catapulte, ecc. ecc.).
Sa.’ena è diviso in otto capitoli
1) non confondere le cause con gli effetti
2) Antropomorfi
3) Dolmen
4) Nuraghi
5) La stele della tomba di giganti
6) Fonti e pozzi
7) Pintadere
8) I Telamoni.
Ogni capitolo rappresenta un piccolo saggio, osservato sotto la lente di un architetto curioso del metodo costruttivo, ma che sa che un sistema costruttivo non può essere disgiunto dalla visione del mondo della società che realizza l’opera. Franco Laner, dunque, oltre ai dettami della sua disciplina si affida a concetti di antropologia e storia della religioni, per cercare di capire i costruito dalle genti nuragiche e prenuragiche.
Per Laner il nuraghe è un segno atto a cosmizzare il tempo e lo spazio del popolo che li edificò.
Tutti i capitoli aggiungono qualcosa al già detto, a me piace soprattutto il primo (che da il tono a tutto il resto e sul quale tutta l'opera di Laner si incardina) di ordine metodologico dove Laner dal punto di vista scientifico si colloca tra quelli che ritengono che la qualità delle domande sia l’elemento chiave di qualsivoglia indagine scientifica.
L’autore lo presenterà a:
Ozieri, sabato 22 ott., ore 17.30 c/o sala Biblioteca, Piazza S. Francesco (presenta dott.A. Canalis)
Macomer, domenica 23 ott., ore 17, Fiera del libro (presenta dott. Roberto Sirigu).
Sa ‘ena, è il titolo che Franco Laner ha dato al suo ultimo libro sulla Sardegna Preistorica (edito da Condaghes 2011).
L’autore insegna allo IAUV di Venezia Tecnologia dell’Architettura.
In lingua sarda bena o ‘ena significa vena, e il termine indica anche una sorgente d’acqua.
Laner intitolò Accabbadora il suo primo libro sui nuraghi (1999), intendendo con quel titolo rafforzare l’idea che sarebbe ora di smetterla con l’idea del nuraghe fortezza che per Laner è madre di ogni sciocchezza. Un definizione forte, che indica con chiarezza una verità scientifica. Infatti gli archeologi sardi (Lilliu in primis), convinti che i nuraghi siano fortezze, forzando le loro interpretazioni sulla cultura materiale nuragica spesso e volentieri sostengono delle vere e proprie assurdità (nuraghi trappola, finestrelle che diventano micidiali feritoie, palle litiche intese come proiettili di catapulte, ecc. ecc.).
Sa.’ena è diviso in otto capitoli
1) non confondere le cause con gli effetti
2) Antropomorfi
3) Dolmen
4) Nuraghi
5) La stele della tomba di giganti
6) Fonti e pozzi
7) Pintadere
8) I Telamoni.
Ogni capitolo rappresenta un piccolo saggio, osservato sotto la lente di un architetto curioso del metodo costruttivo, ma che sa che un sistema costruttivo non può essere disgiunto dalla visione del mondo della società che realizza l’opera. Franco Laner, dunque, oltre ai dettami della sua disciplina si affida a concetti di antropologia e storia della religioni, per cercare di capire i costruito dalle genti nuragiche e prenuragiche.
Per Laner il nuraghe è un segno atto a cosmizzare il tempo e lo spazio del popolo che li edificò.
Tutti i capitoli aggiungono qualcosa al già detto, a me piace soprattutto il primo (che da il tono a tutto il resto e sul quale tutta l'opera di Laner si incardina) di ordine metodologico dove Laner dal punto di vista scientifico si colloca tra quelli che ritengono che la qualità delle domande sia l’elemento chiave di qualsivoglia indagine scientifica.
L’autore lo presenterà a:
Ozieri, sabato 22 ott., ore 17.30 c/o sala Biblioteca, Piazza S. Francesco (presenta dott.A. Canalis)
Macomer, domenica 23 ott., ore 17, Fiera del libro (presenta dott. Roberto Sirigu).
mercoledì 22 giugno 2011
Sul sacro nella Sardegna tradizionale
di Paolo Littarru
A margine del convegno sul Concilio Plenario Sardo tenutosi a Cagliari il 13.06.2011, l’antropologo studioso di cultura popolare sarda Bachisio Bandinu, ha formulato un’osservazione sulla religiosità nella società agropastorale sarda che mi ha colpito molto:
“la religiosità per i Sardi era e resta anche oggi un fatto prettamente femminile.
Il maschio adolescente abbandona completamente la religiosità materna quando inizia a lavorare col padre ed a badare al gregge.
L’ovile deve essere ancora evangelizzato”.
Questa osservazione fa il paio e mi evoca il libro “Archeologia del paesaggio nuragico” ed in particolare il contenuto del capitolo “La medicina e il sacro nella Sardegna tradizionale”, in cui l’autore, Mauro Peppino Zedda, cita Clara Gallini:
“…il contatto della donna con la chiesa è assiduo. Disponendo, rispetto all’uomo, di una maggior quantità di tempo libero, ha scoperto nella chiesa una zona consentita e l’ha utilizzata nei limiti del possibile in quello spazio di libertà “vigilata” che è, di domenica, una chiesa popolata quasi solo da donne, con gli uomini che le aspettano al varco sul sagrato”.
Sempre nello stesso capitolo del libro, Mauro Zedda evidenzia che “..gli uomini sardi vedono la partecipazione ai riti come “una cosa da donna”” e che “Attraverso le figurine bronzee realizzate negli scorci del II e nella prima parte del I millennio a.C. parrebbe che il sacro fosse officiato da donne. Un dato che trova conferma in certi aspetti della Sardegna tradizionale”.
Sulla base di un ragionamento antropologico, insomma, l’autore del libro ipotizza anche che nella civiltà nuragica, la religione e la magia nella Sardegna antica, fosse saldamente in mano alle donne.
Che anche l’attuale attitudine verso la religiosità evidenziata da Bandinu, la sua declinazione prettamente al femminile, possa considerarsi un portato della cultura nuragica giunto fino ai nostri tempi?
A margine del convegno sul Concilio Plenario Sardo tenutosi a Cagliari il 13.06.2011, l’antropologo studioso di cultura popolare sarda Bachisio Bandinu, ha formulato un’osservazione sulla religiosità nella società agropastorale sarda che mi ha colpito molto:
“la religiosità per i Sardi era e resta anche oggi un fatto prettamente femminile.
Il maschio adolescente abbandona completamente la religiosità materna quando inizia a lavorare col padre ed a badare al gregge.
L’ovile deve essere ancora evangelizzato”.
Questa osservazione fa il paio e mi evoca il libro “Archeologia del paesaggio nuragico” ed in particolare il contenuto del capitolo “La medicina e il sacro nella Sardegna tradizionale”, in cui l’autore, Mauro Peppino Zedda, cita Clara Gallini:
“…il contatto della donna con la chiesa è assiduo. Disponendo, rispetto all’uomo, di una maggior quantità di tempo libero, ha scoperto nella chiesa una zona consentita e l’ha utilizzata nei limiti del possibile in quello spazio di libertà “vigilata” che è, di domenica, una chiesa popolata quasi solo da donne, con gli uomini che le aspettano al varco sul sagrato”.
Sempre nello stesso capitolo del libro, Mauro Zedda evidenzia che “..gli uomini sardi vedono la partecipazione ai riti come “una cosa da donna”” e che “Attraverso le figurine bronzee realizzate negli scorci del II e nella prima parte del I millennio a.C. parrebbe che il sacro fosse officiato da donne. Un dato che trova conferma in certi aspetti della Sardegna tradizionale”.
Sulla base di un ragionamento antropologico, insomma, l’autore del libro ipotizza anche che nella civiltà nuragica, la religione e la magia nella Sardegna antica, fosse saldamente in mano alle donne.
Che anche l’attuale attitudine verso la religiosità evidenziata da Bandinu, la sua declinazione prettamente al femminile, possa considerarsi un portato della cultura nuragica giunto fino ai nostri tempi?
domenica 22 maggio 2011
Il pozzo di Santa Cristina, osservatorio lunare
di Mauro Peppino Zedda
Nel maggio 2011 è stato presentato a Paulilatino, Cagliari e Nuoro il libro di Arnold Lebeuf, Il pozzo di Santa Cristina, osservatorio lunare.
Un’opera che, tra le altre cose, cerca di dimostrare come il Santa Cristina fosse un osservatorio astronomico a carattere lunare, uno strumento attraverso il quale i suoi costruttori osservavano e registravano i moti della luna al fine di prevedere le eclissi.
Fino ad oggi era noto (vedi studi di C. Maxia e Lello Fadda, Il mistero dei nuraghi svelato con l’archeoastronomia 1981; Giuliano Romano, Archeoastronomia Italiana, 1991; Mauro Peppino Zedda, I Nuraghi tra Archeologia e Astronomia, 2004; Franco Laner, Il pozzo di Santa Cristina; Mauro Peppino Zedda, Archeologia del Paesaggio Nuragico, 2009) che il rapporto base altezza della cupola del pozzo, è caratterizzato da una geometria architettonica che coincide con buona approssimazione con una geometria astronomica. In altre parole, la linea passante tra il punto nord della base della cupola e il foro apicale forma un angolo (rispetto alla verticale) coincidente con l’angolo che caratterizza punto in cui la luna attraversa il meridiano nel giorno del lunistizio maggiore settentrionale.
Lebeuf nella sua opera si è preso la briga di capire la precisione dell’orientamento astronomico in questione, concludendo che se il pozzo fosse stato costruito attorno al mille a.C. (cioè riferendosi ai dati astronomici che caratterizzano la luna in quell’epoca) la precisione dell’orientamento sarebbe pari a più o meno 3 primi (un ventesimo di grado).
Considerando che siamo in una fase (di un ciclo millenario) dove l’altezza della Luna al lunistizio maggiore settentrionale si abbassa di 2 primi ogni 300 anni, è facile dedurre che l’orientamento mostra una precisione sbalorditiva. I costruttori sono stati capaci di una precisione assoluta, sbalorditiva!
Un’approssimazione di 1 grado attesterebbe comunque un significato astronomico del pozzo!
Lebeuf oltre a rilevare la precisione con cui il rapporto base altezza della cupola si rapporta all’altezza della Luna al momento del suo passaggio in meridiano nel lunistizio maggiore settentrionale, ha messo in luce che un filare dei cerchi di pietre isodome (dei 22 che compongono la cupola), spesso una volta e mezzo quelli che lo precedono, marca con estrema precisione il lunistizio medio!
La marcatura estremamente precisa del lunistizio medio, unitamente al maggiore e la presenza di una scala graduata (i filari di pietra presenti tra i due identici l’uno all’altro), induce Lebeuf a ritenere che il pozzo fosse uno strumento astronomico, uno strumento tecnologico in grado di fare osservazioni accurate dei moti lunari, tali da permettere a chi lo utilizzava di poter prevedere le eclissi.
Dunque attraverso l’accurato lavoro di Lebeuf il pozzo di Santa Cristina entra a far parte del patrimonio mondiale della storia della scienza, che si aggiunge all’essere un patrimonio mondiale dell’architettura e dell’astronomia.
Durante le presentazioni del libro di Lebeuf, archeologi e appassionati hanno riproposto alcuni dei luoghi comuni che circolano negli ottusi ambienti degli archeologi sardi a proposito degli argomenti che ostano ad una interpretazione astronomica del monumento.
Eccoli :
1) nel pozzo non poteva entrare la luce lunare perché, sopra il foro della cupola vi era un’altra struttura;
2) il pozzo si riempiva d’acqua e, dunque, non permetteva di fare le osservazioni;
3) la datazione del pozzo (per alcuni il pozzo risalirebbe al 1300 a.C. , invece che al 1000.);
4) il pozzo sarebbe stato ricostruito da Enrico Atzeni;
5) il pozzo sarebbe stato ricostruito dai romani in epoca più tarda.
Qualcuno ha definito queste obiezioni come delle spade di Damocle che inficiano la proposta di Lebeuf, sarebbe meglio definirle come le sciocchezze degli archeologi sardi, che invece di guardare la Luna continuano a guardare il dito.
L’archeologo che sostiene che i romani si sarebbero presi la briga di restaurare il pozzo adeguandosi stilisticamente allo stile dei costruttori, dovrebbe riprendere gli studi, dalle elementari ovviamente!
Poi vi è la schiera di coloro che mettono in dubbio la parola di Enrico Atzeni, che afferma che sulla cupola si è limitato a rimettere in opera uno (comunque sia originale) dei due conci che formano l’occulus. Su questi sarebbe meglio stendere un velo pietoso. Enrico Atzeni sarà pure un pessimo archeologo , ma non penso che sia bugiardo. Il restauro ha interessato la rampa e non la cupola.
Che sopra la cupola vi fosse un’altra struttura è possibile, ma non è certo, e sicuramente non avrebbe impedito alla luce della luna di penetrare l’occulus della cupola.
La datazione del pozzo al 1300 a.C. invece che al 1000, renderebbe ancor più preciso l’orientamento del pozzo con le fasi lunari.
A questo proposito si specifica che anche una approssimazione di 10 primi invece dei 3 riscontrati non invaliderebbe la proposta che il pozzo fosse un osservatorio, un’approssimazione maggiore (sino ad 1 grado) non inficerebbe il significato astronomico, ma in tal caso dovrebbe essere inteso come simbolico.
Altri sostengono che il pozzo si riempiva d’acqua e dunque era impossibile fare osservazioni astronomiche. Nella conferenza di Cagliari l’ing. Ambrogio Atzeni, che con l’archeologo Enrico Atzeni, diresse gli scavi e il restauro, ha detto che nella parte basale del pozzo vi erano delle aperture che facevano pensare che vi fosse già in origine una conduttura per tenere basso il livello dell’acqua. Anche senza la testimonianza dell’ing. Ambrogio Atzeni, conoscendo i condotti idraulici presenti in alcuni nuraghi (Arrubiu di Orroli, Santu Antine di Torralba) e in altri pozzi sacri, ci vuole poca immaginazione e solo buon senso per ipotizzare che nel Santa Cristina vi fosse un sistema di drenaggio.
Ma anche supponendo che non vi fosse il pozzo poteva essere svuotato anche manualmente, con dei secchi, quando si dovevano fare le osservazioni.
Quello che è certo e che nel secondo millennio a.C. la luce della Luna passante per l’occulus, quando ricorreva il lunistizio maggiore settentrionale, nel momento del suo passaggio in meridiano, sarebbe andata a cadere in fondo al pozzo, perfettamente, sottolineo perfettamente, tangente alla parete nord. Quattro anni e mezzo prima e quattro anni e mezzo dopo , cioè nel lunistizio medio la luce della luna si sarebbe fermata in uno speciale filare, prettamente riconoscibile tra i 22 che caratterizzano la cupola, un filare spesso una volta e mezzo gli altri.
Secondo Lebeuf il pozzo di Santa Cristina permetteva di conoscere con estrema precisione i tempi dei lunistizi medi e del lunistizio maggiore, una conoscenza che permetteva agli astronomi o astronome (che praticavano anche l’astrologia, beninteso) che operavano nel Santa Cristina di poter prevedere le eclissi.
Di fronte ad un manufatto perfettamente concepito in sintonia con i cicli lunari, è curioso notare l’atteggiamento di coloro che pur di negare l’evidenza ed affrontare la vergogna di essere responsabili di quarant’anni di ritardi nella acquisizione del significato astronomico del pozzo di Santa Cristina, propongono delle sciocche obiezioni, ad una tesi che pone il pozzo di Santa Cristina come un’opera di cui stanno discutendo gli storici della scienza.
Se prima dello studio di Lebeuf sapevamo che il pozzo di Santa Cristina era patrimonio mondiale dell’architettura e dell’astronomia, ora lo è anche della storia della scienza.
Nel maggio 2011 è stato presentato a Paulilatino, Cagliari e Nuoro il libro di Arnold Lebeuf, Il pozzo di Santa Cristina, osservatorio lunare.
Un’opera che, tra le altre cose, cerca di dimostrare come il Santa Cristina fosse un osservatorio astronomico a carattere lunare, uno strumento attraverso il quale i suoi costruttori osservavano e registravano i moti della luna al fine di prevedere le eclissi.
Fino ad oggi era noto (vedi studi di C. Maxia e Lello Fadda, Il mistero dei nuraghi svelato con l’archeoastronomia 1981; Giuliano Romano, Archeoastronomia Italiana, 1991; Mauro Peppino Zedda, I Nuraghi tra Archeologia e Astronomia, 2004; Franco Laner, Il pozzo di Santa Cristina; Mauro Peppino Zedda, Archeologia del Paesaggio Nuragico, 2009) che il rapporto base altezza della cupola del pozzo, è caratterizzato da una geometria architettonica che coincide con buona approssimazione con una geometria astronomica. In altre parole, la linea passante tra il punto nord della base della cupola e il foro apicale forma un angolo (rispetto alla verticale) coincidente con l’angolo che caratterizza punto in cui la luna attraversa il meridiano nel giorno del lunistizio maggiore settentrionale.
Lebeuf nella sua opera si è preso la briga di capire la precisione dell’orientamento astronomico in questione, concludendo che se il pozzo fosse stato costruito attorno al mille a.C. (cioè riferendosi ai dati astronomici che caratterizzano la luna in quell’epoca) la precisione dell’orientamento sarebbe pari a più o meno 3 primi (un ventesimo di grado).
Considerando che siamo in una fase (di un ciclo millenario) dove l’altezza della Luna al lunistizio maggiore settentrionale si abbassa di 2 primi ogni 300 anni, è facile dedurre che l’orientamento mostra una precisione sbalorditiva. I costruttori sono stati capaci di una precisione assoluta, sbalorditiva!
Un’approssimazione di 1 grado attesterebbe comunque un significato astronomico del pozzo!
Lebeuf oltre a rilevare la precisione con cui il rapporto base altezza della cupola si rapporta all’altezza della Luna al momento del suo passaggio in meridiano nel lunistizio maggiore settentrionale, ha messo in luce che un filare dei cerchi di pietre isodome (dei 22 che compongono la cupola), spesso una volta e mezzo quelli che lo precedono, marca con estrema precisione il lunistizio medio!
La marcatura estremamente precisa del lunistizio medio, unitamente al maggiore e la presenza di una scala graduata (i filari di pietra presenti tra i due identici l’uno all’altro), induce Lebeuf a ritenere che il pozzo fosse uno strumento astronomico, uno strumento tecnologico in grado di fare osservazioni accurate dei moti lunari, tali da permettere a chi lo utilizzava di poter prevedere le eclissi.
Dunque attraverso l’accurato lavoro di Lebeuf il pozzo di Santa Cristina entra a far parte del patrimonio mondiale della storia della scienza, che si aggiunge all’essere un patrimonio mondiale dell’architettura e dell’astronomia.
Durante le presentazioni del libro di Lebeuf, archeologi e appassionati hanno riproposto alcuni dei luoghi comuni che circolano negli ottusi ambienti degli archeologi sardi a proposito degli argomenti che ostano ad una interpretazione astronomica del monumento.
Eccoli :
1) nel pozzo non poteva entrare la luce lunare perché, sopra il foro della cupola vi era un’altra struttura;
2) il pozzo si riempiva d’acqua e, dunque, non permetteva di fare le osservazioni;
3) la datazione del pozzo (per alcuni il pozzo risalirebbe al 1300 a.C. , invece che al 1000.);
4) il pozzo sarebbe stato ricostruito da Enrico Atzeni;
5) il pozzo sarebbe stato ricostruito dai romani in epoca più tarda.
Qualcuno ha definito queste obiezioni come delle spade di Damocle che inficiano la proposta di Lebeuf, sarebbe meglio definirle come le sciocchezze degli archeologi sardi, che invece di guardare la Luna continuano a guardare il dito.
L’archeologo che sostiene che i romani si sarebbero presi la briga di restaurare il pozzo adeguandosi stilisticamente allo stile dei costruttori, dovrebbe riprendere gli studi, dalle elementari ovviamente!
Poi vi è la schiera di coloro che mettono in dubbio la parola di Enrico Atzeni, che afferma che sulla cupola si è limitato a rimettere in opera uno (comunque sia originale) dei due conci che formano l’occulus. Su questi sarebbe meglio stendere un velo pietoso. Enrico Atzeni sarà pure un pessimo archeologo , ma non penso che sia bugiardo. Il restauro ha interessato la rampa e non la cupola.
Che sopra la cupola vi fosse un’altra struttura è possibile, ma non è certo, e sicuramente non avrebbe impedito alla luce della luna di penetrare l’occulus della cupola.
La datazione del pozzo al 1300 a.C. invece che al 1000, renderebbe ancor più preciso l’orientamento del pozzo con le fasi lunari.
A questo proposito si specifica che anche una approssimazione di 10 primi invece dei 3 riscontrati non invaliderebbe la proposta che il pozzo fosse un osservatorio, un’approssimazione maggiore (sino ad 1 grado) non inficerebbe il significato astronomico, ma in tal caso dovrebbe essere inteso come simbolico.
Altri sostengono che il pozzo si riempiva d’acqua e dunque era impossibile fare osservazioni astronomiche. Nella conferenza di Cagliari l’ing. Ambrogio Atzeni, che con l’archeologo Enrico Atzeni, diresse gli scavi e il restauro, ha detto che nella parte basale del pozzo vi erano delle aperture che facevano pensare che vi fosse già in origine una conduttura per tenere basso il livello dell’acqua. Anche senza la testimonianza dell’ing. Ambrogio Atzeni, conoscendo i condotti idraulici presenti in alcuni nuraghi (Arrubiu di Orroli, Santu Antine di Torralba) e in altri pozzi sacri, ci vuole poca immaginazione e solo buon senso per ipotizzare che nel Santa Cristina vi fosse un sistema di drenaggio.
Ma anche supponendo che non vi fosse il pozzo poteva essere svuotato anche manualmente, con dei secchi, quando si dovevano fare le osservazioni.
Quello che è certo e che nel secondo millennio a.C. la luce della Luna passante per l’occulus, quando ricorreva il lunistizio maggiore settentrionale, nel momento del suo passaggio in meridiano, sarebbe andata a cadere in fondo al pozzo, perfettamente, sottolineo perfettamente, tangente alla parete nord. Quattro anni e mezzo prima e quattro anni e mezzo dopo , cioè nel lunistizio medio la luce della luna si sarebbe fermata in uno speciale filare, prettamente riconoscibile tra i 22 che caratterizzano la cupola, un filare spesso una volta e mezzo gli altri.
Secondo Lebeuf il pozzo di Santa Cristina permetteva di conoscere con estrema precisione i tempi dei lunistizi medi e del lunistizio maggiore, una conoscenza che permetteva agli astronomi o astronome (che praticavano anche l’astrologia, beninteso) che operavano nel Santa Cristina di poter prevedere le eclissi.
Di fronte ad un manufatto perfettamente concepito in sintonia con i cicli lunari, è curioso notare l’atteggiamento di coloro che pur di negare l’evidenza ed affrontare la vergogna di essere responsabili di quarant’anni di ritardi nella acquisizione del significato astronomico del pozzo di Santa Cristina, propongono delle sciocche obiezioni, ad una tesi che pone il pozzo di Santa Cristina come un’opera di cui stanno discutendo gli storici della scienza.
Se prima dello studio di Lebeuf sapevamo che il pozzo di Santa Cristina era patrimonio mondiale dell’architettura e dell’astronomia, ora lo è anche della storia della scienza.
mercoledì 16 marzo 2011
Buon compleanno Archeologia del Paesaggio Nuragico
di Franco Laner
Poco più di un anno fa usciva il volume di Mauro Zedda, compendio dei suoi studi sul campo, sui libri e soprattutto sul continuo confronto e dibattito. Con contenuti che stanno agitando le quiete acque dello stagno ufficiale dell’archeologia preistorica nuragica, che in sintesi si trastulla ancora con l’ipse dixit taramel-lilliano.
Il libro, per riassumerne il contenuto, non fa stazione solo o principalmente sul tema di cui Mauro è riconosciuto cultore, anche in campo internazionale, ovvero sull’archeoastronomia, ma, fedele al titolo, tratta un’esauriente panoramica sul paesaggio nuragico, sommatoria ed intreccio di aspetti etnologici, antropologici, religiosi, scientifici, culturali, anche materiali e tettonici, nel senso che sia l’ambiente costruito e trasformato, sia quello ambientale naturale, morfologico, geografico, diventano componenti di una ricostruzione della società nuragica complessiva a cui il libro mirava, in modo da avere un contenitore entro cui poter collocare nuove acquisizioni, ipotesi e teorie.
I 20 capitoli del libro, le numerose schede tecniche e la ricchissima bibliografia perimetrano un bacino entro cui ci si può orientare e soprattutto confrontare. Ciò non deve però far pensare ad un lavoro compilativo, anzi il libro è progettuale, propositivo. L’apporto originale lo rilevo non tanto nell’archeoastronomia –scontato ed intrigantissimo!- quanto piuttosto nel modello di ricerca che contraddistingue l’opera, improntata al paradigma epistemologico inaugurato da Popper, ai coraggiosi e documentati capitoli sul modello teoretico della società nuragica, sulla religione e soprattutto il mirabile capitolo 20 sul residuale nuragico, che per me, da solo, paga il biglietto!
Il consuntivo culturale diventa, sotto questi aspetti, non facile e non registrabile nell’anno di vita del libro. Sappiamo benissimo quanto certe teorie -una per tutte il nuraghe=fortezza, scientificamente insostenibile, fuorviante, ostativo di ogni progresso- siano difficili da far morire, grazie anche all’accanimento terapeutico della classe archeologica isolana, che ancora vive di rendita parassitaria taramel-lilliana. Una cosa però mi pare indiscutibile. La nuova visione che il libro offre sul paesaggio nuragico è lo strumento più efficace per inaugurare una nuova stagione di studio per l’archeologia nuragica. Non se ne può fare a meno se nell’approccio alla disciplina si è onestamente intenzionati e liberi da pregiudizi.
Con sicurezza posso dire invece, per la frequentazione che ho con Mauro, che per lui questa è una tappa, un lavoro che prosegue. Quando una tesi -dico spesso ai miei studenti- un lavoro di ricerca è ben riuscito, si capisce dal fatto che, non ancora finito e messo in bella, ha già provocato nuove ricerche e interesse!
Insomma non basta a Mauro il riconoscimento di riferimento per l’archeoastronomia nuragica, che Michael Hoskin gli attribuisce nella presentazione del libro, ma ci sono intenzioni che travalicano e che vogliono conferma di sincretismo scientifico, inaugurando un nuovo capitolo della storia della Sardegna.
Venezia, 15 Febbraio 2011
Poco più di un anno fa usciva il volume di Mauro Zedda, compendio dei suoi studi sul campo, sui libri e soprattutto sul continuo confronto e dibattito. Con contenuti che stanno agitando le quiete acque dello stagno ufficiale dell’archeologia preistorica nuragica, che in sintesi si trastulla ancora con l’ipse dixit taramel-lilliano.
Il libro, per riassumerne il contenuto, non fa stazione solo o principalmente sul tema di cui Mauro è riconosciuto cultore, anche in campo internazionale, ovvero sull’archeoastronomia, ma, fedele al titolo, tratta un’esauriente panoramica sul paesaggio nuragico, sommatoria ed intreccio di aspetti etnologici, antropologici, religiosi, scientifici, culturali, anche materiali e tettonici, nel senso che sia l’ambiente costruito e trasformato, sia quello ambientale naturale, morfologico, geografico, diventano componenti di una ricostruzione della società nuragica complessiva a cui il libro mirava, in modo da avere un contenitore entro cui poter collocare nuove acquisizioni, ipotesi e teorie.
I 20 capitoli del libro, le numerose schede tecniche e la ricchissima bibliografia perimetrano un bacino entro cui ci si può orientare e soprattutto confrontare. Ciò non deve però far pensare ad un lavoro compilativo, anzi il libro è progettuale, propositivo. L’apporto originale lo rilevo non tanto nell’archeoastronomia –scontato ed intrigantissimo!- quanto piuttosto nel modello di ricerca che contraddistingue l’opera, improntata al paradigma epistemologico inaugurato da Popper, ai coraggiosi e documentati capitoli sul modello teoretico della società nuragica, sulla religione e soprattutto il mirabile capitolo 20 sul residuale nuragico, che per me, da solo, paga il biglietto!
Il consuntivo culturale diventa, sotto questi aspetti, non facile e non registrabile nell’anno di vita del libro. Sappiamo benissimo quanto certe teorie -una per tutte il nuraghe=fortezza, scientificamente insostenibile, fuorviante, ostativo di ogni progresso- siano difficili da far morire, grazie anche all’accanimento terapeutico della classe archeologica isolana, che ancora vive di rendita parassitaria taramel-lilliana. Una cosa però mi pare indiscutibile. La nuova visione che il libro offre sul paesaggio nuragico è lo strumento più efficace per inaugurare una nuova stagione di studio per l’archeologia nuragica. Non se ne può fare a meno se nell’approccio alla disciplina si è onestamente intenzionati e liberi da pregiudizi.
Con sicurezza posso dire invece, per la frequentazione che ho con Mauro, che per lui questa è una tappa, un lavoro che prosegue. Quando una tesi -dico spesso ai miei studenti- un lavoro di ricerca è ben riuscito, si capisce dal fatto che, non ancora finito e messo in bella, ha già provocato nuove ricerche e interesse!
Insomma non basta a Mauro il riconoscimento di riferimento per l’archeoastronomia nuragica, che Michael Hoskin gli attribuisce nella presentazione del libro, ma ci sono intenzioni che travalicano e che vogliono conferma di sincretismo scientifico, inaugurando un nuovo capitolo della storia della Sardegna.
Venezia, 15 Febbraio 2011
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